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Se dico la parola “Kamasutra” scommetto che la maggior parte delle persone penserebbe subito e solo a sesso, posizioni strane e sconcerie annesse. In realtà il Kamasutra è molto più di questo. La parte relativa alle pratiche erotiche infatti occupa solo una parte, la seconda per la precisione, delle sette di cui è composto il “Trattato sull’Amore” (così si può tradurre).
In primo luogo, il Kamasutra non tratta esclusivamente dei rapporti sessuali, ma delle relazioni fra uomo e donna nel loro complesso. Nasce, infatti, come trattato con intenti scientifici e educativi, scritto da Mallanaga Vatsyayana intorno al III secolo d.C. per insegnare agli uomini e alle donne ad assumere un comportamento appropriato dinanzi al desiderio e quali direttive seguire per avere una felice vita amorosa.
Il fraintendimento che da sempre accompagna la fama con cui quest’opera ha raggiunto l’Occidente si deve principalmente all’abissale distanza culturale che separa…
Veniamo ora a una breve esposizione delle parti di cui si compone il Kamasutra. La prima parte, dopo il generale preambolo sulla dottrina d’Amore sopra descritta, presenta il protagonista dell’opera, colui al quale l’insegnamento del trattato principalmente si rivolge: il nagaraka, termine che lo studio Richard Schmidt ha reso con “uomo elegante”, o l’uomo che “fa tendenza”. Costui è in grado di fare del kama uno stile di vita: provvedere al proprio benessere economico gli permette di organizzare nel tempo libero con i suoi pari salotti ricreativi e culturali, incontri, feste, gite, manifestazioni artistiche. La sua controparte femminile non ha un unico nome ma acquista un’identità solo in relazione al rapporto che ha con l’uomo: vergine, sposa, vedova, prostituta.
La Parte seconda, la più ampia, concentra in sé la celebre esposizione delle strategie erotiche, anatomicamente meticolosa, che appare ai nostri occhi piuttosto spudorata. In realtà, fin dalla classificazione…
Oggi è un giorno importante per l’India. PASSOININDIA ripropone per i nuovi iscritti al blog il racconto di quello che successe nel 1947.
Oggi non lavoro, non perché sia Ferragosto ma perché è festa nazionale; vengo svegliato dai 21 colpi di pistola sparati in onore di questa solenne festività. Il primo ministro issa la bandiera al Forte Rosso di Delhi e, supportato dall’inno nazionale indiano “Jana Gana Mana”, tiene un discorso dalle sue mura rendendo omaggio ai leaders della libertà. Poi passa la parata dell’esercito. In giro per la città c’è caos, ci sono sfilate ed eventi culturali e l’effige indiana è rappresentata ovunque, sui vestiti della gente, sulle case e sui veicoli; sento in distanza canti patriottici e osservo i grandi cartelloni che promuovono la visione cinematografica di film che ricordano quell’evento. Andare a trovare gli amici oggi è cosa ardua ma con la metropolitana ce la posso fare. Scrivo una lettera ai miei amici italiani cui farà piacere ricevere il francobollo che le Poste Indiane hanno stampato in ricordo dell’ evento. Approfittando delle promozioni commerciali che i negozi usano fare in questo giorno, mi fermo in libreria per acquistare un libro e scelgo quello di Kushwant Singh, “Un treno per il Pakistan”, del 1956, che racconta i grandi spostamenti di masse umane vive e morte ai tempi della Partizione. Egli scrive: “L’estate del 1947 non fu come le altre estati indiane.Quell’anno persino il tempo, in India, sembrava diverso. Faceva più caldo del solito e tutto era più secco e polveroso. E l’estate durò più a lungo. Nessuno ricordava un’ epoca in cui i monsoni erano giunti con tanto ritardo. Per settimane, le rare nubi produssero solo ombre. Niente pioggia. La gente continuò a dire che Dio li stava punendo per i loro peccati.”. In questo libro, l’immaginario villaggio di Mano Majra, nel Punjab indiano vicino al nuovo confine con il Pakistan, lungo la ferrovia fra Delhi e Lahore, abitato principalmente da sikh e musulmani è il teatro di quanto, violento e sanguinoso, è avvenuto realmente in tanti villaggi dell’India, quando il vicino di casa è diventato il nemico perché altri lo hanno deciso e solo perché appartiene ad una religione differente.
