HAPPY BIRTHDAY GURU NANAK!

Oggi la comunità SIKH, stanziata in tutto il mondo, festeggia il compleanno del suo primo guru (in sanscrito significa “discepolo” o “allievo” e in lingua punjabi vuol dire “Dio”, “rivelatore”, “profeta”), GURU NANAK.

NANAK nasce, nel 1469, a Tolevandi (ora Nankana Sahib), vicino a Lahore (che dal 1947, anno della spartizione inglese, appartiene al Punjab pakistano).

Guru Nanak è il fondatore del Sikhismo, religione nata alla fine del XV secolo nel Punjab indiano. Nanak, di estrazione indu, sposato e con due figli, conoscitore anche del persiano e dell’arabo, dedica la sua vita alla diffusione del messaggio ricevuto da Dio e pertanto viaggia per 25 anni sino a raggiungere Tibet, Sri Lanka, La Mecca e Afghanistan, visitando la maggior parte di diversi centri di culto induisti, musulmani, gianisti e così via.

Nel 1496 Nanak, ottenuta l’illuminazione, comincia a predicare principi nuovi e rivoluzionari rispetto all’assetto sociale, culturale e religioso di quel tempo. In una società rigidamente suddivisa in caste, classi e sessi, egli sancisce la fratellanza e la incondizionata uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio e davanti agli uomini. Egli sfida moralmente la povertà istituendo i Langar (mense comuni vicino al tempio dove chiunque può ottenere cibo gratuitamente e tutt’oggi diffuse in India), demolendo così anche la secolare idea di contaminazione del cibo dovuta alla mera presenza di un intoccabile (si veda su questo blog “Il sistema castale”). La condivisione con i bisognosi del reddito eccedente le esigenze della famiglia costituisce, da allora, uno dei fondamenti della religione Sikh.

Nanak condanna la pura idolatria e le credenze pseudo religiose lontane dalla vera elevazione spirituale (il sikhismo non adora idoli e non ha un clero precostituito ed organizzato) e sancisce la sacralità della vita terrena (lungi da ogni forma di ascetismo ed isolamento dalla vita sociale che non hanno alcuna vocazione produttiva); la vita umana non è un fardello da sopportare in attesa di una vita eterna ma è gioia e privilegio da onorare come mezzo di formazione spirituale. Così la vita morale diventa il solo mezzo di progresso spirituale che si realizza dentro la vita sociale e familiare, attraverso la preghiera e il lavoro praticato sia per il sostentamento familiare che per servire la comunità (il sikhismo professa di guadagnare lavorando onestamente e di condividerne con gli altri il risultato). Viene contestualmente condannata ogni forma di corruzione ed avidità castale (particolarmente quella sacerdotale, secolarmente privilegiata).

NANAK ha professato un messaggio d’ amore per tutti in lingua locale (e non in sanscrito, conosciuto  da pochi), ha scritto inni religiosi, inneggiato alla bellezza della vita e della natura in quanto doni divini.

Al termine dei suoi viaggi missionari, duranti i quali ha studiato ed avvicinato le più diverse religioni diffondendo il suo Sikhismo,  si ritira a Kartarpur, un piccolo villaggio nel Punjab, conducendo la vita di contadino e continuando da lì la sua missione.

Poco prima di morire NANAK nomina il suo successore, ANGAD, suo discepolo. Da allora, per ancora cento anni, ogni guru designato dal precedente avrebbe nominato il suo successore, fino a GURU GOBIND SINGH, il decimo ed ultimo guru che non ravvisò la necessità di un nuovo profeta, deponendo l’incarico di guru immortale al Sacro Libro dei Sikh, il Guru Grant Sahib ( o Adi Granth), negli anni alimentato dai messaggi illuminanti dei guru ed oggi composto di 1430 pagine e 5.930 versi di preghiere, per ricordare il Creatore in ogni momento (altro principio fondamentale del Sikhismo).

GURU NANAK muore il 7 settembre 1539 a Kartarpur, nel Punjab indiano.

La vita di Guru Nanak è raccontata nella raccolta Janam Sakhis.

Oggi i Sikh rappresentano il 2% della popolazione indiana, concentrati soprattutto nel Punjab indiano, nel nord – ovest dell’India, ai confini con il Pakistan. Essi professano il loro culto nei Gurudwara (templi dove si entra a piedi nudi e capo coperto), rigorosamente forniti di langar, la mensa aperta a tutti. Il tempio  è aperto anche alle donne ritenute, nella società sikh, al pari dell’uomo. In ogni Gurudwara viene letto ed accudito, avvolto nella seta e tenuto sotto un baldacchino,  il Libro Sacro e cantati i Gurbani, gli inni sacri. Il Gurudwara più importante si trova ad Amritsar dove, nel Golden Temple, milioni di pellegrini venerano il Libro sacro. Dopo l’ardas, la preghiera conclusiva, i fedeli si dividono la karah prasad, un’offerta di cibo a base di semolino dolce, acqua e burro.

Il Sikhismo, monoteista, non nega la credenza nella reincarnazione e degli effetti delle azioni sulle vite successive, cioè il Karma. Lo scopo ambito è di interrompere il ciclo delle nascite allo scopo di una congiunzione con il Creatore, Unico ed Indivisibile.

 

immagine da sito: vahrehvah.com

VENITE CON ME NEL KARMA (PARTE 4)

Himalaya

IL KARMA O LEGGE DI CAUSA ED EFFETTO a cura di Sabina Guzzanti

(PARTE 4) continua da parte 3

Come si forma (il Karma)


Il Daishonin afferma che tutte le sofferenze, sia fisiche che spirituali, nascono dai tre veleni di avidità, stupidità e collera. I desideri terreni e le sofferenze che questi producono sono legati al karma. I desideri terreni, il karma e la sofferenza sono chiamati i tre sentieri.
I sentieri si snodano in questo modo: la sofferenza provoca tantissimi desideri i quali inducono ad azioni che creano karma negativo.
L’effetto del karma si manifesta di nuovo come sofferenza fisica o mentale, che a sua volta alimenta nuovi desideri. Il karma che si sviluppa da questi è sempre più negativo e il ciclo continua all’infinito.
Il punto critico di tutto questo processo sono i desideri. Desiderio in sanscrito si dice
klesha e a volte è tradotto con “illusione”. Il termine indica tutte le funzioni che disturbano una persona a livello fisico e spirituale. Rappresentano il lato oscuro della vita e impediscono alle persone di ottenere l’Illuminazione.
Le illusioni si dividono in fondamentali e derivate. Le fondamentali sono: avidità, collera, stupidità, arroganza, dubbio e visioni distorte.
Quelle derivate sono: l’illusione che nasce dal considerare l’io come assoluto; l’illusione che nasce dal considerare la morte come il termine della vita; quella che nasce dal non riconoscere la legge di causalità; quella che nasce dall’attaccamento a idee sbagliate che fanno considerare superiori le cose inferiori; quella che nasce dal considerare pratiche e precetti erronei come veicoli per raggiungere la Buddità.
Nella prima parte della sua vita Shakyamuni predica vari insegnamenti per sfuggire ai desideri terreni e alle illusioni. I più noti sono l’insegnamento della dodecupla catena che spiega la relazione tra ignoranza e sofferenza, le quattro nobili verità e l’ottuplice sentiero. Negli ultimi anni della sua predicazione Shakyamuni espone il Sutra del Loto. In questo insegnamento rivela che, al contrario di quanto aveva sostenuto fino a quel momento, i desideri terreni non vanno estirpati ma trasformati in Illuminazione. Nel Sutra del Loto si legge: «Anche senza estinguere i desideri terreni essi possono purificare tutti i loro sensi ed estirpare i loro errori». E che: «Le sofferenze di nascita e morte sono nirvana».

