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In India, le piogge sono state tradizionalmente parte integrante della vita. La nostra economia, storia e cultura sono state regolarmente influenzate da episodi periodici di piogge e inondazioni, come anche dalla siccità. I monsoni hanno determinato in larga misura i nostri programmi quotidiani, gli eventi per il tempo libero e le celebrazioni.
Seduto sul balcone continuo a chiedermi come oggi le piogge siano diventate imprevedibili. Prima, verso la fine di giugno, eravamo in attesa dello “scoppio” del monsone che, come avevamo imparato nelle lezioni di geografia, nella parte del mio Paese in cui vivo, arrivano da sempre all’inizio di quel mese.
La stagione delle piogge era così prevedibile anche solo da 10 a 15 anni fa. I nostri genitori e nonni potevano persino prevedere i diversi episodi di pioggia, ognuno con un nome diverso. Al giorno d’oggi, anche con tanto progresso tecnologico e lo studio di fenomeni diffusi in tutto il mondo, come El Nino e La Nina, le previsioni spesso vanno male.
I mesi di giugno e luglio erano mesi di pioggia intensa in diverse regioni. Il monsone diffondeva la sua forza intorno a noi che dovevamo limitare le nostre attività agli spazi di casa. I nostri dormitori all’ostello diventavano intrisi di acqua. I nostri vestiti non si asciugavano mai e gli ingressi delle case si inondavano. Non c’era modo di evitare di bagnarci ogni volta che ci avventuravamo fuori anche solo per poco tempo.
Di solito, la pioggia faceva sì che non ci fosse tempo di giocare nelle ore serali. A volte, il calcio era l’unico gioco in cui la pioggia era benvenuta. Il brivido di giocare a calcio sotto l’acquazzone era qualcosa da ricordare e amare.
Andavamo nella sala da pranzo dell’ostello, in due o tre schiacciati sotto un solo ombrello, bagnati e tremanti. Lumache e millepiedi erano i nostri visitatori abituali. L’unica consolazione era una breve vacanza forzata per il nostro insegnante di educazione fisica; non sarebbe venuto a svegliarci alle 5:30 per fare jogging e sessioni di allenamento.
L’intera atmosfera cambiava, e la città diventava quasi deserta quando pioveva, in attesa della “calma dopo la tempesta”. Le gocce che scendevano dagli alberi, il gorgoglio nelle fogne e i numerosi mini-laghi nel terreno rendevano difficile il ritorno alla normalità per un bel po’ di tempo.
Tuttavia, divento nostalgico quando ricordo quei giorni di pioggia. Quel sonno intimo sotto la coperta, la gioia di giocare, di camminare sotto l’ombrello, di sorseggiare un caffè caldo e gustare le patatine fatte in casa di jackfruit, erano tutti momenti avvincenti.
È spaventoso che in un arco di dieci anni stiamo invece assistendo a una grande quantità di cambiamenti climatici. L’intensità della pioggia che abbiamo visto una volta non c’è più. O c’è un deficit, o c’è un’alluvione che colpisce milioni di vite.
I nostri sogni per una vita migliore si sono trasformati in una avidità per avere sempre di più che ha finito per distruggere il vero sostentamento della nostra stessa gente.
Ogni cultura ha le sue tradizioni che circondano la nascita di un bambino.
Nel villaggio indiano di Piplantri, nello Stato del Rajasthan, è usanza piantare ben 111 alberi ogni volta che nasce una bambina! Non è cosa da poco considerato come, in gran parte dell’India, la nascita di una figlia è da sempre considerata un peso per una famiglia. Essa infatti dovrà provvedere alla sua dote, propedeutica al suo matrimonio, che in India è quasi sempre combinato e costoso. La sposa andrà vivere nella famiglia dello sposo mentre il maschio, dopo l’unione, resterà con la famiglia di origine continuando a contribuire al suo sostentamento. Nei villaggi rurali era usanza fino a poco tempo fa sposare le figlie anche prima della maggiore età senza quindi dare loro una educazione completa. Insomma, in India le donne non hanno e non danno vita facile. A Piplantri si va controcorrente e si continua a seguire un’ usanza che Shyam Sundar Paliwal, ex leader del villaggio, cominciò in onore della figlia morta prematuramente. A Piplantri, quando nasce una bambina, i membri del villaggio si riuniscono per onorarla e offrono denaro. I genitori contribuiscono per un terzo della somma di 31.000 rupie, equivalenti a $ 500, e il denaro viene accantonato in un fondo ventennale per la ragazza. Ciò garantisce che la neonata, anche quando sarà adulta, non sarà mai considerata un onere finanziario per i suoi genitori. Essi, in cambio, sottoscrivono un accordo legale impegnandosi a maritare la figlia solo dopo la maggiore età e dopo un’istruzione adeguata e a prendersi cura dei 111 alberi piantati in suo onore.
Nel corso degli ultimi sei anni, a Piplantri sono stati piantati un quarto di milione di alberi. Gli abitanti del villaggio vivono nell’armonia che questa tradizione ha portato alla loro comunità. La criminalità è diminuita, la comunità si garantisce il sostentamento e le bambine sono amate.
