Piplantri, gli alberi delle bambine

Ogni cultura ha le sue tradizioni che circondano la nascita di un bambino.

Nel villaggio indiano di Piplantri, nello Stato del Rajasthan, è usanza piantare ben 111 alberi ogni volta che nasce una bambina! Non è cosa da poco considerato come, in gran parte dell’India, la nascita di una figlia è da sempre considerata un peso per una famiglia. Essa infatti dovrà provvedere alla sua dote, propedeutica al suo matrimonio, che in India è quasi sempre combinato e costoso. La sposa andrà vivere nella famiglia dello sposo mentre il maschio, dopo l’unione, resterà con la famiglia di origine continuando a contribuire al suo sostentamento. Nei villaggi rurali era usanza fino a poco tempo fa sposare le figlie anche prima della maggiore età senza quindi dare loro una educazione completa. Insomma, in India le donne non hanno e non danno vita facile. A Piplantri si va controcorrente e si continua a seguire un’ usanza che Shyam Sundar Paliwal, ex leader del villaggio, cominciò in onore della figlia morta prematuramente. A Piplantri, quando nasce una bambina, i membri del villaggio si riuniscono per onorarla e offrono denaro. I genitori contribuiscono per un terzo della somma di 31.000 rupie, equivalenti a $ 500, e il denaro viene accantonato in un fondo ventennale per la ragazza. Ciò garantisce che la neonata, anche quando sarà adulta, non sarà mai considerata un onere finanziario per i suoi genitori. Essi, in cambio, sottoscrivono un accordo legale impegnandosi a maritare la figlia solo dopo la maggiore età e dopo un’istruzione adeguata e a prendersi cura dei 111 alberi piantati in suo onore.

Nel corso degli ultimi sei anni, a Piplantri sono stati piantati un quarto di milione di alberi. Gli abitanti del villaggio vivono nell’armonia che questa tradizione ha portato alla loro comunità. La criminalità è diminuita, la comunità si garantisce il sostentamento e le bambine sono amate.

Passoinindia.

Le sfide delle donne in India.

Le sfide delle donne in India
di Maria Teresa Mercinelli*

Quando mi viene chiesto di parlare della mia vita con le donne indiane, e quindi di tradurre in parole tutto quel bagaglio di emozioni, immagini, ricordi che esse hanno rappresentato per me negli anni vissuti a New Delhi, provo sentimenti contrastanti: da un lato la gioia di condividere ciò che ormai fa parte di me, dall’altra la responsabilità di non falsare, con il mio “filtro”, l’immagine che propongo. Ricordo, infatti, la raccomandazione che una mia cara amica indiana soleva ripetermi, ogni qualvolta mi faceva incontrare realtà diverse di donne emarginate: “Conserva bene nei tuoi occhi, nella tua mente, nel tuo cuore tutto ciò che osservi, perché sarai tu, nel tuo paese e dovunque vorrai, gli occhi, le gambe, le menti e i cuori di tutte le donne che, a differenza di te, non hanno la possibilità di far conoscere la loro condizione”.

Insieme a mio marito Ambrogio e ai nostri figli, Mattia e Marco Maria, ho vissuto qualche anno come missionaria laica in India, dove ho avuto modo di incontrare e conoscere tante donne diverse per età, cultura, religione, condizione sociale e casta. Il mio impegno si è rivolto soprattutto verso le donne socialmente più emarginate – “fuori casta”, domestiche, prostitute – e i loro figli.

Come donna, ed in particolare come donna occidentale, sono rimasta sorpresa, turbata o entusiasta, a seconda dei casi, di questo mondo femminile indiano così diverso dal mio.

Prima di affrontare la condizione della donna in India, con tutti i problemi che ne scaturiscono, vorrei sottolineare i valori che l’incontro con questo “mondo” mi ha trasmesso. Anzitutto la dolcezza: il delicato sorriso, tipicamente orientale, è il “biglietto da visita” con cui le donne si presentano e che, per una “straniera” quale ero io in quel contesto, è stato un vero incoraggiamento, un modo di farmi sentire meno sola e più accolta. Unadolcezza tutta femminile che non è mai sdolcinatura, bensì grazia, delicatezza (da non confondere con debolezza), caratteristiche che noi donne occidentali stiamo rischiando di perdere, indossando un’aggressività che non ci appartiene, per paura di non essere in grado di competere con gli uomini.