(continua….)

VENITE CON ME NEL KARMA (PARTE 3)

IL KARMA O LEGGE DI CAUSA ED EFFETTO a cura di Sabina Guzzanti

(PARTE 3) continua da parte 2

Come nasce storicamente (Il Karma)
Il Buddismo assorbe il concetto di karma, o Legge di causa ed effetto, dalla precedente tradizione induista. Nel Buddismo però lo stesso concetto è utilizzato con una funzione molto diversa.
Nella “Via della liberazione induista” l’essere umano, o meglio la sua anima, è destinata a seguire il ciclo delle rinascite (samsara), attraverso le quali entra a far parte della natura vivente come pianta o animale. Quando l’anima si diparte dal corpo al momento della morte, sosta per tre epoche prima di trasmigrare nel corpo di un altro essere vivente; la forma della nascita dipenderà, secondo la legge del karma, dalle qualità etiche delle azioni compiute nel passato. Nell’Induismo, quindi, l’ordinamento del mondo è fondato su un principio etico,fondato a sua volta sul karma o legge di causalità. Qui il karma però è senza inizio né fine. Le colpe commesse nel passato non si possono espiare se non dopo un ciclo lunghissimo di rinascite e mai durante l’esistenza presente. La legge di causa ed effetto viene quindi interpretata in senso fatalista. Se nasci povero vuol dire che te lo sei meritato e non ci puoi fare niente. La vita è vista come un mezzo per espiare le proprie colpe. La conseguenza politica di questo modo di interpretare l’esistenza è per esempio l’ordinamento in caste della società.
Shakyamuni diffonde e predica il Buddismo in aperto contrasto con questa visione del mondo. Sostiene che gli esseri umani hanno fondamentalmente tutti lo stesso potenziale e che la Legge di causa ed effetto va utilizzata per trasformare il proprio destino e non per subirlo. Questa Legge meravigliosa secondo Shakyamuni esiste per condurre le persone alla felicità e all’Illuminazione. La natura profonda di questa Legge è la compassione. La sua funzione non è quella di punire o sottomettere.
La prima sistematizzazione buddista del concetto di karma risale al V sec. d.C., quando il monaco Vasubandhu, appartenente alla corrente mahayana, espose il concetto della alayavijnana, o deposito (alaya) delle percezioni. Vasubandhu intuisce la presenza di una coscienza che funziona come deposito di tutte le nostre esperienze: un vero e proprio magazzino del karma. Fino ad allora nel Buddismo venivano individuati sei tipi di coscienze corrispondenti ai sei sensi: vista, udito, gusto, olfatto, tatto, e una mente cosciente. Vasubandhu individuò oltre a queste la coscienza manas (ragione) e quella alaya (deposito).
Lo studioso cinese T’ien-t’ai successivamente completò il quadro individuando una nona coscienza, la coscienza amala (pura), che Nichiren Daishonin identificò con Nam-myoho-renge-kyo.
Il sistema dei sei tipi di coscienza comportava che ciascun individuo percepisse il mondo esterno in base al particolare e soggettivo funzionamento della sua mente conscia; con Vasubandhu, grazie al sistema delle otto coscienze, tutte le persone del passato, del presente e del futuro possono percepire le cose in maniera pressoché identica. I semi dell’esperienza passata vengono sistemati infatti nella “coscienza-deposito”, e una volta influenzati da stimoli esterni mettono radici nel presente. Tutte le esperienze del mondo empirico sono quindi il prodotto di semi accumulati nell’ottava coscienza e richiamati in vita da stimoli esterni. Tutti gli esseri viventi sono in genere simili, possiedono depositi simili di semi e quindi sono propensi a percepire il mondo esterno in modo analogo.

VENITE CON ME NEL KARMA (PARTE 2)

IL KARMA O LEGGE DI CAUSA ED EFFETTO a cura di Sabina Guzzanti

(PARTE 2) continua da parte 1

Secondo il Buddismo quindi tutti gli aspetti della vita sono legati fra loro dalla legge di causalità. Non solo ciò che è visibile e materiale, ma anche ciò che è invisibile.
Tutto ha una conseguenza. Non esistono azioni fisiche o spirituali che non abbiano prima o poi un effetto. Il nostro pensiero può essere invisibile a tutti, ma non è neutro per la Legge di causalità. Possiamo dichiarare cose che non faremo mai, ma quella dichiarazione produrrà un effetto.
Una stessa azione produrrà effetti diversi a seconda dello spirito con cui è stata compiuta. Si può offrire aiuto ad esempio per generosità o per umiliare qualcuno o per farsi pubblicità o per opportunismo. L’effetto che avrà sulla nostra vita sarà coerente con l’intenzione con cui abbiamo agito. Che riusciamo a ingannare gli altri o meno, che i nostri gesti abbiano il giusto riconoscimento o meno, il seme che abbiamo piantato germoglierà e potrà essere per noi fonte di nutrimento o di malessere a seconda della natura dell’azione che lo ha generato. Il presente, sia individuale che collettivo, è quindi generato dal karma accumulato nel passato.
Tuttavia quando abbiamo una sofferenza tendiamo a pensare che siano gli altri, o più genericamente “l’esterno”, a farci soffrire. Che ci sia un colpevole e che noi siamo le vittime. Secondo la visione buddista la realtà è diversa: dentro la nostra vita esiste una causa per quello che ci accade, ovvero noi siamo gli autori, gli altri sono solo dei complici, lo specchio che riflette il nostro karma.
Né la teoria del karma ci deve indurre a pensare che sia tutto già scritto e che ogni sforzo per migliorare la nostra condizione sia inutile. Se è vero che il presente è modellato dal passato, è vero pure che il presente modella il futuro. Per questo
Nichiren Daishonin cita un brano del sutra Shinjikan: «Se vuoi conoscere le cause passate guarda i risultati che si manifestano nel presente, se vuoi conoscere gli effetti che si manifesteranno nel futuro, guarda le cause che stai ponendo nel presente».
Il presente è quindi la chiave di tutto. Difficile da afferrare, da descrivere, da comunicare (appena lo nomini è già passato), è la parte più pura e incontaminata della vita e in esso, secondo il Buddismo, è custodito un potere immenso. Infatti il principio di
ichinen sanzen (tremila mondi in un singolo istante di vita), che lo studioso cinese T’ien-t’ai (538-597) formulò come spiegazione teorica di Myoho-renge-kyo, altro non è che la descrizione minuziosa di tutto ciò che contiene ogni singolo istante di vita, ovvero l’attimo presente. Dall’aspetto esteriore alle potenzialità, alla sua storia passata, alla sua particolare relazione col mondo, alla relazione del mondo con esso, a tutte le sue qualità, buone e cattive, costruttive e distruttive, alle diverse sfere dell’universo con cui entra in relazione, tutto questo e altro è contenuto in un singolo istante. T’ien-t’ai e i suoi coltissimi e dotati discepoli meditavano su questo principio per cercare di aprire la mente e renderla adeguata alla complessità della realtà.
Il presente è il luogo che tutti cerchiamo, l’unico che può darci sollievo e gioia.
Ma pur essendo lì alla portata di tutti noi, sono rari i momenti in cui riusciamo a starci dentro. È come se ci fossero mille correnti che ce ne allontanano. Queste correnti sono per l’appunto il karma.