Un interessante articolo (e immagine) tratto da http://romanzosportivo.altervista.org/calcio-incastrato-calcio-india/
Chi ha incastrato il calcio in India? Tra le molte nazionali che non si sono qualificate ai Mondiali, tra cui la nostra povera Italia, c’è una squadra che non è stata e non sarà nemmeno considerata: l’India. E ciò è un peccato perché l’involuzione calcistica (ma anche sociale, politica ed economica come vedremo tra poco) merita un’attenta analisi che seguirà due direttrici principali: da una parte bisogna prestare attenzione al campionato Nazionale indiano, dall’altra occorre ripercorrere la storia della Nazionale con i suoi molti fallimenti ed i suoi rarissimi successi. Ma ci vuole un’introduzione socio-politica per provare a comprendere meglio un paese misterioso. Pronti? Un Paese incomprensibile. Il subcontinente indiano può contare su più di un miliardo di abitanti e su un sistema democratico consolidato che fa diventare la “perla della corona” (come veniva chiamata quando c’era ancora l’impero Britannico) la più grande erede del modello politico fondato ad Atene. Nei primi anni 2000 tutti gli economisti si aspettavano un’esplosione positiva dei due giganti asiatici, la Cina e l’India. La prima ha tenuta fede alle pretese e si è elevata a rango di superpotenza, la seconda ha tradito le attese per un difetto-pregio che l’India possiede: è visceralmente attaccata alle proprie tradizioni. In un Paese che è abituato ad andare ad un ritmo tutto suo e che, per fare un esempio, crede ciecamente nel sistema delle caste, una crescita economica poderosa come quella della vicina Cina è praticamente impossibile. In questo contesto generale è inserito il sistema calcistico, una novità che l’India, paese tra i più contraddittori ed anche tra i più tradizionalisti, non era disponibile ad accettare. Il monopolio del cricket ed un campionato che non decolla. Per analizzare il calcio indiano bisogna cominciare da una verità incontrovertibile: il cricket è, di gran lunga, lo sport più seguito ed anche quello che caratterizza questa Nazione. Centinaia di milioni di persone seguono le partite dello sport nazionale ed i migliori giocatori sono venerati come semi-dei. In questo contesto di monopolio assoluto, hanno cercato di introdurre il calcio. “Hanno” perché la nuova lega indiana, nata nel 2014, è inserita nel progetto di espansione iniziato da Blatter e portato avanti da Infantino (si veda la riforma per l’ampliamento del Mondiale a 48 squadre). L’Italia ha avuto un ruolo tanto importante quanto breve in questa avventura. Del Piero e Materazzi hanno militato ed allenato in questo campionato, e la Fiorentina ha acquistato una squadra per esplorare un mercato potenzialmente ricchissimo. Nell’estate del 2014 i titoloni sui giornali in Italia erano entusiasti e sembravano aver scoperto il nuovo mondo calcistico che aveva trovato nel Subcontinente una frontiera inesplorata. L’euforia è durata troppo poco, investimenti sempre più radi ed interesse internazionale precipitato. Poi c’è l’eterna rivalità con la Cina. Il campionato cinese di calcio ha superato quello indiano ma la sconfitta dell’India si è estesa su tutti i fronti. L’esplosione economica non è avvenuta ed i vecchi problemi (stupri e divisioni in caste su tutti) non sono stati risolti e ciò si ricollega allo spirito tradizionalista di un Paese unico nel suo genere. Così si arriva al 2017, adesso qualcuno sente parlare dell’Indian Super League? Una nazionale insoddisfacente. Il periodo d’oro della nazionale indiana è quello che va dal 1962 al 1970 ma la storia più incredibile è quella del Mondiale 1950. Siamo in Brasile, è il campionato del Maracanazo, e l’India è riuscita a qualificarsi. Ma rinuncia al Mondiale. Il perché di questo “gran rifiuto” è un mistero ma, a noi posteri, sono state tramandate due versioni. Una “nazionalista” ed una più assurda ma più probabile. La prima versione afferma che l’India, dopo aver visto il girone in cui era presente anche e soprattutto l’Italia del blocco “Gran Torino”, abbia rinunciato temendo una debacle clamorosa. La seconda versione narra che i giocatori dell’India abbiano rinunciato perché la FIFA aveva intimato di giocare con le scarpe ai piedi, cosa insostenibile per i fieri indiani che erano orgogliosi del giocare scalzi. Quindi l’India si ritira dall’unico mondiale a cui si era qualificata. Ma, come già detto, il periodo d’oro sono quei otto anni tra il ’62 ed il ’70. L’apice è il quarto posto ai Giochi Olimpici del 1956, poi ci sono una medaglia d’oro ai Giochi Asiatici, un quarto ed un terzo posto (sempre in questa competizione) tutto compreso tra 1962 ed il 1970. Dopo ciò un vuoto che ha fatto allontanare i tifosi indiani dalla passione per il calcio in concomitanza con un Medioevo calcistico che attende ancora un Rinascimento che tarda ad arrivare. I colpevoli sono parecchi: in primis un’organizzazione dei vivai inesistente, poi la presenza di allenatori “autoctoni” completamente impreparati ed il conseguente afflusso di allenatori stranieri che cercano solo di ottenere l’ingaggio più alto possibile. La stessa cosa vale per i giocatori “forestieri”, interessati solo all’ingaggio e subito pronti a fare le valigie. Parlando sempre di chi sta in campo, il livello medio degli indiani è bassissimo e non ci sono talenti in grado di prendere per mano una squadra depressa. Siamo ad un bivio, cosa vuole fare da grande l’India calcistica? Può sembrare un’analisi pessimista che sembra non lasciare spazio nemmeno ad un bagliore di luce. Ma la situazione è veramente così critica. L’argomento di questo articolo potrebbe sembrare fine a sé stesso ma l’involuzione dell’India trascende il calcio e si immerge in una riflessione più globale su cos’è l’India. Come già detto, l’India non si è elevata al rango delle superpotenze perché non ha superato le sue tradizioni. La Cina, ad esempio, ha sacrificato la sua tradizione contadina sull’altare della globalizzazione. L’India non ha voluto farlo e questa non è una sua colpa ma, al contrario, è un atto di coraggio che testimonia la fierezza di quel Paese che una volta era definito il gioiello della corona. Interamente tratto da http://romanzosportivo.altervista.org/calcio-incastrato-calcio-india/
Capitolo 1: Sufismo, dervisci and qawwali in India
Dalla letteratura mistica sufi: “ Finchè io esistevo, Dio non era presente. Ora solo lui esiste e io non ci sono più. Il cammino dell’amore è così stretto che non lascia spazio a entrambi”.