Mi ha colpito, inoltre, il loro gusto e il forte “senso del bello”, che si esprime nella cura della persona, prassi che accomuna ricche e povere. Penso agli splendidi capelli adornati da gelsomini delle donne del Sud, agli oli e balsami adoperati sin dall’infanzia, per arrivare all’infinita varietà di sari che avvolgono in modo elegante e sensuale il loro corpo senza mai traccia di volgarità.

Per non parlare poi della forza e del coraggio di tante donne, mogli, madri, che nella mia vita sono state una sfida ed un incitamento a lottare contro le ingiustizie, anche in condizioni di povertà e di solitudine.

L’India è un Paese dalle grandi risorse culturali e tecnologiche ma anche segnato da profonde sofferenze e privazioni, di cui le donne sono il bersaglio preferenziale. Ecco perché, accanto ai valori da esaltare e potenziare, il risvolto della medaglia mostra aspetti della condizione femminile per i quali è indispensabile un cambiamento.

La bambina è un’intrusa sconosciuta, causa di dolore quando nasce, una maledizione per i genitori che devono provvedere alla dote. La bambina è anche quella che deve essere nutrita meno rispetto alla controparte maschile ed è una facile preda per sfruttamenti sessuali. Questa è la bambina. In una società in cui donne e bambini hanno pochi diritti, per il fatto di essere entrambi, lei non ne ha nessuno”. (Tratto da Bachi Kar Kaia, Prigioniera del Genere).

Osservando la realtà dall’interno, si comprende come la condizione della donna in India dipenda in gran parte dalla mancanza di istruzione e, quindi, da una dilagante povertà materiale e culturale, terreno fertile per lo sviluppo di tabù, superstizioni, pregiudizi e ingiustizie. La scorretta interpretazione dei testi sacri delle religioni praticate contribuisce a relegare la donna in ambiti di sottomissione e di assenza di autonomia, sia nel contesto famigliare che sociale.

Gli esempi in questo senso sono innumerevoli. Molti casi di violenza sulle donne hanno a che fare con la dote, uno dei tanti motivi per cui la nascita di una bambina non è sempre ritenuta un lieto evento. L’istituzione della dote è una condizione prematrimoniale che consiste nell’offrire alla famiglia dello sposo una quantità di denaro o di regali proporzionata alle aspettative. Se queste sono al di sotto delle richieste, la sposa non è accettata. Poiché il matrimonio è una delle tappe più importanti nella vita di un indiano, i genitori di una ragazza arrivano ad indebitarsi per anni pur di assicurare alla figlia una dote consistente. È facilmente comprensibile, allora, che avere più di una figlia costituisca un problema per una famiglia povera. Un figlio maschio, inoltre, è di solito preferito ad una femmina poiché quest’ultima, una volta sposata, lascia definitivamente la casa paterna per dedicarsi ai genitori e alla famiglia dello sposo, mentre il figlio rimane nella casa dei genitori, di cui si prenderà cura, ereditandone tutti i beni. La conseguenza è un atteggiamento di particolare cura nei confronti dei figli maschi e trascuratezza verso le bambine, dall’alimentazione, alla salute, per arrivare all’istruzione, fino ai casi più drammatici di aborti di bambine. Per evitare che questo si verifichi, il governo indiano ha approvato una legge che proibisce l’aborto di feti sani. In particolare, dal 1994 i medici hanno l’obbligo di non rivelare il sesso del nascituro durante l’ecografia.

Per restare sempre nei contesti più poveri – villaggi nelle zone più interne, alcune zone rurali e le periferie urbane delle grandi città – la mancanza di attenzione espone le bambine a vari tipi di violenze, tra cui quelle sessuali. Di qui la necessità per i genitori di farle sposare subito, in quanto, con il matrimonio, la famiglia di origine è sollevata da ogni responsabilità. In alcune zone questo continua ad essere il motivo alla base dei matrimoni in giovanissima età (child marriage). Una ragazzina che subisce violenza sessuale avrà infatti molta difficoltà a trovare un marito, e ancor di più una famiglia, disposta ad accettarla. Molte delle prostitute che ho incontrato nei bordelli di New Delhi erano ragazzine costrette a prostituirsi perché prive di futuro, avendo subito uno stupro.