(continua………………………)

VENITE CON ME NEL KARMA (PARTE 1)

La Rivista “Buddismo e società” n. 86 del bimestre maggio-giugno 2001, edita dall’Istituto Buddista Italiano SOKA GAKKAI, ha pubblicato un bellissimo articolo di Sabrina Guzzanti. Si, quella famosa, brava e buddista. L’articolo è un po’ lungo e quindi lo proporrò in più parti perché merita di essere letto nella sua completezza. E’ titolato IL KARMA O LEGGE DI CAUSA ED EFFETTO. Si parla di Karma, la legge di causa ed effetto che permea tutta la filosofia religiosa induista e buddista anche se con significati differenti (se non addirittura opposti). Si può non essere appassionati di cultura orientale, si può non credere nel precetto religioso, ma io ritengo che questi concetti, oltre ad essere attuali, ci insegnino a vivere meglio, anche se non sempre è facile applicarli e dimenticare che, dopotutto, almeno carnalmente, siamo esseri finiti. Anche il viaggiatore che si reca in India ne può trarre sapienza e conoscenza per davvero comprendere alcune di quelle che sembrano contraddizioni ma che, in fondo, hanno una ragione.

L’articolo comincia con questi versi e continua fino alla fine di questo scritto (lo specifico per rispetto all’autore).

IL KARMA O LEGGE DI CAUSA ED EFFETTO a cura di Sabina Guzzanti (PARTE 1)

Se è la sofferenza che temi, se è la sofferenza

ciò che detesti

non compiere mai azioni cattive,

perché tutto si vede per quanto segreto.

Persino un volo nell’aria

non ti può liberare dalla sofferenza

dopo che l’azione cattiva è stata commessa.

Non nel cielo, né nel mezzo dell’oceano

né se ti nascondessi nelle crepe delle montagne,

un angolo riusciresti a trovare in questa

terra tutta,

dove il karma il colpevole non raggiungerebbe.

Ma se vedi il male che altri ti fanno

e se sentitamente tu disapprovi,

stai attento a non fare al medesimo modo,

perché le azioni delle persone con esse rimangono.

Quelli che imbrogliano negli affari,

quelli che contro il Dharma agiscono,

quelli che frodano, quelli che truffano,

se stessi gettano in un gorgo,

perché le azioni delle persone con esse rimangono.

Qualsivoglia azione possa un individuo

compiere,

siano esse di gioia portatrici, siano esse cattive,

un’eredità per lui costituiscono,

le azioni non svaniscono senza lasciar traccia (…).

Un’azione cattiva non necessariamente

causa subito a chi l’ha compiuta

un qualche guaio.

Essa nascostamente allo stolto superficiale si accompagna,

proprio come un fuoco che giace sotto la cenere.

Proprio come una lama appena forgiata,

l’azione cattiva nell’immediato non provoca alcuna ferita.

Proprio il ferro produce la ruggine

che lentamente di certo lo consumerà.

Colui che il male compie,

dalle sue stesse azioni è portato

a una vita di sofferenza.

Questi versi sono tratti dal Dharmapada, una delle scritture buddiste più antiche e contengono probabilmente la prima enunciazione del concetto di Karma.

KARMA è una parola sanscrita che significa AZIONE COMPIUTA ed è un termine generico designante gli effetti delle nostre azioni: le azioni fisiche che compiamo, le parole che pronunciamo e i pensieri che passano per la nostra mente. Ciascuna di queste tre azioni produce un effetto latente nella nostra vita, che causa successivamente un evento manifesto. Quindi il Karma indica contemporaneamente le cause e gli effetti derivanti dalle azioni, parole e pensieri che fanno parte della nostra vita quotidiana, buoni e cattivi, leggeri e pesanti, superficiali e profondi.

(CONTINUA…………..)

A GENOVA – Viaggio intorno all’uomo – Steve McCurry

Steve McCurry è nato il 23 aprile 1950 nella piccola città di Newtown Township, in Pennsylvania.

Dopo aver lavorato al Today’s Post presso il King of Prussia per due anni, partì per l’India come fotografo freelance. È stato proprio in India che McCurry ha imparato a guardare ed aspettare la vita. “Se sai aspettare”, disse, “le persone si dimenticano della tua macchina fotografica e la loro anima esce allo scoperto”.
Travestito con abiti tradizionali, ha attraversato il confine tra il Pakistan e l’Afghanistan, controllato dai ribelli poco prima dell’invasione russa. Quando tornò indietro, portò con sé rotoli di pellicola cuciti tra i vestiti.
McCurry ha poi continuato a fotografare i conflitti internazionali, tra cui le guerre in Iran-Iraq, a Beirut, in Cambogia, nelle Filippine, in Afghanistan e la Guerra del Golfo.

McCurry si concentra sulle conseguenze umane della guerra, mostrando non solo quello che la guerra imprime al paesaggio ma, piuttosto, sul volto umano. Egli è guidato da una curiosità innata e dal senso di meraviglia circa il mondo e tutti coloro che lo abitano, ed ha una straordinaria capacità di attraversare i confini della lingua e della cultura per catturare storie di esperienza umana. “La maggior parte delle mie foto è radicata nella gente. Cerco il momento in cui si affaccia l’anima più genuina, in cui l’esperienza s’imprime sul volto di una persona. Cerco di trasmettere ciò che può essere una persona colta in un contesto più ampio che potremmo chiamare la condizione umana. Voglio trasmettere il senso viscerale della bellezza e della meraviglia che ho trovato di fronte a me, durante i miei viaggi, quando la sorpresa dell’essere estraneo si mescola alla gioia della familiarità”.


Il ritratto più famoso di McCurry, Ragazza afgana, è stato scattato in un campo profughi vicino a Peshawar, in Pakistan. L’immagine è stata nominata come “la fotografia più riconosciuta” nella storia della rivista National Geographic ed il suo volto è diventato famoso ed è ora ricodato come “la foto di copertina di giugno 1985”. .L’identità della “Ragazza afghana”, è rimasta sconosciuta per oltre 17 anni finché McCurry ed un team del National Geographic trovarono la donna, Sharbat Gula, nel 2002. Quando finalmente McCurry la ritrovò, disse: “La sua pelle è segnata, ora ci sono le rughe, ma lei è esattamente così straordinaria come lo era tanti anni fa”.