Il sufismo può essere considerato come la dimensione esoterica dell’islam con cui condivide solo alcune pratiche e che non viene accettato dall’islam stesso che lo considera invece come una dimensione spirituale che utilizza metodi non appropriati.
È un insegnamento basato sull’amore. Anche se parlare di questa complessa tradizione non è per nulla facile, l’enfasi della sua parola è sulla perfetta rinuncia e sul totale annegamento in Dio.
Come disse un maestro sufi: “l’amore è azione, l’azione è conoscenza, la conoscenza è verità, la verità è amore.
C’è un senso di unità in questa dottrina che parla della sostanziale unità di tutte le religioni. Una storia sufi racconta che c’erano quattro viaggiatori: un persiano, un turco, un arabo e un greco che si avvicinano ad una bancarella al bordo della strada. “Voglio dell’ angur” dice il persiano, “io voglio l’uzum” dice il turco, “inab è quello che voglio io” dice l’arabo, il greco invece insiste per comprare lo “stafil”. Iniziano a discutere, quando arriva un uomo che conosce molte lingue e offre loro il suo aiuto, prende i soldi, si avvicina alla bancarella e compra quattro grappoli d’uva che porta ai viaggiatori. Tutti e quattro volevano la stessa cosa!
La disarmonia e il dissenso sono spesso causati dalla differenza del linguaggio. Con questa storia si vuole far capire che i viaggiatori sono le persone comuni soggette ai fraintendimenti e alle incomprensioni e il sufi è il linguista ovvero colui che parla e comprende una lingua universale, la lingua dell’amore. Quando emergono in superficie le differenze nei linguaggi, nei significati e nella percezione, solo allora si possono apprendere i veri insegnamenti. Il sufi è un mistico che crede nell’armonizzazione dell’intera esistenza.
“Il sufismo è la verità senza forma”. La parola sufi in arabo vuol dire puro. Un’interpretazione letterale di “sufi” è la persona che veste la lana di cammello.
La metafora del cammino che il devoto deve percorrere per raggiungere Dio deve essere vista qui in relazione al termine Shari’a che vuol dire “la strada già percorsa”, “ la strada che conduce alla sorgente”, la tariqa rappresenta la prosecuzione metaforica di questo percorso, intrapresa dai mistici che dalla strada già percorsa vogliono arrivare all’essenza di essa ovvero all’ haqiqa al cui interno si cela il vero e ultimo significato intrinseco ovvero la marifa cioè l’unione ultima in cui il devoto diventa una sola cosa con Dio.
L’obbiettivo di tutte le pratiche ascetiche sufi è quello di ottenere uno stato di costante ricordo di Dio per rimanere sempre nella sua presenza. I sufi considerano Jikr ( il ricordo), Muraqaba ( meditazione), Mushahada (visione) e Muhasaba (autocritica) come le pratiche più utili per raggiungere questo obbiettivo.
La musica e la danza sono viste come attività catalizzatrici nel produrre uno stato di estasi. I sufi credono che la musica faccia vibrare i loro cuori con l’eco del riverbero, ricordando loro l’ unione con Dio. Gli effetti prodotti dalla musica, dipendono comunque dalla natura e dallo stato emotivo di chi ascolta e di chi canta. Se il devoto non ha ancora superato le passioni terrene, può addirittura farsi del male, ma per un sufi la musica provoca nel suo cuore un amore più alto vicino a Dio e lo può anche condurre ad una visione e ad un’ estasi spirituale assolute. Dicono che la musica produca una purezza nei loro cuori che non sarebbe raggiungibile con nessun’altra pratica. Si crede che Dio abbia donato a tutti la sua eterna musica che risuona nei battiti del cuore (AnahatNad) e la musica esterna vuole essere un tentativo di riprodurre e farci ricordare che questa musica eterna è presente in ognuno di noi al fine di farci avvicinare alla sorgente di questa melodia che è Dio. I ghazals di Rumi continuano ad inspirare cantanti e poeti con le loro riflessioni di amore spirituale come aspirazione umana. I qawwali sono cantati ovunque e uniscono tradizioni musicali differenti come il khayal, thumri, tarana e altre, una meravigliosa tradizione di umanità. Una vecchia canzone dice:
“Mi chiesero come sapevo che il mio amore fosse vero, risposi, ovviamente : c’è qualcosa qui dentro al mio cuore che non può essere negato”.
La passione per la musica devozionale in India, è una caratteristica dell’ordine Chisti. Questo ordine di sufi, fu il primo dei quattro ordini principali del sufismo che si stabilirono in India, chiamati: Chishtia, Qadiria, Suhurawadia e Naqshbandia. Khwaja Muninuddin Chisti introdusse l’ordine Chishti in India intorno al 12’sec. d.c. . I devoti di questo ordine osservano un ritiro di quaranta giorni durante i quali si astengono dalla parola, mangiano solo lo stretto necessario e spendono la maggior parte del loro tempo in preghiera e in meditazione. Questi devoti sono profondamente legati alla musica devozionale attraverso la quale raggiungono l’estasi divina. La musica devozionale Qawwali, li aiuta ad entrare in questo stato. Si dice che l’ordine dei dervisci danzanti, conosciuti come Mevlevi, abbia avuto inizio al tempo di Jalaluddin Rumi, un grande poeta sufi, che era solito tenere dei concerti in memoria del suo maestro Shams Tabriz. Essi credono che la danza simboleggi la danza dell’anima nell’amore di Dio. I dervisci erano asceti che fondarono la confraternita sufi in Arabia, nel loro credo unirono la filosofia intrinseca di tutte le religioni e crearono un nuovo movimento e un nuovo genere musicale. La danza sacra dei dervisci si dice abbia preso vita da un movimento che fece Rumi e che inconsciamente fece roteare la gonna del suo vestito. Da qui prese vita la danza creata da un gruppo che divenne noto come I dervisci erranti. Molti erano i loro seguaci.