La libreria dedica uno spazio raccolto ai libri che raccontano quel fatto e così mi soffermo sul racconto “I figli della mezzanotte” che Salman Rushdie ha scritto nel 1980 e che quest’anno è diventato un film sotto la regia della grande Deepa Metha.
Ma cosa è successo in quell’anno? Era il 1947.
Andiamo un po’ indietro. Nel 1600, la Compagnia delle Indie orientali assume, su concessione della regina Elisabetta, il monopolio commerciale sull’oceano indiano. A quel tempo l’India fa gola per i suoi prodotti (spezie e cotone) e per i suoi tesori, oro, diamanti, perle, argento (ricordi il grande diamante Kohinoor?) e le dispute intestine tra i re indiani per il dominio delle terre favoriscono le intenzioni degli inglesi perché il dividi et impera funziona sempre, allora come oggi. Con l’Indian Act del 1784 la dirigenza della Compagnia ottiene dal governo di Londra il mandato ad agire in nome della corona inglese; e così i britannici arrivano a dominare pressoché tutta l’India che, nel 1818, diventa colonia inglese, con a capo un viceré e capitale Calcutta. Nel 1858, la Compagnia delle Indie Orientali si scioglie, e il Government of India Act sancisce la fine del grande impero Moghul spodestandone anche l’ultimo dei sovrani. Il principio della reversibilità che annette automaticamente alla corona i territori posseduti da sovrani senza eredi aiuta gli inglesi, tra il 1848 e il 1856, nella loro politica di espansione fino a che, nel 1877 la regina Vittoria viene incoronata Imperatrice delle Indie. Intanto, sin dalla metà del 19° secolo, la nazione acquisisce un nuovo spirito di nazionalismo. In questo contesto, nel 1885, Allan Octavian Hume fonda il Congresso Nazionale Indiano, un partito politico laico di centrosinistra contro l’imperialismo britannico che si batte per una partecipazione degli Indiani nel governo del Paese; nel 1916 si unisce alla Lega musulmana in questa richiesta di autonomia che ottengono nel 1921, quando gli inglesi riconoscono agli indiani potere decisionale in materia di insegnamento, opere pubbliche, industrie e agricoltura non mollando tuttavia il potere in materia di difesa, politica estera, giustizia e finanza. A capo del Congresso vi è Gandhi che, con i suoi principi di non violenza disobbedienza civile, continua la lotta per l’indipendenza. Nel 1929, nella sessione del Congresso Nazionale Indiano, viene promulgata la “Dichiarazione di indipendenza dell’India” e il 26 gennaio viene dichiarato Giorno dell’Indipendenza. Ma Gandhi non ha vita facile e, quando, nel 1930, raccoglie sale dal mare (marcia del sale), a dimostrazione della sua forte avversione al governo inglese che del sale detiene il monopolio, viene arrestato. Il Congresso non appoggia gli inglesi neppure durante la seconda guerra mondiale mantenendosi sempre in posizione neutrale, giusto per non supportare, viceversa, le idee naziste. Va detto tuttavia che molti soldati indiani combatterono valorosamente per gli inglesi. Gandhi e il Congresso non si arrendono e ancora più fortemente chiedono alla corona di lasciare l’India ma anche questa volta, siamo nel 1942, è l’incarcerazione per tutta la dirigenza del Congresso. Al movimento di opposizione non violenta del Congresso corrisponde tuttavia una serie di tumulti e sommosse che hanno caratterizzato, e da sempre, anche per motivi religiosi (musulmani contro induisti), tutto il Paese. Intanto la Lega Musulmana, che invece aveva appoggiato gli inglesi durante la Guerra, chiede la realizzazione di due nazioni e del separatismo