Anche se McCurry fotografa sia in digitale che in pellicola, ha ammesso la sua preferenza per quest’ultima. Eastman Kodak concesse a McCurry l’onore di utilizzare l’ultimo rullino di pellicola Kodachrome, che è stato prodotto nel luglio 2010 da Dwayne’s Photo (nella città di Parsons in Kansas) e che sarà ospitata presso la George Eastman House.

fonte: Wikipedia
foto: McCurry (e chi se no?)

Steve McCurry – Viaggio intorno all’Uomo
Genova, Palazzo Ducale
18 ottobre 2012 – 24 febbraio 2013

Dimenticare la meta per capire il mondo

Mi sono spesso chiesta da dove derivi questa matta voglia di viaggiare. Mi do una risposta ogni volta che viaggio. Lungi da anelare a soggiorni preconfezionati e lussuosi, provo uno strano piacere a lasciare la casa e tutte le quotidiane sicurezze per accogliere a braccia aperte l’imprevisto in cui , come noti autori hanno scritto, sta l’opportunità. Provo un certo piacere a staccarmi da terra quando l’aereo lascia la pista perché è quasi un capodanno della vita dove, ad ogni ritorno, si riparte da zero.  Il viaggio alimenta la mia anima e la mia mente perché è come se il cuore, inaridito dall’abitudine,  pulsasse più forte e il cervello, atrofizzato da confezionate informazioni, ritrovasse la sua identità. In viaggio si perde la cognizione del tempo e si acquista la cognizione di se stessi. Io, non per ragioni pratiche di peso o di spazio,  viaggio poco carica  deliziandomi dell’odore della terra e della gente assorbito dalle mie vesti che, al ritorno, sprizza fuori dalla mia sacca. Il viaggio diventa quasi lo scopo stesso della vita, il filo conduttore dell’esistenza, mentre la quotidianità appare come semplice intervallo di riposo. Mi porto via esperienze, incontri, emozioni mettendo bandierine non sulla mappa ma dentro il mio cuore. (TESTO BY PASSOININDIA).

Riporto un bellissimo articolo di UMBERTO GALIMBERTI  pubblicato su “La Repubblica” il 30 luglio 2006 che, a mio parere, rende tutto il senso del viaggio.  Titolo: Dimenticare la meta per capire il mondo.

Quando, in procinto di iniziare un viaggio, vedo caricare le macchine fino all’inverosimile, in tutti quegli oggetti che riempiono il bagagliaio, i sedili posteriori e perfino il tetto delle vetture, scorgo solo la paura di abbandonare la casa, le proprie collaudate abitudini e l’incapacità di offrirsi all’insolito che è la vera promessa segreta di ogni viaggio. Certo se il viaggio è un pacchetto d’agenzia, allora, anche se la sua meta sono i confini del mondo, non c’è spaesamento che percorra l’anima come un brivido che la rende instabile. Ma quando viaggiare è offrirsi al rischio di non essere compresi e, al limite, neppure letti come uomini o come simili, allora è la terra a offrirsi senza nessun orizzonte, è il cielo a coprire una vastità senza riferimento, è la storia a inabissarsi nei secoli per evocare tutta quell’immaginazione che mai avremmo sospettato avesse riscontri di realtà. Il sole sorge insolito e la notte copre tutte le insidie che l’uomo primitivo temeva nascoste nel buio. Le facce delle persone appaiono nei loro lineamenti indecifrabili, dove l’intenzione non si traduce in linguaggio e la comprensione è affidata all’empatia dell’animale. Qui il viaggiatore incontra quella parte dell’anima che è la meno spirituale perché è la più istintiva. L’anima-animale appunto. E istinto qui vuol dire fondersi con gli odori, le variazioni di temperatura, i suoni, il vento, con il sole che cuoce sulla testa e porta i pensieri su vie associative inconsuete, dove ciò che alla fine si trova è la giusta dimensione di sé. Questa dimensione significa consapevolezza della propria spaesata e casuale esistenza su una terra, che quando non è tecnicamente organizzata come la nostra, dove ogni oggetto esprime nella sua funzionalità il suo senso, mostra, devastante nella sua vastità, la sua totale indifferenza alla sorte umana e soprattutto alla nostra sorte. Da questo disincanto e dall’instabilità che ne scaturisce nasce un paesaggio insolito, simile allo spaesamento, in cui si annuncia una libertà diversa, non più quella del padrone di casa che domina la sua abitazione, ma quella del viandante che al limite non domina neppure la sua via. Consegnato al nomadismo, l’uomo spinge avanti i suoi passi, ma non più con l’intenzione di trovare qualcosa: la casa, la patria, l’amore, la verità, la salvezza. Anche queste parole nel viaggio si fanno nomadi, non più mete dell’intenzione o dell’azione umana, ma doni del paesaggio che ha reso l’uomo viandante senza una meta, perché è il paesaggio stesso la meta, basta percepirlo, sentirlo, accoglierlo nell’assenza spaesante del suo senza-confine. Facendoci uscire dall’abituale e quindi dalle nostre abitudini, il viaggio ci espone all’insolito dove è possibile scoprire, ma solo per una notte o per un giorno, come il cielo si stende su quella terra, come la notte dispiega nel cielo costellazioni ignote, come la religione aduna le speranze, come la tradizione fa popolo, la solitudine fa deserto, l’iscrizione fa storia, il fiume fa ansa, la terra fa solco, in quella rapida sequenza con cui si succedono le esperienze del mondo che sfuggono a qualsiasi tentativo che cerchi di fissarle e di disporle in successione ordinata, perché, al di là di ogni progetto orientato, il viaggiatore sa che la totalità è sfuggente, che il non-senso contamina il senso, che il possibile eccede sul reale e che ogni progetto che tenta la comprensione e l’abbraccio totale è follia. Ma chi sono i veri viaggiatori? Sono coloro che non trascurano l’intervallo tra l’inizio e la fine, che non viaggiano solo per arrivare perché per coloro che vogliono arrivare, per chi mira alle cose ultime, ma anche per chi mira alle mete prossime, del viaggio ne è nulla. Le terre che egli attraversa non esistono. Conta solo la meta. Egli viaggia per “arrivare”, non per “viaggiare”. Così il viaggio muore durante il viaggio, muore in ogni tappa che lo avvicina alla meta. E con il viaggio muore il viaggiatore stesso fissato sulla meta e cieco all’esperienza che la via dispiega al viandante che sa abitare il paesaggio e, insieme, al paesaggio sa dire addio. L’andare che salva se stesso cancellando la meta inaugura allora una visione del mondo che è radicalmente diversa da quella dischiusa dalla prospettiva della meta che cancella l’andare. Nel primo caso si aderisce al mondo come a un’offerta di accadimenti dove si può prendere provvisoria dimora finché l’accadimento lo concede, nel secondo caso si aderisce al senso anticipato che cancella tutti gli accadimenti che, non percepiti, passano accanto agli uomini senza lasciar traccia, puro spreco della ricchezza del mondo. Se siamo disposti a rinunciare alle nostre radicate abitudini, allora il viaggio ci offre un modello di cultura che educa perché non immobilizza, perché desitua, perché non offre mai un terreno stabile e sicuro su cui edificare le nostre costruzioni, perché l’apertura che chiede sfiora l’abisso dove non c’è nulla di rassicurante, ma dove è anche scongiurata la monotonia della ripetizione dell’andare e riandare sulla stessa strada, con i soliti compagni di viaggio, con tutto il conforto delle nostre cose che, sotto la specie della sicurezza, sigillano solo la nostra chiusura al mondo.

