Lungo una strada dissestata che si inerpica sui fianchi della montagna, scorre, attraverso il finestrino della nostra auto, una fitta vegetazione esotica fatta, tra l’altro, di banani, bambù, palme da cocco e grandi alberi di stelle di Natale. Disseminati lungo il percorso polveroso, modesti villaggi composti da capanne e palafitte accese da panni colorati stesi al sole e da figurine animate, cani, capre, galline, bambini, oltre a donne e uomini, intenti a disbrigare umili lavori di campagna. Siamo in Nagaland, qui giunti attraverso il confine con l’Assam, dopo un volo che da Delhi ci ha condotto a Dibrugarh ed un po’ di chilometri amplificati da un infinito percorso attraverso le pianure dell’Assam, l’unico Stato che, tra quelli nord orientali, ricorda di essere ancora in India. Si, perché, superati i controlli di frontiera (per entrare in Nagaland occorre un permesso speciale), il territorio cambia completamente ed i tratti somatici della gente, di ceppo mongolo, sono molto diversi da quelli indiani. Il tratto di confine è simboleggiato da un grande arco in legno che ci da il benvenuto nella “terra dei Naga”. Ed è proprio questo il motivo per cui siamo qui. Amo particolarmente i luoghi di confine per la loro frenesia e sono compiaciuta quando le auto si fermano per i permessi.
Un gruppo di ragazzi, francamente un po’ alticci, ci viene incontro e, come in un duello frontale, ci scattiamo foto a vicenda, loro con il cellulare che, ahimé, è arrivato anche qui. In Nagaland, l’alcool è fuori legge, ma in un attimo questi giovani superano l’arco e vengono a prenderselo in Assam.
Qua e là ci sono bancarelle e bellissime ragazze dai capelli neri e lunghi, vestite all’occidentale.
Ma tutto il resto non parla di Occidente. Due maiali vivi sono avvolti in una tela, probabilmente per essere venduti.
Desideriamo visitare uno dei Naga, i gruppi tribali, nativi di questi luoghi. La loro cultura andrà presto perduta. Ogni etnia è particolare, ha una propria lingua (prevalentemente di origine tibeto-birmana) e propri costumi e tradizioni. Fino al 19° secolo erano frequenti le battaglie tra tribù e le incursioni reciproche nei villaggi. Tra i ben 16 gruppi etnici, la nostra maggiore curiosità è rivolta ai Konyak, un tempo agguerriti tagliatori di teste e che, oltre al Nagaland, abitano anche il Myanmar e alcuni distretti di Tirap e Changland in Arunachal Pradesh (India). Continuando a salire per le montagne del Nagaland, sopraggiunge il tramonto che qui, come dappertutto, ha sempre il suo fascino. Vicino, ci sono due case in legno. Fuori, una grande gabbia di bambu per le galline, tutte di colore bianco. Ci avviciamo e veniamo invitati ad entrare. Due donne stanno preparando la cena su un focolare al centro della stanza. Sopra il camino, un incrocio di pezzi di legno serve per arrostire la carne. Ci sorridono. Nella seconda casa due uomini, attorno al fuoco, stanno fumando un grosso cannone di oppio ed intorno i bambini gironzolano vivaci. Ci accomiatiamo come possiamo e continuiamo a salire, mentre sta scendendo la sera. Arriviamo a Mon e dobbiamo fermarci al posto di Polizia per “scaricare” il nostro ingresso. Tutto è attentamente monitorato. Presentiamo i nostri passaporti e l’attesa sembra quella vista in un film di Gabriele Salvatores. Qua e là fotografie di ricercati e di persone scomparse. Il giorno seguente, da Mon, dove passiamo la notte, coccolati dall’ospitalità della padrona di casa e delle sue figlie konyak, con cui abbiamo trascorso le nostre serate davanti ad un grande camino, una strada semiasfaltata ci riporta in marcia. Percorriamo ampie valli disseminate di casette in legno, appoggi pratici per gli agricoltori tribali; la vita di questa gente è basata infatti sull’agricoltura, secondo regole di rotazione biennali delle colture per trarre il meglio dalla terra che, dopo dieci anni, viene lasciata a riposare per rigenerarsi e prepararsi a nuove semine.
Finalmente arriviamo ad un villaggio konyak.