Nel matrimonio, che nella maggior parte dei casi è combinato dai genitori degli sposi, la donna si trova spesso costretta ad una posizione subordinata rispetto all’uomo. Nei testi sacri hindu, pur essendo esaltato e benedetto il ruolo della donna quale sposa e madre, emerge la concezione della donna come pathivartha, cioè “devota al proprio marito”. Se dunque il marito è come un dio, la moglie può raggiungere la salvezza solo attraverso un atteggiamento di devozione. Tutto questo, però, spesso sfocia in un’errata interpretazione di una condizione di sottomissione della donna, che è negazione di autonomia, fino ai casi drammatici di tante povere vedove di cui nessuno si prende cura a causa di idee superstiziose. Emblematico, a tal proposito, il sati, gesto estremo di disperazione e protesta in cui la vedova si getta sulla pira funebre del marito.

Il quadro finora tracciato sarebbe desolante e senza speranza se non avessi conosciuto il coraggio, la forza e la determinazione con cui queste stesse donne sfidano le “leggi” inique che muovono le loro famiglie e la società intera, per costruire qualcosa di buono e di nuovo. Sono avvocati, domestiche, casalinghe, suore, medici, volontarie… tutte insieme per un cambiamento di mentalità da realizzare a qualunque livello.

Ci sono domestiche che insieme hanno steso una sorta di “Carta dei Diritti” da far sottoscrivere ai propri datori di lavoro per non essere più sfruttate (in tutti i sensi); ci sono prostitute che hanno seguito corsi di formazione sull’AIDS; ci sono donne impegnate politicamente che si battono per aumentare la rappresentanza femminile in Parlamento.

Lentamente molte cose stanno cambiando, ma è necessario continuare ad investire, soprattutto nell’educazione.

Anche se ora vivo in Italia, il contatto con questo “mondo” continua, perché è una realtà che fa parte di me e verso la quale nutro gratitudine e profondo rispetto.

foto PASSOININDIA


*  Movimento S. Francesco Saverio.

Articolo tratto da http://digilander.libero.it/CMDalifecaiazzo/Le_sfide_delle_donne_in_India.htm

 

per viaggi in India visita http://www.passoinindia.com

 

I gioielli della sposa. Bichua e chooda.

E’ frequente vedere, in India, donne e uomini indossare anelli ai piedi. Si chiamano Bichua e, come tanti altri monili indiani, hanno tradizionalmente un preciso significato culturale e religioso. Già nell’antico testo del Ramayana, Sita, rapita da Ravana, getta il suo anello per far sì che il Signore Rama la trovi. Da allora i Bichua appartengono al corredo di gioielli di una donna che sta per sposarsi. Spesso è lo sposo a porli sul secondo dito di entrambi i piedi della sposa, durante il rituale delle nozze e, da quel momento, connotano lo status di moglie della donna. Usualmente i Bichua sono in argento poiché l’oro, oltre ad essere considerato troppo onorevole per essere posto in zone sotto la vita, è simbolo della dea della ricchezza, Laksmi, e sarebbe un segno di irriverenza indossarlo sui piedi. I Bichua vengono indossati a coppie sul secondo dito di entrambi i piedi oppure anche su tutte le dita escluso il mignolo e, normalmente, non vengono mai rimossi. Anche gli uomini Tamil ne fanno uso da tempi remoti per farsi identificare come sposati. Anticamente, nelle culture più conservatrici, le spose avevano il volto coperto da un velo e allora un piccolo specchio che adornava il bichua consentiva loro di guardarsi. I Bichua avrebbero tuttavia anche altri “poteri”; infatti, oltre ad aumentare il vigore sessuale dell’uomo, curerebbero, secondo la riflessologia, i problemi ginecologici e, regolandone il mestruo, sarebbero un toccasana per l’apparato riproduttivo della donna; infatti, indossare l’anello al secondo dito del piede, massaggiando con la camminata il nervo che si collega all’utero e al cuore, aiuterebbe a riequilibrare il “prana”, cioè la “forza vitale” di cui ogni essere vivente è dotato, garantendo un buono stato di salute. L’argento, di cui è fatto quasi sempre il Bichua, è inoltre, un buon conduttore e perciò assorbirebbe l’energia polare della terra e la trasferirebbe al corpo.

