di Matteo Tomasina (samsararoute.com)
(segue da parte 1– dove provo a farmi spiegare cos’è l’induismo – e parte 2 – dove mi chiedono se noi crediamo ancora a Zeus)
Anuradha indossa il chudi daar, un abito lungo e colorato, abbastanza formale ed elegante per essere adatto a recarsi al tempio. Prima di uscire, mentre io ed Elisa ci siamo opportunamente lavati e abbiamo indossato almeno dei vestiti puliti, lei si dipinge un puntino sulla fronte con cenere e tinta rossa, nel segno della devozione induista. Poi si butta sulle spalle un’ampia pashmina (sciarpa) verde ed oro, e con lei scendiamo in strada.
Su Hyderabad il sole è già tramontato da un pezzo, ma proprio per questa ragione le strade sembrano illuminarsi ancora di più. Le luci provengono dalle insegne dei negozi, da lanterne lungo la strada, dai mucchi di spazzatura accumulati agli incroci e a cui ogni tanto qualcuno da fuoco. C’è ancora molta gente in giro, e Anu ci spiega che il via vai in questa parte della città non termina mai. Si cominciano già a vedere alcuni ubriachi.
Tempio di Sai Baba
La nostra amica indiana si reca al tempio tutte le sere, e l’edificio è solo a pochi isolati. E’ una struttura grande, colorata di rosso e oro, e all’interno si intravede la grande statua del dio a cui è dedicata: il santone e fachiro del XIX secolo Sai Baba, che ha speso la propria vita a predicare in povertà una propria versione di religione dell’amore, simile per certi versi alla carità cristiana. E’ molto venerato in questa parte dell’India, e il suo ritratto compare un po’ ovunque, nelle case, sulle auto, all’interno dei negozi.
Sulla base di quanto osservo, tutte i vari devoti dell’India hanno almeno un tratto in comune: il bisogno di mettere chiaramente in evidenza la propria appartenenza religiosa. Questo indipendentemente dal fatto di essere induisti, cristiani o islamici. A volte la religione traspare dall’abbigliamento: gli uomini mussulmani indossano la curta e hanno lunghe barbe, le donne sono sempre velate di nero. Ma in tutti i casi, basta entrare in un negozio per identificare subito un’icona, una statua un ninnolo o un quadretto che rappresenta una divinità indu o un simbolo cristiano, o che riporta dei versi del corano, o l’immagine della Mecca. La messa in mostra dei simboli religiosi vale anche per le auto, i camion; alle motociclette sono sempre legate delle sciarpe benedette e di buon augurio.
Fuori dal tempio
Penso anche a queste cose mentre Anu ci conduce all’interno del tempio. Di fronte all’edificio ci togliamo le scarpe, e visto che si tratta di una struttura di una certa dimensione e importanza, ci sono delle donne fuori che si occupano di custodirle (fortunatamente, perchè mi chiedo sempre se capita mai che qualcuno le porti via). Ad un rubinetto ci laviamo anche le mani, oltre che i piedi: è un segno di rispetto, ma anche un accorgimento pratico, visto che nei templi induisti – stiamo per scoprirlo – viene offerto ai visitatori da bere e da mangiare.
In cima alla scalinata di ingresso, un sacerdote segna anche a me ed Elisa la fronte con cenere chiara (viboothi) e tinta rossa (kumkum). A volte alla mistura viene anche impastato un chicco di riso. Anu ci dice che la formula del composto è segreta, e cambia da tempio a tempio. Noi abbiamo acquistato da una venditrice dei fiori, e li lasciamo in omaggio.
Il tempio è costituito da una serie di stanze collegate da un corridoio, che si sviluppano intorno alla sala centrale dove numerosi fedeli possono sedere per terra di fronte alla statua di Sai Baba. In ogni stanza ci sono invece diverse celle, in cui sono contenute statue di altre divinità. Entrati nel primo spazio del tempio seguiamo Anu. Ci inchiniamo in sequenza davanti ai piedi d’argento di un’icona. In realtà, siamo io ed Elisa a limitarci all’inchino, mentre la nostra amica indiana compie numerosi gesti piuttosto complessi. Entriamo in sequenza in numerose altre stanze, e in ognuna sono sempre presenti delle statue. Gli dei hanno fattezze umane, e sono vestiti con stoffe, ricoperti di fiori e adornati con collane vistose. Hanno volti sorridenti o minacciosi, e ognuno svolge una funzione particolare. Anu sottovoce ci parla di coraggio, fertilità, malattia, fortuna…Nella penultima stanza c’è il “dio della pace”, come recita una scritta che qualcuno ha aggiunto sotto un ritratto di Gesù Cristo: incluso anche lui, a dispetto dei suoi seguaci esclusivi, nel complesso pantheon di una religione che sembra non rifiutare nessuna forma al divino (Anu mi aveva già anticipato questa presenza).
Anu ed Elisa
Quando giriamo dietro la statua di Sai Baba – che, come detto, troneggia nella sala centrale del tempio – ci viene offerto dai sacerdoti del latte, pescato con un mestolo da una pentola messa su un fornelletto. Ci viene versato in mano, nel palmo, per poi essere bevuto dall’incavo sopra il polso. Memore di brutte esperienze con i latticini, prima di portare la mano alla bocca ne faccio scivolare via tra le dita un po’, in modo il più possibile discreto. Dopo ci vengono versati in mano dei ceci bolliti e un po’ di riso, e ci mettiamo seduti a mangiarli davanti alla statua del santone. Altri fedeli mangiano, pregano e si inchinano, mentre i sacerdoti portano continuamente fiori e altri omaggi alla statua.
Al nostro ritorno, anche gli ultimi negozi rimasti aperti fino a tardi stanno ormai chiudendo. Di fronte a casa di Anu, che ci ospita anche per questa notte, c’è una farmacia ayurvedica. Vedo che, mentre i suoi autanti abbassano la saracinesca, il proprietario estrae da una borsa uno strano oggetto, che sembra come lo scafo di una piccola nave alberata. E’ una zucca tagliata a metà, con al centro una candela. L’uomo da fuoco allo stoppino del lume, e comincia a sollevarlo in aria nella zucca, facendole fare dei cerchi davanti al suo negozio. Anu mi dice di non guardare: è un rituale apotropaico, serve ad allontanare le maledizioni dal luogo. Se osservo, potrei diventare il nuovo bersaglio di qualche energia negativa. Così giro le spalle, ed entro con lei dalla porta.
Preghiera notturna