Altamente emblematica e altamente spirituale, questa danza, molto diffusa in Medio Oriente e in particolare in Turchia, è l’espressione stessa della realtà divina e della realtà fenomenica, in un mondo in cui tutto, per sussistere, deve ruotare come gli atomi, come i pianeti, come il pensiero.
Il fatto che gli esseri umani possano partecipare alla coreografia del cosmo danzando al suo ritmo è una consapevolezza che l’umanità ha sin da tempi antichi. Nella danza, lentamente il corpo oscilla e il ritmo del sangue cambia, così come anche la consapevolezza. Con una rivoluzione simile a quella compiuta dal cosmo, le mente si assicura la libertà dai limiti terrestri: inizia a concentrarsi sulla profondità stessa dell’esistenza mentre il corpo è stato lasciato a terra. Qui avviene una trance in cui la mente si separa dal corpo e dunque l’anima raggiunge la libertà dallo stesso. Attraverso questa danza I dervisci colgono la possibilità dell’eternità dell’anima che una volta liberata dai limiti fisici si può concentrare sulla totale trascendenza, la loro filosofia si definisce appunto “filosofia trascendentale”. Dall’altra parte il corpo non viene rinnegato ed’ è in questa comprensione di mente e corpo che viene sperimentato il potere dell’ Unico e la Totalità della vita. In questa danza rituale, il movimento che cambia la sua velocità crea un’armonia tra queste differenti essenze del sè e suscita una profonda consapevolezza. La danza è una speciale pratica per addomesticare la percezione e la consapevolezza del derviscio: è una sorta di meditazione dove la consapevolezza del devoto può penetrare il mondo metafisico. Questo crea una relazione tra l’uomo e la sua natura divina. Per il sufi la conoscenza è metafisica e può essere raggiunta solo attraverso la pratica e non attravero lo studio. Inoltre la pratica della danza è importante nell’ottenere la conoscenza poichè nella danza il sufi è allo stesso momento nel mondo e al di fuori di esso. I sufi vivono concentrati nell’ essenza di quello che stanno cercando e non nella quotidianità della vita. Tutto il loro lavoro quotidiano consiste nell’ esercitare il corpo a sopportare il peso della sua materia e nell’ essere capace di superarlo.
Il Semà, ovvero questa danza rituale, simbolizza l’ascesa spirituale , il viaggio mistico dall’essere a Dio, in cui l’essere si dissolve ritornando poi sulla terra.
Disse il grande maestro sufi del IX secolo Dhu âl Nûn âlMisr:
“prima di compiere il viaggio credevo che le montagne fossero montagne e i mari fossero mari; durante il viaggio scoprii che le montagne non sono montagne e i mari non sono mari; ed ora che sono tornato so che le montagne sono montagne, e i mari sono mari”.
Partecipano al rito da un lato un gruppo di musici e cantanti, dall’altro il Maestro, il capo dei danzatori e i danzatori. Tutti hanno un abito bianco sopra il quale portano un mantello nero. Nessun altro colore è ammesso, e tutti sono, rigorosamente, maschi. La cerimonia è divisa in varie fasi. Il rito inizia con un inno di lode al Profeta, o con la recitazione dei dieci passi più importanti del Corano. Questa eulogia è in pari tempo una lode a tutti i Profeti e a Dio che li ha creati. Segue una introduzione con un’ improvvisazione di flauto. Un suono di tamburi , la seconda fase , simbolizza la creazione del mondo; e poi , la terza fase, la dolce melodia di un flauto, col suo suono sensibile e delicato rappresenta il soffio divino da cui tutte le creature traggono vita.
Terminato questo concerto, comincia il semà vero e proprio con un inno mevlevi. Mentre il coro accompagnato dall’orchestra inizia a cantare, entrano in fila il Maestro, il capo dei danzatori, e i danzatori, coperti da un mantello nero, simbolo dell’ignoranza e della materia, sotto il quale indossano un abito bianco che rappresenta,la luce e il distacco dall’ ego. Il Maestro ha un caratteristico copricapo nero avvolto dal turbante nero e prende posto su una pelle di montone tinta di rosso; i dervisci indossano un alto cappello di feltro marrone, che simboleggia la pietra tombale del loro ego. A passi lenti, percorrono in senso antiorario tutto il perimetro per tre volte. Poi si fermano su un lato lungo e ha luogo, con un lieve inchino, lo scambio reciproco di saluti. Ciò simboleggia il saluto che tutte le anime nascoste nelle forme e nei corpi si scambiano in segno di mutua fratellanza. Se in questo momento i danzatori si siedono, prima di rialzarsi battono all’unisono le palme delle mani sul pavimento. Alla fine i danzatori depongono il mantello nero e, in piedi rimangono un attimo con le braccia incrociate e le mani sulle spalle a simboleggiare l’unicità dell’essere con l’Assoluto.