FOTO BY PASSOININDIA

Seguite il vostro cuore, la bussola è nei sentimenti (U. Galimberti – La Repubblica 24.02.2003)

Oggi la si chiama “resilienza”, una volta la si chiamava “forza d´animo”, Platone la nominava “tymoidés” e indicava la sua sede nel cuore.
Il cuore è l´espressione metaforica del “sentimento”, una parola dove ancora risuona la platonica “tymoidés”. Il sentimento non è languore, non è malcelata malinconia, non è struggimento dell´anima, non è sconsolato abbandono. Il sentimento è forza. Quella forza che riconosciamo al fondo di ogni decisione quando, dopo aver analizzato tutti i pro e i contro che le argomentazioni razionali dispiegano, si decide, perché in una scelta piuttosto che in un´altra ci si sente a casa. E guai a imboccare, per convenienza o per debolezza, una scelta che non è la nostra, guai a essere stranieri nella propria vita.
La forza d´animo, che è poi la forza del sentimento, ci difende da questa estraneità, ci fa sentire a casa, presso di noi. Qui è la salute. Una sorta di coincidenza di noi con noi stessi, che ci evita tutti quegli “altrove” della vita che non ci appartengono e che spesso imbocchiamo perché altri, da cui pensiamo dipenda la nostra vita, semplicemente ce lo chiedono, e noi non sappiamo dire di no.
Il bisogno di essere accettati e il desiderio di essere amati ci fanno percorrere strade che il nostro sentimento ci fa avvertire come non nostre, e così l´animo si indebolisce si ripiega su se stesso nell´inutile fatica di compiacere agli altri. Alla fine l´anima si ammala, perché la malattia, lo sappiamo tutti, è una metafora, la metafora della devianza dal sentiero della nostra vita. Bisogna essere se stessi, assolutamente se stessi. Questa è la forza d´animo. Ma per essere se stessi occorre accogliere a braccia aperte la nostra ombra. Che è poi ciò che di noi stessi rifiutiamo. Quella parte oscura che, quando qualcuno ce la sfiora, ci sentiamo “punti nel vivo”. Perché l´ombra è viva e vuole essere accolta. Anche un quadro senza ombra non ci dà le sue figure. Accolta, l´ombra cede la sua forza. Cessa la guerra tra noi e noi stessi. Siamo in grado di dire a noi stessi: “Ebbene sì, sono anche questo”. Ed è la pace così raggiunta a darci la forza d´animo e la capacità di guardare in faccia il dolore senza illusorie vie di fuga.
“Tutto quello che non mi fa morire, mi rende più forte”, scrive Nietzsche. Ma allora bisogna attraversare e non evitare le terre seminate di dolore. Quello proprio, quello altrui. Perché il dolore appartiene alla vita allo stesso titolo della felicità. Non il dolore come caparra della vita eterna, ma il dolore come inevitabile contrappunto della vita, come fatica del quotidiano, come oscurità dello sguardo che non vede via d´uscita. Eppure la cerca, perché sa che il buio della notte non è l´unico colore del cielo.
Di forza d´animo abbiamo bisogno soprattutto oggi perché non siamo più sostenuti da una tradizione, perché si sono rotte le tavole dove erano incise le leggi della morale, perché si è smarrito il senso dell´esistenza e incerta s´è fatta la sua direzione. La storia non racconta più la vita dei nostri padri, e la parola che rivolgiamo ai figli è insicura e incerta. Gli sguardi si incontrano solo per evitarsi. Siamo persino riconoscenti al ritmo del lavoro settimanale che giustifica l´abituale lontananza dalla nostra vita. E a quel lavoro ci attacchiamo come naufraghi che attendono qualcosa o qualcuno che li traghetti, perché il mare è minaccioso, anche quando il suo aspetto è trasognato.
Passiamo così il tempo della nostra vita, senza sentimento, senza nobiltà, confusi tra i piccoli uomini a cui basta, secondo Nietzsche: “Una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo restando la salute”. Perché ormai della vita abbiamo solo una concezione quantitativa. Vivere a lungo è diventato il nostro ideale. Il “come” non ci riguarda più, perché il contatto con noi stessi s´è perso nel rumore del mondo.
Passioncelle generiche sfiorano le nostre anime assopite. Ma non le risvegliano. Non hanno forza. Sono state acquietate da quell´ideale di vita che viene spacciato per equilibrio, buona educazione. E invece è sonno, dimenticanza di sé. Nulla del coraggio del navigante che, lasciata la terra che era solo terra di protezione, non si lascia prendere dalla nostalgia, ma incoraggia il suo cuore. Il cuore non come languido contraltare della ragione, ma come sua forza, sua animazione, affinché le idee divengano attive e facciano storia. Una storia più soddisfacente.

Articolo di Umberto Galimberti: Seguite il vostro cuore la bussola è nei sentimenti
Tratto da “la Repubblica”, 24 febbraio 2003

DEEPAWALI O DIWALI (LA FESTA DELLE LUCI) HAPPY DIWALI!