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Ugualmente frequente in India, soprattutto, nel Punjab, è vedere donne indu e sikh indossare una grande quantità di braccialetti in entrambe le braccia. Sono i Chooda o Choora che le spose ricevono dalla madre o dallo zio materno ovvero 21 braccialetti di solito color avorio e rosso, un tempo in avorio, oggi per lo più in plastica. La sposa li indossa, dal polso all’avambraccio, per circa 40 giorni (un tempo anche per periodi più lunghi) dopo il suo matrimonio per ricordare alla gente il suo status di nuova sposa e solo il marito potrà rimuoverli. In questo periodo, per preservarne l’integrità, alla sposa è concesso astenersi dal fare i lavori domestici. Se resta incinta li può smettere anche prima del tempo.

(continua…)

PASSOININDIA

foto,fonte: http://www.sijo.in/?id=374

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RAKSHA BANDHAN. La festa dei fratelli e delle sorelle.

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Il 10 agosto in India (data non ricorrente ogni anno) si è festeggiato il Raksha Bandhan, la festa dell’amore e dei doveri tra fratelli e sorelle; questa festa è celebrata dagli induisti, ma anche da giainisti e sikh. Le sorelle legano un filo sacro detto Rakhi (dal sanscrito “nodo di protezione”) sul polso del fratello, pregando per il suo benessere e il fratello promette di prendersi cura della propria sorella in ogni evenienza. Così le donne cercano nei negozi i migliori Raksi, generalmente un filo di tessuto colorato magari impreziosito da qualche perlina o amuleto o lo fanno con le proprie mani. Nei tempi moderni può persino trattarsi di un orologio da polso. Così, nel giorno del Raksha Bandhan, il fratello e la sorella (non necessariamente parenti, può trattarsi anche di una stretta amicizia) si riuniscono formalmente in presenza di genitori e parenti e, se uno dei due è lontano da casa, l’augurio può correre via mail. Il rituale avviene solitamente davanti ad una lampada accesa (Diya) o ad una candela (a rappresentare la divinità del fuoco) a volte situate su un vassoio che lei fa ruotare attorno al volto di lui, legando quindi il Rakhi al polso del fratello (che egli indosserà tutto il giorno), recitando una preghiera per la sua felicità. Poi la sorella pone laTilak, un segno colorato sulla fronte del fratello che si impegna quindi a prendersene cura. Poi lei lo alimenta con le mani avvicinando alla sua bocca dolciumi o altre bontà. Il fratello le dona quindi un regalo che può essere ad esempio un vestito o del denaro e anche lui le pone alla bocca dolci, frutta secca etc. in segno di nutrizione. Infine si abbracciano e tutti si congratulano l’un l’altro. E’ un rituale antichissimo che si legge già nel Vishnu Purana quando Yasoda lega un Raksha Bandhan al polso di Krishna. Ma molte sono le sacre scritture antiche (Bhavishya Purana, Bhagavata Purana ecc.) oltre che i poemi epici come il Mahabaratha in cui si legge di questo braccialetto. Le antiche scritture indu sono ricche di storie che narrano di questo braccialetto. Per citarne una, nella Bhagavata Purana e Vishnu Purana dopo che Vishnu sconfisse il demone Bali, vincendo i tre mondi, su richiesta di Bali, andò a vivere nel suo palazzo. Ma alla moglie di Vishnu, la dea Lakshmi non piaceva il palazzo né la sua nuova amicizia con Bali, e preferiva tornare con suo marito a Vaikunta. Così legò al polso di Bali, un Rakhi in segno di fratellanza. Bali le chiese che regalo desiderasse e lei rispose di liberare Vishnu dalla promessa di vivere nel suo palazzo. Bali acconsentì, accettandola come sorella. e poi ci sono leggende storiche che vi fanno riferimento. Ma anche le leggende storiche citano il Rakhi. Infatti, secondo un racconto leggendario, quando Alessandro il Grande invase l’India nel 326 aC, Roxana (o Roshanak, sua moglie) inviò un filo sacro al re Poro, suo nemico, chiedendogli di non danneggiare il marito in battaglia. In accordo con la tradizione, Poro, rispettò la richiesta. Sul campo di battaglia, quindi, quando egli stava per sferrare un colpo finale ad Alessandro, vide il Rakhi sul suo polso e si trattenne dall’attaccarlo personalmente. Ci sono poi le storie dei giorni nostri. Accadde infatti che Rabindranath Tagore, l’indiano Premio Nobel per la letteratura, invocò il Raksha Bandhan e il Rakhi, come fonti di amore, rispetto e voto di protezione reciproca tra indù e musulmani durante il periodo coloniale in India. Nel 1905, l’impero britannico, sulla base delle differenti religioni, aveva diviso il Bengala, una provincia dell’India britannica. Tagore organizzò quindi una cerimonia per celebrare il Raksha Bandhan e rafforzare il legame di amore e di solidarietà tra indù e musulmani del Bengala esortandoli a protestare insieme contro l’impero britannico. Nel 1911, l’impero coloniale britannico annullò la partizione e unificò il Bengala, una unificazione cui non si opposero i musulmani del Bengala. Il tentativo di Tagore non ebbe quindi successo. Il Bengala, diviso durante l’era coloniale, da una parte è diventato il moderno Bangladesh, a prevalenza musulmana, dall’altro divenne lo Stato indiano del Bengala occidentale a prevalenza induista. Grazie al tentativo di Rabindranath Tagore, ancora oggi, in alcune parti del Bengala occidentale, la tradizione del Raksha Bandhan è molto sentita e continua ancora oggi.