Ha inizio allora la fase più suggestiva, divisa in quattro parti, dette “saluti”. A uno a uno i danzatori si dirigono verso il maestro, gli baciano la mano, vengono da lui baciati sul bordo del copricapo di feltro, cominciano a roteare su se stessi e, dopo aver allargato le braccia , sempre roteando su se stessi iniziano a girare attorno alla sala, la mano destra volta al cielo a simboleggiare la vicinanza con Dio, la mano sinistra volta alla terra per includere tutti i presenti alla presenza di Dio. Così girano tutti da destra a sinistra, in un’ampia vorticosa immagine dell’Essere, mentre il capo dei danzatori passa lentamente fra loro.
Questa cerimonia è ripetuta integralmente quattro volte, ossia per quattro “saluti”, interrotti ciascuno da un arresto della musica. Sul finire dell’ultimo “saluto”, il Maestro stesso, “polo celeste”, compie a piccoli e lenti passi un breve percorso davanti a sé, girando su se stesso e tenendo tirato con la mano destra il bavero del mantello.
Il primo “saluto” simboleggia la nascita dell’essere umano alla verità, cui giunge grazie al ragionamento in una formale presa di coscienza che lo rende consapevole dell’esistenza di Dio. Il secondo saluto simboleggia il raggiungimento d’una consapevolezza superiore, in cui l’essere umano sente la Potenza di Dio attraverso lo splendore della Sua creazione. Nel terzo saluto l’essere umano giunge a Dio eliminandosi in Lui, ed è l’estasi ed il superamento d’ogni transitorietà fenomenica. Il quarto “saluto” simboleggia il ritorno sulla terra dallo stato di estasi, e l’accettazione della materia dopo l’ebbrezza della luce divina. Il viaggio mistico è così finito e il sufi, «morto prima di morire», ha testimoniato materia e spirito, essenza reale e transitorietà fenomenica.
Non appena l’orologio segna le 21:00, la trasandata e poco illuminata stazione di Bathinda riprende a vivere, presa d’assalto da una valanga di deboli pazienti che si accalcano sulle piattaforme e si fanno spazio a sgomitate per un prendere un posto nel “treno del cancro”. Ramkishan, un uomo sulla cinquantina, respirando a fatica e tossendo, rimane seduto sulla banchina finchè la folla non si calma, poi prende lentamente a camminare per raggiungere il treno e sedersi a lato del finestrino nel posto riservato.
“Sto andando all’ospedale di Bikaner”, dice quasi senza fiato. “ Mi hanno detto che ho raggiunto lo stadio finale di cancro”. Questo potrebbe essere il mio ultimo viaggio”.
Il treno a 12 compartimenti ha ottenuto questo macabro nome da un’improvvisa ondata di casi di cancro nello stato del Punjab nel nord-est dell’India, provocati da un inquinamento crescente e dall’uso sempre maggiore di pesticidi e soprattutto da una poco efficace risposta delle autorità governative.
I pazienti arrivano da ogni parte del Punjab per prendere il treno delle 21:30 che li porta nella città-deserto di Bikaner dove possono ottenere cure specialistiche, arrivando la mattina presto dopo sette ore di viaggio. In questa occasione, l’unico compartimento del treno riservato, con una capacità di 72 posti, viene occupato da trenta pazienti malati di cancro.
Inizialmente questo treno era conosciuto come “il treno TB” perchè veniva usato dai pazienti affetti di tubercolosi che dovevano raggiungere ospedali lontani, ma negli ultimi anni ha ottenuto il nome di “L’ESPRESSO DEL CANCRO”.
Questo treno è utilizzato dai pazienti affetti da tumore, circa il 60% dei posti è occupato da pazienti diretti a Bikaner. Molti altri pazienti viaggiano stipati nei compartimenti generali poichè non possono permettersi di pagare un biglietto.
Simarpal Kaur, 50 anni, è un professore che come altri pazienti siede sul treno, condanna la crescita del cancro dovuta all’acqua contaminata e ai pesticidi utilizzati per i cereali , la frutta e la verdure.
Consapevole del problema, il governo del Punjab ha organizzato un Sistema di purificatori per l’acqua nei villaggi maggiormente colpiti come Bhuttiwala soprannominato il “villaggio del cancro”. Ma i residenti condannano il fatto che questi purificatori non vengano puliti regolarmente e quindi non funzionano a dovere.
” Non sono state condotte ricerche sufficienti sulla prevalenza del cancro in Punjab e dunque non abbiamo informazioni a sufficienza.” dice il Dr. Pritpal Singh del centro per bambini speciali, Baba Farid.
“Le persone non rivelano che qualcuno nella loro casa è malato, per paura di essere stigmatizzati, dunque alcuni casi vengono alla luce quando il paziente ha già raggiunto lo stato finale della malattia.”
Otto mesi fa il centro di Baba Farid ha condotto una ricerca nel villaggio di Bhuttiwala, che identificava 20 pazienti malati di cancro, quando ritornarono a vedere le condizioni di saluti dei pazienti, 18 erano già morti.
Un’ inchiesta di Greenpeace report condotta da scienziati dell’università di Exeter nel Regno Unito, trovò che il 20% dei campioni dell’acqua dei pozzi aveva livelli di nitrato sopra il limite di sicurezza di 50mg per litro, stabilito dall’organizzazione della sanità mondiale. Il nitrato è una sostanza che può provocare gravi danni alla salute soprattutto nei bambini.