I Konyak sono da sempre una delle tribù più isolate della regione ed hanno costruito i loro nuclei sulle sommità di colline tra i 900 e i 1200 metri per meglio controllare i nemici. Ci sta aspettando la persona più importante di quel villaggio, l’Ang, il capo che, inizialmente un po’ reticente, esprime poi la sua simpatia verso di noi e pare divertirsi davanti all’obiettivo fotografico. Al collo porta una collana fatta di perline e denti di animale che regge quattro piccole teste in bronzo. Sono l’emblema della sua passata attività di cacciatore di teste.
Un tempo il numero di teste tagliate e portate al villaggio indicava il potere di un guerriero ed i teschi, che i Konyak credevano possedessero la forza dell’anima dell’uomo ucciso, diventavano una specie di totem del villaggio per favorire prosperità anche alle colture, alla vita personale e alla fertilità. Le si appendeva nel Morong, la casa comune, oppure attorno alla casa del capo del villaggio. Questa attività rappresentava anche un rito di passaggio all’età adulta per i giovani ragazzi konyak.
Quest’uomo si chiama Panpha, ha 77 anni ed è uno degli ultimi tagliatori di teste del distretto Longwa. I lobi delle sue orecchie sono forati e attraversati da un corno di bovino e la sua faccia è tatuata, secondo una pratica che distingue i Konyak da altri gruppi tribali del mondo. Non possiamo vedere il suo petto, perché indossa una camicia ma sappiamo che i Konyak, sia uomini che donne, tatuavano tutto il loro corpo anche se oggi questa pratica non viene più seguita. Il tatuaggio, che si guadagnava per aver tagliato qualche testa nemica, era e, per ciò che ancora rimane, è una connotazione dello stato sociale del membro della comunità ed indica anche il clan a cui appartiene. Con lui vi è un altro tribale, un suo parente, dice. La sua testa è circondata da piume di bucero, l’hornbill, da cui prende il nome un famoso festival che si svolge in Nagaland. Entriamo nella loro casa. Dentro, poche cose e poca luce. Un focolare fatto di pietra, oggetti ed attrezzi per la loro semplice vita quotidiana.
Il “bagno” è fuori, protetto da due lamiere, accanto alla pompa per l’acqua. All’esterno grossi crani di bufali e nessun cranio umano. La loro pratica di tagliatori di teste terminò infatti nel 1969 ma già nel 1935 gli inglesi la resero illegale. Qualcosa delle loro abitudini cominciò infatti a cambiare quando il British Raj iniziò ad interessarsi a quelle terre. Nel 1870, i missionari cristiani battisti arrivarono mettendo in atto un “passaparola” di conversione ed iniziarono a creare scuole nella regione. Nei decenni successivi, molti Naga, che erano animisti e veneravano gli elementi della natura, si convertirono così al cristianesimo. I Konyak furono i più reticenti ma alla fine anche loro cedettero ai privilegi dell’istruzione e a qualche soldo in più. Oggi, ogni villaggio ha la sua Chiesa ed in questo periodo natalizio non mancano simboli a ricordarlo, tanto che, sui bordi delle piccole strade che stiamo percorrendo, qualcuno ha piantato rami di alberi intonacati di bianco e decorati con cotone. Ogni tanto spunta un “Merry Christimas” o qualche grande stella colorata tra le case. Per i religiosi, i tribali erano null’altro che pagani selvaggi da educare e, così, molti dei loro antichi costumi e tradizioni sono andati perduti, compresa l’usanza del tatuaggio, ed i crani umani del passato furono bruciati. Sebbene amante della guerriglia, la comunità konyak era ed è fondata su regole di rigida disciplina che prevede precisi doveri e responsabilità per ogni membro. Ogni villaggio ha, appunto, un capo; la sua casa è solitamente quella che espone più crani (oggi solo animali) e/o quelli più grandi.
A lui rispondono da 3 a 6 sotto-capi a seconda della grandezza del villaggio. Dopo la riorganizzazione sociale, avvenuta a seguito della conversione, la donna ha guadagnato un posto di una certa rilevanza sociale se paragonato a quello delle donne appartenenti ad altre caste indiane; il suo preciso compito è la cura della casa, dei figli, del cibo, la tessitura e il lavoro nei campi. In quella che potrebbe essere la piazza del villaggio, visitiamo un’altra grande casa in legno dotata di un magnifico portale di legno inciso. All’ingresso, qualche teschio umano in legno ed un enorme tronco di albero scavato, posto in orizzontale, con, all’estremità, la testa di una tigre.