Deepawali, chiamata più comunemente Diwali, è una grande e luminosa festività indiana che si festeggia, in genere, tra ottobre e novembre, e quest’anno il 13 Novembre. Il suo nome in sanscrito significa “fila di luci”. Questa festa simboleggia l’antica cultura indiana che insegna a sconfiggere l’ignoranza che sottomette l’umanità e a scacciare l’oscurità che avvolge la luce della conoscenza. In ogni leggenda, mito e storia Deepawali si trova il significato della vittoria del bene sul male e, con questo intento, le Dyias (piccole lampade di argilla) illuminano tutte le case, dentro e fuori. Infatti, la luce rende capace di buone azioni e, quindi, avvicina alla divinità. Durante il Diwali, le luci che illuminano ogni angolo dell’India, l’incenso che satura l’aria con il suo profumo, i fuochi di artificio che brillano e i petardi che scoppiano, sono tutti segno di obbedienza al cielo, al fine di ricevere prosperità, salute, ricchezza, conoscenza, pace.
Secondo la mitologia indu del grande poema epico Ramayana, il Diwali commemora il ritorno a Ayodhya del Re Rama, insieme a Sita, sua moglie, già rapita da Ravana, e Lakshmana, suo fratello, dopo 14 anni di esilio e dopo la sua vittoria sul demone Ravana, re dello Sri Lanka (vedi su questo blog “Dussehra”). Il popolo della città, al ritorno del re, accese file (avali) di lampade (dipa) in suo onore.
Il giorno del Diwali viene celebrato non solo in India ma anche in Sri Lanka, Nepal, Myanmar, Mauritius, Guyana, Trinidad & Tobago, Suriname, Malaysia, Singapore, Fiji etc., anche se con modalità diverse. Per gli induisti rappresenta una sorta di capodanno ovvero l’inizio di un nuovo anno durante il quale essi si profondono in azioni di devozione e preghiere alla dea Lakshmi, la consorte celeste di Vishnu. Si dice che nei tempi antichi fosse una festa per il raccolto. La festa nazionale vera e propria del Diwali avviene in un solo giorno e tutto il Paese è illuminato e festeggiano anche i sikh e i gianisti (per questi ultimi il Diwalii rapresenta il primo giorno dell’anno); nel giorno del Diwali tutti gli Uffici sono chiusi, trattandosi di festa nazionale. Nella tradizione induista, il Diwali si festeggia per cinque giorni consecutivi, ognuno dei quali rappresenta una storia divina, una leggenda o un mito.
1 ° giorno: Dhanteras. Il primo giorno è chiamato Dhanteras o Dhantrayodashi che cade il tredicesimo giorno del mese di Kartik. La parola “Dhan” significa ricchezza e per questo ha una grande importanza per la ricca comunità mercantile dell’India occidentale. I pavimenti delle case e dei locali commerciali vengono decorati con beneauguranti disegni tradizionali Rangoli (fatti con pietre, fiori, polveri, farine o altro) per accogliere la dea della ricchezza e della prosperità. Le lampade sono tenute accese tutta la notte. E’ di buon auspicio comprare in questo giorno monili in oro o d’argento o almeno un nuovo utensile. Alla sera si accendono i piccoli Dyias di argilla, si fa la puja (la preghiera) a Lakshmi per scacciare gli spiriti maligni, si cantano inni religiosi e si preparano i dolci tradizonali (Naivedya) da offrire alla dea prima di mangiarli. Nei villaggi, è usanza venerare i vitellini in quanto, per gli agricoltori, sono la principale forma di reddito. Nel Sud, le vacche vengono venerate ed adornate perché ritenute l’incarnazione della Dea Lakshmi. La leggenda racconta del figlio sedicenne del re Hima il cui oroscopo ne previde la morte a causa di un morso di serpente, al quarto giorno del suo matrimonio. Quel giorno, la giovane moglie non gli permise di dormire. Fece un mucchio con tutti gli ornamenti e, aggiunto un sacco di monete d’oro e d’argento, li posò davanti alla camera del marito; poi, accese tante lampade e cominciò a cantare. Quando Yama, il dio della morte, arrivò sotto le spoglie di un serpente i suoi occhi vennero improvvisamente accecati dal bagliore di quelle luci brillanti, così da non riuscire ad entrare in camera del principe. Quindi, salì in cima al mucchio degli ornamenti e delle monete e si sedette lì tutta la notte ad ascoltare i canti melodiosi della donna. La mattina dopo se ne andò in silenzio. Così, la giovane moglie salvò il marito dalle grinfie della morte. Da allora, questo giorno di Dhanteras è conosciuto come il giorno della Yamadeepdaan e le lampade sono tenuta accese per tutta la notte in adorazione reverenziale di Yama, il dio della morte.
2 ° giorno: Nakra-Chaturdashi. Il secondo giorno si chiama Nakra-Chaturdashi o Choti Diwali e cade il quattordicesimo giorno del mese di Kartik. In questo giorno, Krishna ritorna da Pragyotishpur (Nepal), alla fine di un vaggio in cui ha ucciso il re demone Narakasur, liberato 16.000 figlie degli dei nell’ harem del re e recuperato i magnifici orecchini della dea Aditi. Per dimostrare di aver ucciso il demone, Krishna tornò a casa con il sangue del re spalmato sulla fronte. Nel Diwali, per purificare il sangue e lavare Krishna, le donne gli fanno il bagno in oli profumati. Da allora, l’abitudine di fare il bagno prima dell’alba è una tradizione in varie parti dell’India. Nel sud dell’India, per celebrare la vittoria di Krishna, alcuni credenti, davanti alla porta delle loro case, rompono dei meloni che rappresentano la testa del re demone. Dopo aver infranto il melone, la gente si fa in fronte una striscia con una miscela di curcuma e olio, che rappresenta il sangue di Krishna. Poi, è d’uso fare un bagno d’olio con sesamo, semi di cumino e pepe. Nel Maharashtra inoltre, sono usuali i bagni con olio e “Uptan” di farina di ceci e polveri profumate.
Un’altra storia racconta del re Bali, così potente da costitutire una minaccia per gli dei. Così Vishnu, sotto le sembianze di un bambino (batu Waman), lo pregò di dargli tanta terra che potesse coprire con tre dei suoi passi. Il re esaudì il suo desiderio. Vishnu riprese le sue vere sembianze e, con il suo primo passo, coprì il cielo intero, con il secondo, coprì la terra. Prima di fare il terzo passo, Vishnu chiese a Bali dove avrebbe dovuto fare il suo terzo passo. Bali offrì la sua testa. Mettendo il piede sulla sua testa, Vishnu lo spinse quindi verso il mondo sotto la terra. Allo stesso tempo, per la sua generosità, il Signore Vishnu gli diede la lampada della conoscenza e gli permise di tornare sulla terra una volta all’anno con milioni di lampade per dissipare le tenebre e l’ignoranza e diffondere lo splendore dell’amore e della saggezza. Per questo, il secondo giorno del Diwali si onora la credenza che la luce delle lampade allontani l’ignoranza e diffonda la radiosità dell’amore e della saggezza.
3 ° giorno: Lakshmi Puja. Il terzo giorno della festa di Diwali è interamente dedicato alla propiziazione della dea Lakshmi. Questo giorno è conosciuto anche con il nome di Puja Chopada. Il giorno della Lakshmi Puja cade in una notte oscura senza luna (Amavasya). I suoni gioiosi di campane e tamburi fluttuano dai templi dove l’uomo sta invocando la dea Lakshmi. Così l’oscurità impenetrabile viene trafitta da innumerevoli raggi di luce e con una fiammata di luce Lakshmi discende sulla terra in tutta la sua gloria celeste in mezzo al canto di inni vedici. La luce sublime della conoscenza sull’umanità e la devozione degli uomini vincono l’ignoranza. Per questo le luci illuminano i palazzi dei ricchi e le dimore dei poveri. Si ritiene che in questo giorno Lakshmi passeggi attraverso i campi verdi e rilasci benedizioni di abbondanza e prosperità. Quando il sole tramonta e il culto cerimoniale è finito, tutti i dolci fatti in casa vengono offerti alla dea. Si fa festa, ci si scambia regali, e, elegantemente vestiti, si va al templio e a visitare amici e parenti. Una delle usanze più curiose di questo Diwali è il gioco d’azzardo su larga scala soprattutto nel nord dell’India. Si ritiene che in questo giorno la dea Parvati giochi a dadi con il marito, Shiva, decretando che chiunque scommetta durante questo giorno abbia prosperità e ricchezza tutto l’anno.
Un’altra storia molto interessante del Diwali viene dal Kathopanisad. E’ la storia di un ragazzino chiamato Nichiketa il quale credeva che Yama, il dio della morte, fosse nero come la notte oscura di Amavasya. Ma quando lo incontrò di persona rimase perplesso nel vedere il volto calmo di Yama e la sua statura dignitosa. In questo giorno di Diwali, Yama spiegò a Nichiketa, che, solo passando attraverso il buio della morte, l’uomo vede la luce della più alta saggezza. Solo allora la sua anima può fuggire dalla schiavitù del suo corpo mortale e mescolarsi con il Potere Supremo. Fu così che Nichiketa capì l’importanza della vita mondana e il significato della morte e da quel momento partecipò alle celebrazioni Diwali.
Giorno 4: Padwa o Varshapratipada. E’ il quarto giorno che segna l’incoronazione del re Vikramaditya, ed è l’inizio del Vikram-Samvat (è il calendario stabilito dall’imperatore indiano Vikramaditya ed è il calendario ufficiale del Nepal). In questo giorno, al Nord, si fa anche la Govardhan-Puja (detta anche Annakut). Secondo la storia scritta nel Vishnu-Purana (libro sacro Indu), il popolo di Gokul (un luogo nel Nord India), dopo la fine di ogni stagione dei monsoni, usava celebrare una festa in onore del Dio Indra (Dio della pioggia). Tuttavia, il giovane Krishna li fermò dicendo loro che, invece di adorare Indra, avrebbero dovuto pregare per la natura, considerato che la pioggia è un dono delle montagne; questo fece arrabbiare Indra che rispose coprendo d’acqua tutta Gokul. Krishna salvò Gokul sollevando la montagna Govardhan, tenendogliela sopra come un ombrello. Per commemorare questo giorno, la gente del Punjab, Haryana, Uttar Pradesh e Bihar costruiscono piccoli mucchi di sterco di vacca e li decorano con fiori per adorarli. In questo giorno, nei templi di Mathura e Nathadwara, si usa fare bagni di latte alle divinità che anche vengono vestite di abiti luccicanti e decorate con diamanti, perle, rubini e altre pietre preziose. Dopo le preghiere, vengono offerti agli dei tanti tipi di dolci deliziosi cerimoniosamente fatti a forma di montagna (Annakoot). Solo dopo questa offerta, i devoti possono ricevere il prasad dal bhog (il prasad è un alimento – frutta, dolce o altro da mangiare che viene offerto prima alla divinità – bhog – e poi consumata dai fedeli). La Dea Lakshmi viene adorata in ogni casa indù e la sua benedizione porterà successo e felicità. Questo giorno è considerato come il giorno più propizio per avviare una nuova impresa. In molte case indù è consuetudine che la moglie metta il tilak rosso sulla fronte di suo marito, una ghirlanda al suo collo e faccia la sua Aarthi (rituale durante il quale la luce emessa da una fiamma di canfora viene offerta alla Divinità) con una preghiera di lunga vita. La moglie riceve poi dal marito un regalo costoso in segno di apprezzamento di tutte le tenere cure ricevute. Questo Padwa Gudi è simbolo di amore e devozione tra moglie e marito. In questo giorno le coppie appena sposate vengono invitate a pranzo o a cena e ricevono regali.
5° giorno: Bhayya-Duj. Il quinto e ultimo giorno di Diwali è conosciuto come Bhayya-Duj. E’ noto anche in hindi come Bhav-Bij e in Marathi e nepalese come Bhai Tika. La leggenda dice che, in questo giorno di Diwali, Yama, il Dio della Morte, andò a trovare sua sorella Yami che gli mise il tilak di buon auspicio sulla fronte e lo nutrì con piatti speciali. Insieme mangiarono dolci, parlarono e si divertirono. Quando si lasciarono si scambiarono regali speciali e quel giorno Yama annunciò che, chiunque ricevesse tilak da sua sorella, non sarebbe mai stato rifiutato. Ecco perchè questo giorno di Bhayyaduj è conosciuto anche con il nome di Yama Dwitiya ed è simbolo di amore tra fratelli e sorelle. Il fratello deve andare a trovare sua sorella per festeggiare il Bhayyaduj.