Nel 2010 il centro Baba Farid si è consultato con il Laboratorio di Micro Tracce Minerali , in uno studio da cui sono usciti fuori risultati incredibili che hanno trovato alti livelli di metalli pesanti come il bario, il cadmio, il magnese, il piombo e l’uranio in bambini di età tra i 13 e i 18 anni. Nonostante ciò abbia provocato un gran baccano e abbia scatenato le autorità a muoversi, poco o quasi nulla è stato fatto e quel poco che è stato fatto non ha avuto nessun risultato, secondo il Dr Singh. che racconta che ogni giorno ha a che fare con circa 30 nuovi casi di bambini affetti da malformazioni congenite, autismo e ritardo mentale.
“in un’azione di contenimento dei danni, il governo del Punjab ha creato delle unità di bonifica dell’acqua, ma questo è stato solo un gesto simbolico in quanto molte di queste strutture non sono mai state messe in funzione” dice il Dr. Singh. “Dunque alle persone non resta che bere acqua contaminata e farsi il bagno con l’acqua del rubinetto che proviene direttamente dai canali dove senza pudore, vengono smaltiti gli scarichi industriali. Inoltre l’uso intensivo dei pesticidi nelle fattorie e l’eccessivo sfruttamento dell’acqua del suolo per l’irrigazione dei campi, ha contaminato le acque. È un circolo vizioso di inquinamento del suolo, dell’acqua e del cibo”.
È la cosidetta “rivoluzione verde” che viene incriminata per questo disastro di inquinamento delle risorse che sembra non avere margini di ripresa. C’è stato un periodo in cui, nel 1960 la crescita agricola ha raggiunto livelli altissimi al punto che il Punjab venne definito “la dispensa dell’India”, un periodo in cui le risorse abbondavano così come l’uso di pesticidi. E questo uso incontrollato e irragionevole ha dato vita alla Green Revolution, ma ha anche creato questa straziante situazione. Nessuno può negare che la rivoluzione verde ha aumentato gli standard di vita della popolazione del Punjab e adesso difficilmente si vedono capanne nella regione, qui infatti anche I contadini hanno case private, guidano macchine e indossano abiti firmati. La rivoluzione era assolutamente necessaria in quel periodo, se non fosse avvenuta, difficilmente si sarebbe riusciti a sfamare la sempre più crescente popolazione Indiana.
Il governo del Punjab ha commissionato la sua ricerca sul cancro nel 2010, dalla quale è emerso che su 100.000 persone 130 sono affette da tumore , un numero in linea con la media nazionale di 137 . Il dott. Singh critica fortemente la metodologia usata e considera questa ricerca una beffa.
Il Dr Karnjit Singh, direttore della sanità del Punjab, insiste a dire che sono molteplici I fattori che furono responsabili per l’aumento dei casi di cancro all’interno dello stato. “ ci sono vari fattori come l’epatite b, l’infezione da virus e il fumo, sarebbe improprio dire che sono stati I pesticidi la causa della diffusione dei casi di tumore” dice.
Il governo federale dell’india ha espresso preoccupazione riguardo l’avvelenamento da pesticidi e ha pianificato di modificare la legislatura sui fertilizzanti e sui pesticidi nonostante sia certa l’opposizione delle lobby che commerciano con questi prodotti. Anche se il governo smentisce la pressione di queste lobby. “Se c’é una qualche lobby, è una lobby per I contadini” afferma il ministro dello stato per l’agricoltura, Sanjeev Kumar Baliyan.
Solo nel 2017 il governo ha acconsentito ad eliminare l’uso di endosolfato e tutte le riserve di pesticidi hanno superato la data di scadenza.
Baliyan afferma che il governo non può stabilire un divieto assoluto nell’uso dei pesticidi, ma che sta cercando delle alternative come la coltivazione organica. Ovviamente la complicità tra il governo e le lobby di pesticidi è un discorso fondamentale per capire come mai la situazione venga così poco presa sul serio.
Tutti I pazienti che usano questo treno affrontano questo viaggio per poter essere accolti dalle cure dell’ospedale regionale per il tumore l’Acharya Tulsi e del centro di ricerche Prince Bijay Singh Memorial Hospital in Bikaner che come molti degli ospedali del Punjab è coperto da una serie di benefici che rientrano nello schema di aiuti del primo ministro del Punjab per le cure dei malati di cancro.
Uno di questi passeggeri è Madan Lal di 68 anni che insieme a sua sorella occupano la cabina letto, dove possono almeno provare a distendersi. Lal che arriva dal villaggio di Mallan nel distretto di Faridkot in Punjab, ha subito diversi trattamenti alla gola nell’ultimo anno e si è dovuto recare più di 30 volte all’ospedale di Bikaner.
La prima domanda che sorge spontanea è: perchè tutti questi malati di tumore provenienti dal Punjab viaggiano fino in Rajasthan per delle cure, quando lo stesso Punjab si vanta di avere dei buoni centri per la cura del cancro?