E’, questo, un esempio degli strumenti a percussione che, nel passato, i re konyak usavano per richiamare alla guerra gli uomini dei villaggi oppure per depositarvi i teschi umani cacciati mentre tutto il villaggio danzava e festeggiava l’eroe di turno.
All’interno, tra vari utensili e ceste, dei grandi tronchi in legno inciso, posti a pilastro, fanno da cornice a un paio di donne tribali che vendono il loro artigianato, prevalentemente graziose statuette e monili.
Il giorno seguente, siamo pronti per altre visite. Lungo il percorso, a tutte curve, siamo bloccati da un camion accostato ad una strada troppo stretta per consentirci di passare. Grandi e piccini stanno aspettando qualcosa e, a questo punto, anche noi. Un grande toro incordato viene trascinato da uomini verso il camion dove verrà fatto salire probabilmente per essere venduto. Si riparte per il villaggio di Logwa. In cima alla collina, due squadre femminili si stanno affrontando in una partita di pallavolo davanti ad un pubblico di giovani e anziani piuttosto consistente. Probabilmente tutto il villaggio si trova al momento su quel campo. Ci guardano, ma sembrano piuttosto interessati alla partita. Il capo di questo villaggio non è disponibile per riceverci; lo scorgo, infatti, dietro una porta, intento a rilasciare un’intervista televisiva. Visitiamo la sua enorme casa famosa per una particolarità: metà di essa si trova in Nagaland, quindi in India, e l’altra metà in Myanmar! Insomma, con pochi passi nella cucina ampia e luminosa, comunque in stile semplice e piena di utensili, puoi attraversare un confine, senza passaporto! In effetti la Birmania è proprio lì accanto e, geograficamente, è la prosecuzione naturale del Nagaland. Mi affaccio alla finestra, per immaginare… Vedo, là fuori, sopra un albero, un altro grande teschio bianco di bufalo… che sa tanto di un ritratto western. Abbiamo la fortuna di incontrare un altro uomo konyak, tatuato, con un cappello in testa, che, seduti nel luogo dove consumiamo il pranzo, ci rende un’ intervista interessante. Lo ascoltiamo attentamente mentre spiega il significato della tatuazione e afferma che l’avvento del cristianesimo è stata per i Konyak una benedizione che ha fatto loro comprendere la malvagità delle loro azioni di tagliatori di teste e ha costruito per loro scuole che hanno contribuito a migliorare i tassi di alfabetizzazione nella regione.
Mi domando perché le campagne di conversione cristiana del passato (e forse anche del presente) non abbiano avuto la cura di usare metodi meno incisivi e diretti a filtrare e conservare almeno le tradizioni e i costumi millenari “innocui”, che avrebbero potuto così continuare a vivere e ad essere tramandate di generazione in generazione. Un patrimonio che oggi resta solo nella memoria degli anziani e che potrà essere tramandato solo oralmente, sempre se qualcuno se ne vorrà prendere l’impegno per non dimenticare le proprie origini. Oggi i Konyak sono grandi fumatori d’oppio; lo sono gli anziani, i loro figli e i loro nipoti. Fu portato dagli inglesi in Nagaland per controllare i tribali e distrarli dalla loro attività barbara. Di fatto, anche l’introduzione del cristianesimo è servito proprio a questo.
(Testo e foto by Passoinindia)
Phejin Konyak, la pronipote di un cacciatore di teste konyak, ha voluto documentare nel suo nuovo libro, The Konyaks Last of the Tattooed Headhunters, pubblicato da Roli Books, le storie, canzoni, poesie e racconti popolari konyak che ha raccolto in tre anni di incontri nei villaggi di Mon.
“Ma vorrei solo che alcuni dei missionari battisti avessero riflettuto un po ‘più a fondo sugli effetti delle loro azioni. Hanno insegnato che la nuova religione era una rinascita, e nulla dei vecchi modi avrebbe dovuto restare con la persona che rinasce. In questo modo hanno scartato, con noncuranza, così tanta parte della nostra cultura…”, ha detto Phejin Konyak in una intervista.
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