islamico, idea mai condivisa dal Congresso. La Lega Musulmana, preoccupata di una possibile ascesa induista in una eventuale India indipendente, reclama una nazione tutta per sé, ad impronta islamica, quello che sarà il Pakistan. Mentre in Inghilterra il partito laburista vince le elezioni, il Governo inglese sembra voler liberare il Paese, ormai divenuto una bomba esplosiva, dalla sua egemonia, fino a che il 3 giugno 1947 dichiara di voler porre fine al raj britannico e di accettare l’idea di partizionamento britannica in due stati, quella che si chiama la “partizione”; il viceré decide di spostare più avanti (succederà ad agosto) la questione dopo aver visto i disordini fuori controllo in tutto il Paese. Allo scoccare della mezzanotte, il 15 agosto 1947, il nuovo primo Primo Ministro dell’India, Jawaharlal Nehru, legge il discorso decisivo, proclamando l’indipendenza dell’India dall’Impero Britannico. Ecco cosa celebra l’India oggi. Si concludono così tre secoli di dominio britannico nel mio Paese. Il 14 e 15 agosto 1947, nella Partizione dell’India, nascono due stati sovrani, il Pakistan (poi Repubblica islamica del Pakistan), con a capo Muhammad Ali Jinnah primo governatore generale e l’Unione dell’India (poi Repubblica dell’India). Si chiama Partizione perché il Bengala, provincia dell’India britannica viene diviso tra lo Stato pakistano del Bengala orientale (ora Bangladesh) e lo Stato indiano del Bengala occidentale mentre la regione del Punjab dell’India britannica viene divisa tra la provincia del Punjab dello Stato del Pakistan occidentale e lo Stato indiano del Punjab. La secessione del Bangladesh dal Pakistan con la guerra di liberazione del Bangladesh nel 1971 non è intesa in questo termine di partizione e neppure le precedenti separazioni del Ceylon (l’attuale Sri Lanka) e della Birmania (oggi Myanmar) dall’amministrazione dell’India britannica.
Ma non tutto fu così facile. Tutt’altro. Succede che i nuovi Stati del Pakistan e della nuova India, le cui frontiere vengono disegnate su base religiosa, devono scambiarsi le genti che vivono nei territori soggetti alla Partizione. Tutti i musulmani devono andare in Pakistan e tutti gli induisti e i sikh devono insediarsi in India. Migliaia e migliaia di persone su entrambi i lati dei nuovi confini muoiono nelle violenze, mentre l’intera nazione sta celebrando il Giorno dell’Indipendenza e Gandhi, a Calcutta, cerca di arginare il massacro. Infatti ormai l’odio esploso tra queste due nazioni fa sì che esse si restituiscano non solo profughi ma anche corpi massacrati spesso caricati sui treni che zeppi di cadaveri attraversano il confine, mentre al governo la situazione è sfuggita di mano. Decidono di scambiarsi persino i matti dei manicomi, oltre ai criminali peggiori, come ben descrive Saadat Hasan Manto nel suo “Toba Tek Singh” del 1955, villaggio del Punjabi pakistano.
Mi porto via anche “Freedom at Midnight” un libro che Larry Collins e Dominique Lapierre scrissero nel 1975 raccontando gli eventi dell’indipendenza indiana, raccontando gli eventi dell’indipendenza indiana, fino alla morte di Gandhi.
Il 26 gennaio 1950 l’India diventa poi una Repubblica e ha la sua Costituzione, oggi la più lunga del mondo. Nel 1952, nella prima elezione generale del Paese con una franchigia universale, Nehru porta il Congresso Nazionale Indiano ad una netta vittoria e viene riconfermato nelle elezioni del 1957. La storia poi continua ma non è quella che oggi voglio raccontare. I rapporti con il Pakistan sono tuttora critici.