I sikh festeggiano il Diwali per ricordare il giorno in cui il sesto Guru Har Gobind ritornò nella città santa di Amritsar dopo aver lasciato la prigione in Gwalior liberando e stesso e alcuni re indu tenuti prigionieri dall’imperatore musulmano Jahangir (imperatore moghul, padre di Shah Jahan, colui che ha fatto costruire il Taj Mahal). Il Guru era stato imprigionato dal re moghul intollerante alla crescita del sikkismo.
Nel tempio più important per i sikh, il Golden Temple di Amritsar, si da lettura dei grande Libro sacro Guru Grant Sahib e alla sera tutta la zona del tempio è fortemente illuminata dalle piccole luci che decorano la struttura e dai lampi dei bellissimi fuochi d’artificio. I giainisti celebrano la festa perché nel giorno del Diwalii Mahavira, il 24 Tirthankara (importante figura spirituale), ha raggiunto la liberazione (moksha o nirvana) a Pavapuri il 15 ottobre, 527 a.c.

Il neo rieletto Presidente degli Stati Uniti Barack Obama è stato il primo Presidente della storia a festeggiare il Diwalii nella Casa Bianca nell’anno 2009.

http://www.whitehouse.gov/blog/2011/10/26/diwali-white-house

(fonte foto: internet)

IL SISTEMA DELLE CASTE IN INDIA (caste system in India)

