La brutale pratica medievale del sati ora fuorilegge in India consisteva nel sacrificio volontario della donna che si immolava bruciando sulla pira del marito defunto. Sebbene alcuni studiosi, come dirò più avanti, ne abbiamo tratto traccia da testi religiosi indu, questo fenomeno pare avere soprattutto connotati socio culturali. Si credeva innanzitutto che colei che si prodigasse in questo estremo gesto conferisse onore e rispetto a tutta la famiglia e la benedisse per sette generazioni diventando essa stessa un’eroina meritevole di onorificienze e di erezione di templi e pietre commemorative a ricordare il suo gesto. Bisogna tuttavia considerare che questa pratica risolveva anche molte questioni sociali; infatti le giovani vedove, da sempre discriminate, costituivano un pericolo per l’incolumità morale della comunità oltre a rappresentare un peso economico per la famiglia del defunto che mai, per onore, le avrebbe permesso di lavorare fuori dal nucleo familiare e quindi di autofinanziarsi. Non sfugge in questo rituale tradizionale del sati il ruolo della donna che pare giustificasse la propria esistenza solo in funzione di ciò che rappresentava per il marito cui doveva una incondizionata devozione, essendo moglie e possesso, prima che donna ed essere umano, devozione che trovava il suo acume proprio nella considivisione della stessa sorte.
Le leggi di Manu databili fra il II secolo a.C. e il II secolo d.C. stabilivano che la donna dovesse rimanere casta e pura, parola che, in sanscrito, si dice appunto “sati” e quindi, al contrario dell’uomo, non potesse risposarsi.
Si legga, in questo blog, “L’India difficile delle donne” https://passoinindia.wordpress.com/tag/codice-di-manu/
Il rituale della autoimmolazione, diffuso anche molti altri luoghi come Egitto, Grecia, Cina, mongolia Mongolia (a cui ha messo fine l’introduzione del buddismo tibetano), Africa, Asia, Oceania e tra germanici, celti, vichinghi, goti e sciiti non è quindi tipicamente indiano e qui veniva praticato solo in alcune zone rurali tra le comunità guerriere del nord, soprattutto in Rajastan e tra le alte caste del Bengala. In Bengala, la legge prevedeva che le vedove indu avessero il diritto di ereditare i gioielli nuziali e i beni immobili con il divieto di alienarli e questo, per alcuni studiosi, spiega come in questa zona il sati, che spesso quindi non era del tutto volontario, aggirasse, per così dire, l’ostacolo.
In Rajastan, la tradizione del sati fu tipica dei Rajput, una comunità di guerrieri che migrarono a nord-ovest dell’India e le cui mogli operavano il suicidio alla notizia della morte in battaglia del loro sposo. Queste caste guerriere, secondo alcuni studiosi avevano origine dal popolo Sciita che invasero l’India dalla metà del II secolo a.C. e vi introdussero il costume di cremare i morti. E proprio i Rajput, di fronte a una sconfitta certa, mettevano le loro donne e i loro bambini a morire nel fuoco per evitare che il loro nemico le catturasse e le disonorasse o le donne stesse si autoimmolavano per non cadere nelle mani dei musulmani (pratica del Jauhar). Si veda in questo blog “La storia della regina Padmini di Chittor” https://passoinindia.wordpress.com/tag/chittorgarh/.
Non dimentichiamo, tra l’altro, che spesso la condizione di emarginazione della vedova in India le imponeva la rasatura dei capelli, un semplice abito bianco da indossare, una alimentazione “essenziale” e l’alienazione totale dalla società che costituiva il cosiddetto “sari freddo” cui spesso le stesse donne preferivano il suicidio volontario. Questa situazione viene ricordata molto bene dal premiato film della grande regista indiana Deepa Mehta, “Water”, ambientato nel 1938, tempo in cui, in alcune zone indu dell’India, si usava dare bambine e adolescenti in spose a uomini più anziani; alla loro morte, le giovani vedove venivano rinchiuse in un ashram per vedove affinché espiasserio i loro peccati e si ripulissero dal cattivo Karma, presunta causa del decesso del marito; in realtà la famiglia otteneva anche il vantaggio di liberarsi di un peso finanziario.
Sebbene nella maggior parte del territorio indiano la pratica del sati non si diffuse, essa, dove ebbe luogo, contò centinaia e centinaia di sacrifici e fu proibita ufficialmente dagli inglesi nel 1829. Nel recente passato, si sono registrati rarissimi casi pervasi tuttavia dal dubbio che si tratti di atto volontario, di coercizione esplicita, di costrizione psicologica o di puro atto di suicidio. Nei Purana, sacri testi indu, alcuni hanno ravvisato l’origine del Sati; qui Sati è la dea che impersonifica la Natura, e che è stata creata dal dio supremo Brahma, destinata a diventare consorte di Shiva; nonostante suo padre trovasse per lei possibili mariti, Sati desiderava Shiva e con lui visse asceticamente sul monte Kailash. Quando suo padre, un giorno, le dimostrò di non rispettare il suo compagno, Sati si autocombustionò bruciando da dentro. Shiva scatenò allora tutto il suo rancore e anche il padre di Sati venne decapitato. Shiva, il re della danza, portò il corpo di Sati sulle spalle e cominciò quella di Tāndava, una danza da cui iniziano i cicli della creazione, conservazione e dissoluzione e con cui, in tal caso, egli voleva riassorbire l’universo. Vishnu allora tentò di fermarlo smembrando il corpo di Sati che in 51 pezzi cadde in veri luoghi dell’India conosciuti come Śakti Pitha da sempre venerati come meta di pellegrinaggio. Sati rinacque come la nuova consorte di Shiva, reincarnandosi in Parvati. Anche nel Mahabhsarata, una grande epopea di una guerra tra due gruppi di cugini per un regno, ci sono riferimenti alla pratica del sati. Qualcuno ha collocato la sua origine sin dal periodo vedico, considerato che, nel Rg-Veda, una vedova che si trova sulla pira del marito defunto viene invitata ad abbandonare l’uomo morto e a riunirsi alla vita.
Testo by PASSOININDIA