Torno a casa, dimenticando il frastuono, sulla linea della metro che attraversa il quartiere finanziario di Gurgaon ma lo sguardo che cade sui mendicanti al bordo delle strade mi ricorda che qualcosa, nonostante l’indipendenza, deve ancora essere messa a posto.
Sembra un romanzo, la storia di Razia, che l’Oriente ricorda come la sola donna musulmana che governò l’India. Razia apparteneva alla dinastia turca dei Mamelucchi che governarono su gran parte del Paese dal 1210 al 1526, conquistato qualche anno prima in una storica battaglia tra eserciti. Per la prima volta gli hindu erano diventati sudditi di genti straniere di fede diversa. In un’epoca in cui le donne musulmane vivevano velate e appartate nell’harem, Razia vestiva come un uomo e, a viso scoperto, cavalcava gli elefanti a capo del suo esercito. Le sue doti di donna saggia, coraggiosa e ottima amministratrice, oltre che bella, avevano condotto suo padre ltumish, che pur aveva altri due figli maschi, a sceglierla come suo successore. Anche la storia di Itumish è particolare perché, presumibilmente di origini nobili turche, era stato catturato, ridotto in schiavitù ed acquistato per la corte del sultano musulmano Maometto Ghùrì Sam che, proprio per le sue capacità, lo nominò suo assistente personale. Cominciò così la sua ascesa che lo portò a diventare un eccezionale statista e a fondare il sultanato di Delhi che, all’epoca, comprendeva gran parte del nord India e dell’attuale Pakistan. Durante il suo governo, dal 1211 al 1236, Itumish salvò l’India dall’attacco dei Mongoli; infatti, quando Gengis Khan scese sull’ Asia centrale nel 1219, Itumish riuscì a non farlo entrare in India salvando Delhi e Lahore dalle sue devastazioni. Itumish trasferì alla figlia Razia le sue capacità, educandola a dovere fino a farla diventare abile arciere e ottimo cavaliere che l’avrebbe spesso accompagnato nelle sue spedizioni militari. Itumish si rese conto delle capacità della figlia quando, occupato con l’assedio del forte di Gwalior, le affidò il sultanato di Delhi che lei, malgrado la diffidenza dei nobili, governò brillantemente e fu apprezzata dal popolo. I figli di Itumish non sarebbero stati all’altezza del compito. Iltumish disse: “I miei due figli si sono arresi al vino, donne, gioco d’azzardo e il culto di adulazione. Il governo è troppo pesante per le spalle da sopportare. Razia, anche se una donna, ha la testa e il cuore di un uomo ed è meglio di tali figli”. Quando Itumish morì, uno dei suoi figli, Rukn-ud-din Firuz occupò prepotentemente il trono governando Delhi per circa sette mesi ma, nel 1236, Razia, con il sostegno della gente di Delhi, sconfisse il fratello che venne assassinato insieme alla madre dopo che ella, all’assemblea della preghiera del Venerdì, raccontò degli eccessi del suo fratellastro e della sua dissolutezza.
Così Razia, all’età di 31 anni, pur malvista dalla nobiltà del tempo, ascese al trono di Delhi che governò dal 1236 al 1240. Tuttavia, la sua autorità non era legittima fino a quando il califfo di Baghdad avrebbe accettato la sua investitura. Anche se aveva perso tutti i suoi domini in Asia a causa dei mongoli, il califfo era infatti rimasto il capo spirituale e titolare dell’islam sunnita e portava il titolo di “emiro ul Momineen” (il capo dei credenti). Solo lui poteva dare legittimità ad un sultano. Razia, sunnita, dichiarò la sua fedeltà al califfo che la riconobbe come la “Malika” di Delhi (1237), garantendosi anche un baluardo sunnita ad est di vasti territori ora controllati dai Mongoli che si stavano avvicinando a Baghdad.