Sarebbe facile giudicare ciò che sto per raccontarvi. Nell’India rurale, soprattutto negli Stati di Maharastra e Karnataka, ha luogo un rituale che induisti e musulmani, insieme, celebrano probabilmente da almeno 700 anni. Secondo la leggenda, alcune famiglie cui stava per morire un bimbo furono avvisate da un santo che chiese di costruire un santuario dal quale, in segno di fede verso di lui, avrebbero dovuto essere gettati i nascituri malati. Questa pratica va avanti da allora fino ad oggi. Presso alcuni templi, come ad esempio la moschea di Baba Umer Durga, a Solapur, in Maharastra, i sacerdoti prendono i bambini, solitamente entro due mesi dalla nascita, per braccia e gambe e li gettano dal tetto, in offerta al dio in segno di ringraziamento per la loro salute e di augurio di buona fortuna. I bambini fanno un volo di 15 metri prima di cadere sopra ad una coperta tenuta da altri fedeli indu e musulmani. I genitori ed una folla immensa che canta e balla attende l’arrivo del piccolo che ovviamente si libera in un pianto dirotto. Lo stesso avviene al tempio indu di Sri Santeswarin Karnataka, durante la prima settimana di dicembre quando, ogni anno, circa 200 bambini, la cui età è mediamente sotto i due anni, vengono lanciati dal tempio. Eppure questo rituale pare non essere parte né della tradizione indù classica né di quella musulmana. Tutto ciò può apparire meno macabro se pensiamo che inizia in un periodo in cui la mortalità infantile era elevata più di oggi quando tuttavia troppe famiglie hanno ancora un accesso limitato ai servizi sanitari. Nel 2009 la commissione nazionale per la protezione dei diritti dei bambini intervenne a tentare di fermare questa pratica ritenuta inutile e dannosa per la salute psichica dei piccoli e quindi illegale. Ancora oggi le organizzazione per i diritti dei minori continuano a denunciare questo fenomeno che tuttavia sembra non sia mai stato causa di lesioni per i nascituri. E speriamo non lo sia nel futuro. Perché in India le tradizioni sono dure a morire. E dove non arriva la tutela dello Stato, arriva la superstizione.
(passoinindia)
immagine da http://zafigo.com/stories/zafigo-stories/4-indian-festivals-with-unique-rituals/
Perchè in India la mucca è sacra? Molto spesso, in India, vediamo girovagare mucche in libertà in mezzo al traffico cittadino, una delle rare situazioni in cui le auto rallentano. Tutti sanno che la mucca è considerata sacra. Le ragioni sono religiose e sociali.
Un indu risponderebbe alla domanda precisando di adorare non le mucche ma la divinità onnipresente che è dentro di esse e preciserebbe anche che per indu e giainisti tutti gli esseri viventi hanno un’anima e quindi sono sacri, particolarmente la mucca che li rappresenta tutti. Animale da cui tutto si può prendere, tranne la vita, la vacca richiede poco per vivere e fornisce il latte da cui si ottengono alimenti essenziali per l’uomo come il formaggio, lo yoghurt, il burro chiarificato (ghee), diventando simbolo, sin dai tempi antichi, dell’abbondanza e della Terra che nutre la vita.
I cinque prodotti (pancagavya) della mucca – latte, cagliata, burro (ghee), urina e escrementi – sono tutti utilizzati nella puja (come avviene nella Yagna, l’adorazione del fuoco) e nei riti di estrema penitenza. Nelle scritture indù il latte è considerato tra le più alte forme di cibo (satvik) oltre che avere poteri calmanti e di ausilio alla meditazione.
Nel Rig Veda (4.28.1; 6), l’antichissimo testo sacro, si legge. “Le mucche sono venute e ci hanno portato fortuna. Nelle nostre stalle, contente, possano rimanere! Possano crescere per noi i vitelli, dando latte per Indra ogni giorno. (…). Rallegrate la nostra fattoria con piacevoli muggiti.” Versi del Rig Veda si riferiscono alla mucca come Devi (dea), identificata con la dea vedica Aditi, madre di tutte le forme esistenti, degli dei e degli esseri viventi.
Della mucca non si butta niente. La sua urina e il suo sterco sono disinfettanti; i pavimenti di terra delle modeste abitazioni dei villaggi, un tempo non rivestiti, come oggi, di piastrelle o cemento, venivano coperti con strato di sterco di mucca a scopo antisettico. Lo sterco essicato di mucca è inoltre da sempre utilizzato come combustibile (gobar) e l’urina viene impiegata nell’antica medicina ayurvedica.
Nella mitologia induista Kamadhenu (significato: da cui tutto ciò che è desiderato viene disegnato), chiamata anche Surabhi (in sancrito vuol dire gradevole, affascinante, fragrante – dal buon odore della mucca), è la dea madre di tutte le mucche, simbolo di prosperità ed è raffigurata in vari modi, talvolta con la testa femminile, il seno, le ali dell’aquila e la coda del pavone; altre volte con un corpo contenente le altre divinità dell’induismo: le gambe simboleggiano le sacre scritture Veda, le corna rappresentano la trinità Brahma, Vishnu e Shiva, gli occhi sono gli dei sole e luna, le spalle sono il simbolo di Agni, il dio del fuoco, e di Vayu, il dio del vento mentre e gli stinchi rappresentano l’Himalaya.
La mucca è quindi considerata l’incarnazione terrena (avatar) di Kamadhenu diventando così un tempio vivente e mobile che non ha creato negli indu l’esigenza di avere templi specificamente dedicati a lei che, infatti, non è adorata in modo indipendente come una dea anche se in molti luoghi di culto vi si possono trovare sue raffigurazioni. Gli indiani indu onorano quindi la mucca, e addobbandola con ghrlande e colori, la festeggiano in certe occasioni, come ad esempio durante la festa annuale di Gopashtama.
La mucca diventa cosi un componente della famiglia, da rispettare e onorare persino in vecchiaia; pensate che in Inda ci sono più di 3.000 Gaushalas, isitituti sorretti da beneficenza, che si prendono cura delle mucche vecchie e malate.
Nell’antica India, buoi e tori venivano sacrificati agli dei e la loro carne veniva mangiata. Eppure le antiche scritture vediche già incoraggiavano il vegetarianismo. Nei Veda infatti è scritto: “Non vi è alcun peccato nel mangiare carne … ma l’astensione porta grandi ricompense.” (Le leggi dell’uomo, V / 56).