foto by PASSOININDIA

La struttura sociale indiana è stratificata gerarchicamente in caste in cui i gruppi e gli individui che vi appartengono vengono guidati da prescritte norme, valori e sanzioni sociali (tra cui anche la definitiva esclusione dalla comunità) tipici di quella casta, realizzando così specifici modelli di comportamento. La casta viene ereditata per nascita. Nel concetto di casta vi sono quelli di varna e jati. Varna significa colore e, ad ogni casta, ne è associato uno. Ai Bramini (i sacerdoti, sacrificatori e conoscitori dei testi religiosi), gli appartenenti alla casta più alta nella gerarchia, venne associato il colore bianco, ai Kshatria (i guerrieri e i prinicipi) il rosso, ai Vaisia (gli agricoltori, i commercianti e gli artigiani) il giallo. Ai Shudra, i servitori degli altri tre Varna (cioè i gruppi nobili – arya – o rigenerati – dvija – ), venne associato il nero. La gerarchia dei varna configura anche il grado di purezza di ogni gruppo, partendo dai Brahmini, i più puri, fino ai Shudra, gli impuri o contaminati. Mentre le prime tre caste hanno pieno diritto di culto, ai Shudra non è sempre permesso di offrire sacrifici agli dei. L’appartenenza ad una casta determina il ruolo sociale di chi vi appartiene, quindi il tipo di professione svolta, la persona da sposare (che deve appartenere alla stessa casta – endogamia -) e persino l’alimentazione. Con l’emergere di nuovi gruppi sociali e nuove attività il sistema delle caste si è successivamente evoluto in sottocaste (jati o comunità). Non tutti gli individui appartengono ad una casta. I cosiddetti “fuori casta” (avarna – senza colore – anche detti “paria” o “intoccabili”) sono coloro che lavorano a contatto con la morte e le cose impure (ad esempio la rimozione delle carcasse di animali, la pulizia delle strade e delle latrine, la lavorazione delle pelli, l’uccisione dei topi), i barbari, i tribali (che vivono sulle montagne o nella giungla e comunque al di fuori della società) e i figli di unioni di jati diverse. Agli intoccabili è proibito entrare nei templi ed essi non possono essere cremati alla loro morte. Chi tocca un intoccabile deve immediatamente lavarsi le mani per purificarsi. Se un intoccabile osasse attingere acqua da un pozzo pubblico, l’acqua si inquinerebbe e nessun altro potrebbe usarlo.
Ogni individuo che nasce in una casta, ne assume incondizionatamente lo status e il ruolo conforme a questa identità. Ogni persona nasce quindi in un inalterabile status sociale. La casta è quindi un gruppo sociale chiuso. Questo sistema trova il suo fondamento religioso nei Veda, gli antichi testi religiosi a base dell’induismo, scritti in sanscrito (ma tramandati oralmente dalla loro antichissima origine), che hanno derivazione dal popolo degli Arii, arrivati in India settentrionale intorno al 1500 a.c. Una teoria storica fa addirittura coincidere la nascita dei varna con l’arrivo in India di questo popolo di pelle chiara, provenienti dal Nord dell’Asia e dall’europa del Sud, che trovò, al suo arrivo, altre razze che già vivevano in territorio indiano, come i Negrito, dalla pelle nera, simili agli africani, i Mongoloidi, simili ai cinesi, gli Austroloidi simili agli aborigeni australiani e i Dravidiani, i più numerosi, di origini mediterranee. Con gli Austroloidi e i Dravidiani, gli ariani ebbero la maggior parte dei loro contatti. Per il resto gli ariani non rispettarono le culture delle popolazioni locali che furono quindi costrette a diventare loro servi oppure a fuggire sulle montagne o verso sud.
Gli Ariani si organizzarono in tre gruppi, quello dei guerrieri (Rajayana poi divenuto Rajayana Kshatria), quello dei sacerdoti, (brahmani), che riuscirono a conquistare il potere, quello dei contadini e degli artigiani (Vaisia).
Nel Rig Veda (1700-1100 a.c.), uno dei testi della raccolta dei Veda, è raccontato che l’uomo primordiale – Purush – ha distrutto al fine di creare una società umana. Dalle parti del suo corpo sono stati creati i varna. Cosi, in base ad una gerarchia decrescente, dalla sua testa sono stati creati i brahmani, dalle sue mani i Kshatrias, dalle sue cosce i Vaishias e dai suoi piedi i Sudras. Altra teoria religiosa sostiene che i Varna abbiano avuto origine dagli organi del corpo di Brahma, l’assoluto creatore del mondo.
Nella popolare Bhagavad-Gita ancora di più viene sottolineata l’importanza di appartenenza alla casta e dell’adempiere il proprio dovere sociale.
Nell’induismo, l’obbedienza alle regole della casta cui si appartiene diventa un dovere religioso. L’appartenenza ad una casta, acquisita per nascita, è il risultato attuale di un comportamento passato e il buono o cattivo rispetto dei doveri di casta (secondo il principio del dharma), oggi, determinerà l’appartenenza ad una casta, superiore o inferiore, nella prossima vita (secondo il principio del kharma). Infatti, la casta nella quale un individuo nasce è il risultato delle azioni che ha commesso in una vita precedente. Così, una persona veramente virtuosa della casta Shudra (i servitori) potrebbe essere premiata con la rinascita a bramino nella sua prossima vita. Le anime possono muoversi non solo tra i diversi livelli della società umana, ma anche trasmigrare nel corpo di animali, il che spiega il vegetarismo di molti indù.
In questa visione le ineguaglianze fra gli uomini sono quindi la conseguenza di azioni nelle vite passate, ed hanno tuttavia un valore provvisorio, valgono cioè fino alla morte dell’individuo e alla sua successiva reincarnazione (samsara), dato che è possibile essere virtuosi nel corso della vita attuale al fine di raggiungere una stazione più alta nella prossima rinascita.
Il sistema delle caste venne usato dagli inglesi, insidiatisi in India nel 1757, come mezzo di controllo sociale. Si allearono con la casta dei bramini, ripristinando alcuni privilegi che erano stati abrogati dai governanti musulmani. Tuttavia, gli inglesi resero illegittime, in quanto considerate discriminatorie, alcune usanze indiane riguardanti le caste inferiori. Nel XIX e XX secolo si parlò addirittura di abolire lo status di intoccabile e nel 1928 fu permesso ai “dalit” di entrare in un tempio. Il grande Gandhi si è battutto per l’emancipazione dei dalit, dandogli il nuovo nome di Harijan o “figli di Dio” .
Il nuovo governo indiano insediatosi a seguito dell’Indipendenza indiana, avvenuta il 15 agosto 1947, ha istituito vari leggi per proteggere le “caste e le tribù”, includendovi sia gli intoccabili che i gruppi tribali che, ancora oggi, vivono stili di vita tradizionali. Queste leggi, tuttora vigenti, includono sistemi di quote per garantire l’accesso all’istruzione e ai posti di governo.
Infatti, per legge, in applicazione degli articoli 341 e 342 della Costituzione indiana del 1950, sono state formate le “Schedule Caste” e le “Schedule Tribes” ovvero gli elenchi delle caste degli intoccabili e delle tribù,. Sul sito del governo indiano http://www.indiangovernmentwebsite.com/how-do-i-obtain-caste-certificate/ è spiegato come ottenere il “certificato di casta” la cui funzione è così ivi descritta: “un certificato di casta è la prova della propria appartenenza ad una casta particolare, soprattutto nel caso in cui non si appartenga a nessuna delle “caste”, come specificato nella Costituzione indiana. Il governo ha ritenuto che le Scheduled Castes and Tribes abbiano bisogno di un incoraggiamento speciale e dell’opportunità di progredire allo stesso ritmo del resto della cittadinanza. Di conseguenza, l’Indian System of Protective Discrimination ha previsto alcuni privilegi speciali concessi a questa categoria di cittadini, quali la riserva di posti nelle assemblee legislative e di Governo, la riduzione parziale o totale delle tasse scolastiche e dei college, la riserva di quote di iscrizione alle istituzioni educative, il rilassamento dei limiti massimi di età per l’accesso a determinati posti di lavoro, ecc. Per poter usufruire di questi privilegi, un cittadino appartenente ad una casta deve essere in possesso di un valido certificato di casta.”. I moduli per ottenere il certificato di casta sono disponibili on-line o presso appositi uffici locali. Nel caso in cui nessuno dei familiari di chi chiede il certificato abbia già ricevuto un certificato di Casta, il governo, prima di rilasciare il certificato, opererà un’indagine locale e chiederà una prova di residenza nello Stato per un periodo minimo stabilito ed una dichiarazione giurata di appartenenza alla casta.
In India la maggior parte dei matrimoni sono combinati e per questo spesso le famiglie si rivolgono ai molti siti matrimoniali su internet, oltre alle agenzie locali, pubblicizzati anche sui giornali, per trovare il marito o la moglie perfetta per i loro figli. La ricerca parte proprio da una prima selezione basata sulla religione e la casta di appartenza.  Un sito famoso è http://www.shaadi.com/matrimonials/indian-castes.

Altre religioni in India come quelle dei Sikhs, Gianisti e Buddisti non riconoscono il sistema delle caste ma, in pratica, nella vita quotidiana (anche ai fini delle unioni matrimoniali) il sistema delle caste svolge un ruolo importante.

Testo Passoinindia

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