Razia, durante i suoi quattro anni di regno, fece coniare monete d’argento con il titolo ufficiale di “Jalaluddin” (gloria della fede) e si riferì a se stessa come “lmadatun Niwan”, la grande donna. La sultana dotò il suo impero di leggi, migliorò le infrastrutture del paese, favorì il commercio, la costruzione di strade, e lo scavo di pozzi. Fondò scuole, accademie, centri di ricerca, e biblioteche pubbliche dove era possibile leggere le opere degli antichi filosofi oltre che il Corano e le tradizioni di Muhammad. Volle che arti, scienze, filosofia, astronomia, letteratura indù fossero studiati nelle scuole e nelle università. Sostenne artisti, poeti, pittori e musicisti. Razia aveva capito infatti che il sultanato lungi dall’essere visto dal popolo indiano come una ingerenza straniera, dovesse essere sostenuto appieno dalla gente. Fece tradurre in arabo i testi in sanscrito e promosse dibattiti tra religioni diverse, così come avrebbe fatto anni dopo il grande sovrano moghul Akbar (1542-1605) che si impegnò per far convivere le religioni maggioritarie del regno, come l’induismo e l’islam.
Ma il destino di Razia cambiò quand’ella si innamorò del custode delle reali scuderie, Jamal-ud-Din Yaqut, uno schiavo etiope Siddi, suo confidente; questo amore, vissuto in sordina non era un segreto nella corte di Delhi. Per alcuni storici le voci su questo amore proibito furono invece messe in giro dalla nobiltà per screditare Razia. Fatto sta che Malik Ikhtiar-ud-Din Altunia, governatore di Bhatinda, ed amico di infanzia di Razia, contrario a tale rapporto, forse innamorato a sua volta, fece assassinare l’uomo, imprigionò Razia e la costrinse a sposarlo. Altunia aveva potuto contare sull’appoggio dei Kadis (nobili) turchi che accusavano Razia di aver violato le regole della Sharia, la legge dell’Islam. Così Razia marciò insieme al marito per riconquistare la città di Delhi, l’eredità di suo padre. In una società patriarcale la donna accettò il ruolo di moglie, per continuare a governare all’ombra del marito non politicamente abile. Della situazione frammentata e instabile del regno approfittò il fratello minore di Razia, Muizuddin Bahram Shah, che, nel 1240, al comando di un gruppo di uomini armati, usurpò la corona, uccidendo la coppia nel mese di ottobre dello stesso anno. Qualche storico racconta che furono giustiziati il giorno successivo, qualcun altro che morirono in battaglia, altri ancora che Razia fuggì e fu uccisa da una banda di briganti o si rifugiò nella capanna di un contadino che non la riconobbe e la uccise nel sonno per poi essere catturato mentre vendeva il prezioso oro rubatole. Altra leggenda racconta che invece quest’ultimo pianse quando si accorse dell’anello imperiale e la riconobbe. Non si conosce dove sia sepolta la sultana. Una fonte racconta che si trovi nella vecchia Delhi, vicino al marito, nel luogo raffigurato dalla foto che non porta alcun epitaffio o iscrizione. Il luogo della sepoltura rimane controverso. Ibn Batuta uno dei più grandi viaggiatori del mondo, che ha vissuto in India (1335-1340) un centinaio di anni dopo Razia e che nei suoi scritti ha raccontato la sua storia, disse che la sua tomba era diventata luogo di pellegrinaggio. Sulla sua tomba era infatti stato eretto un gran bel mausoleo.
Certo è che le donne, nel corso dei secoli, avrebbero invocato il nome di Razia in difesa dei loro diritti. Razia, la regina che aveva rifiutato il titolo di Sultana e pretendeva di essere chiamata Sultan. Nella cultura indiana, filmografia e letteratura incluse, ci sono leggende che raccontano di lei, la prima ed ultima sovrana donna islamica del grande sultanato di Delhi.
By PASSOININDIA
Seconda foto: tratta dal film per la tv indiana “Razia Sultan”