Più tardi gli indù smisero di mangiare carne di manzo per ragioni pratiche e non spirituali considerato come fosse oneroso macellare un animale per riti religiosi o per un ospite, privandosi così di un animale, come la mucca, che così tanto offre ll’uomo. Inoltre l’industria del cuoio e quella della macellazione erano estremamente inquinanti.
Alcuni studiosi ritengono che la tradizione di non mangiare carne sia stata trasmessa all’induismo dal giainismo.
Nei primi secoli d.C., la mucca veniva considerata il regalo più adatto per i brahmani (sacerdoti di alta casta) e quindi si credeva che uccidere una mucca equivalesse ad uccidere un sacerdote.
L’importanza dell’elemento pastorale nelle storie del Dio Krishna, in particolare dal X° secolo in poi, ha ulteriormente rafforzato la santità della mucca.
Questo docile bovino incarna la virtù induista della non-violenza, nota come ahimsa e ed esprime dignità, forza, resistenza, maternità e servizio incondizionato.
Un giorno Gandhi disse: “Si può misurare la grandezza di una nazione e il suo progresso morale dal modo in cui tratta i suoi animali. Proteggere la mucca vuol dire proteggere tutto ciò che vive ed è impotente e debole nel mondo. La mucca rappresenta l’intero mondo subumano.
Namasté, Namaskar, Namaskaara o Namaskaram. E’ così che ci si saluta in India, abbassando il capo a mani giunte davanti al petto. Namastè significa “mi inchino a te”, dal sanscrito namas (inchinarsi, salutare con reverenza) e te (a te). E’ un saluto tradizionale e profondamente spirituale perché implica la convinzione che la forza vitale, la divinità, il Sé o il Dio dentro se stessi è la stessa che risiede in tutti. Riconoscendo questa unità con la riunione dei palmi, onoriamo il Dio in persona che incontriamo e quindi, con il saluto, gli diciamo “le qualità divine che sono in me si inchinano alle qualità divine che sono in te”. Durante le preghiere, gli indù non solo fanno Namaste ma abbassano il volto e chiudono gli occhi, per guardare simbolicamente nello spirito interiore. Questo gesto fisico, nelle preghiere, è a volte accompagnato da nomi di divinità come ‘Ram Ram‘, ‘Jai Shri Krishna‘, ‘Namo Narayana’, ‘Jai Siya Ram’ o semplicemente ‘Om Shanti‘, il ritornello comune nei canti indù. Il vero incontro tra le persone diventa così l’incontro delle loro menti. Namasté e le sue comuni varianti è una delle cinque forme di saluto formale tradizionale menzionate nei Veda.In India, si sa, non ci sono solo indu. (foto jewmannewmansblog.blogspot.com)
I seguaci della religione Sikh, che in prevalenza abitano le regioni del Nord India come il Punjabi, dicono invece “Sat Sri Akal” con le mani giunte sul petto.
“Sat” significa “verità”; “Sri” si dice per rendere onore e rispetto e “Akaal” (o Akal) significa “l’essere senza tempo, Dio“. La frase quindi nel suo complesso significa “Dio è la verità ultima“. Anche i Sikh che abitano gli altri Paesi del mondo continuano a salutarsi così. Gli indu del Punjabi usano il loro “namasté” oppure, se rispondono ad un skh, anche “Sat Sri Akal” e anché un sikh potrà rispondere namasté! L’utilizzo di Sat Sri Akal come saluto, anche se usato dalla maggior parte de sikh, è considerato non corretto dagli Amritdhari (i battezzati) sikh, poiché il termine è storicamente la seconda metà del grido di guerra Sikh “Jo Bolay so Nihal, Sat Sri Akal“, ed è ancora usato da loro nello stesso modo. Alcuni reggimenti dell’esercito indiano dove spesso i sikh hanno militato con fervore, lo hanno usato come loro grido di battaglia.
Secondo il Rehat Maryada, il codice di condotta sikh, gli Amritdhari sikh devono salutare con “Waheguru Ji Ka Khalsa Waheguru Ji Ki Fateh“, che significa “Il Khalsa (la purezza) appartiene al Signore Dio! Così la vittoria appartiene a Dio!“. (foto Passoinindia)
Anche in India i musulmani si salutano, tra uomini e donne e nella maggior parte delle situazioni, dicendo “As-salam alaykom“, che significa “la pace sia con te”. In arabo si scrive, da destra verso sinistra, السلام عليكم e si pronuncia: Ahl sah-LAHM ah-LAY-kum. La risposta a questo saluto è “Wa Alykom As-slam“, che significa “la pace sia anche con te” o “pace anche a te” e in arabo si scrive وعليكم السلام e si pronuncia: Wah ah-LAY-kum ahl sah-LAHM. (foto www.indianmuslims.in)
L’Ambassador è la prima macchina Made in India e da più di 50 anni è la regina delle strade indiane. La storia dell’Ambassador comincia nel 1448 con la Hindustan Motors di G.K. Birla che vuole ispirarsi al design della macchina Britannica Morris Oxford. Il suo look anche con il tempo non è cambiato tanto, anzi è diventato un’ icona delle quattro ruote e può ospitare comodamente sette persone. L’Ambassador una volta era un simbolo di potere e l’icona della grande famiglia indiana. Per molti anni è stata l’auto dei ministri, ed ancora oggi è la macchina ufficiale dell’esercito e di molti ufficiali di polizia. Fino ai primi anni ’80, la maggior parte delle auto vendute in India era una Ambassador. Adesso, con la concorrenza straniera, la sua produzione è quasi sospesa e ormai viene utilizzata come taxi nelle città.
Ormai la mitica Ambassador fa la parte della storia dell’India e della nostra vita perché noi indiani siamo cresciuti vedendo e utilizzando questa macchina che perciò continua ad essere una protagonista.