con l’ausilio di WIKIPEDIA (traduzione dall’inglese).

Eredità e dote.

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Secondo la legge indiana in materia di eredità, le donne hanno diritto ad una quota di proprietà pari a quella dell’uomo. Nella realtà le cose stanno diversamente e dimostrano che, anche su questo tema, le donne rischiano di essere perdenti. Infatti, in molte famiglie patriarcali, ancora si ritiene che il patrimonio di famiglia, grande o piccolo che sia, dovrebbe andare al figlio (i) maschio, anche se nato dopo la sorella che viene così privata, ancora una volta, di un suo legittimo diritto, soffocato da una tradizione ripetuta e dura a morire. Sono proprio i suoi legami di sangue che la donna deve affrontare, la madre, il padre e il fratello, la sua intera famiglia, quelli che lei ha amato e curato. L’educazione della donna in India è infatti incentrata sul ruolo a lei tradizionalmente riservato ovvero essere figlia, moglie e madre e l’apice della vita di una donna è proprio il matrimonio, combinato dalle famiglie dei futuri sposi e che costa, ai parenti della sposa, la dazione di una cospicua dote; la giovane, per decisione del padre e del fratello, viene privata, per compensare l’impegno economico per lei profuso, della quota di eredità che, secondo legge, le spetterebbe alla morte del padre. Questo perché la sua legittima quota di proprietà le è già stata concessa sotto forma di spese erogate per il suo matrimonio e per la sua dote. Ma la medaglia ha due facce, ed infatti la dote sarà pretesa dalla famiglia dello sposo proprio perché la ragazza non avrà eredità e anzi costituirà un nuovo onere a carico della nuova famiglia in cui andrà a vivere (è la sposa che va a vivere nella casa dello sposo). Tutto questo nonostante che nel 1960 il Dowry Prohibition Act abbia vietato l’estorsione coniugale (ovvero la domanda di dote). In realtà anche il matrimonio è un affare compiuto più nell’interesse della famiglia e della stirpe che in quello della donna e il fasto manifestato ne misura lo status sociale. Va da sé che ad una donna cui spetta esclusivamente un ruolo di moglie e madre poco o nulla verrà neppure speso per la sua formazione “culturale” e quindi molte donne continuano a subire, non avendo alcuna indipendenza economica. Siamo in un’India dove, nel 2011, la Corte Suprema ha sentenziato che la donna non possa essere punita per aver commesso adulterio, reato condannabile fino ad allora con una multa o una reclusione fino a 5 anni, ritenendo improbabile che una donna possa sottrarsi alla supremazia maschile del marito; il che, secondo la Corte, rende pertanto l’uomo, più che la donna, maggiormente imputabile dell’infedeltà di quest’ultima. Una picconata al sistema tradizionale? Parrebbe di no, considerato che in questo modo è come se anche i giuristi avessero riconosciuto la superiorità del maschio sulla femmina.

Ovviamente, ancora una volta, non sarebbe giusto generalizzare, nel rispetto di quelle famiglie il cui comportamento aiuterà, si spera in un vicino futuro, a cambiare le cose. 

testo e foto by PASSOININDIA

Leggi anche in questo blog

“L’India difficile delle donne”

https://passoinindia.wordpress.com/2012/12/26/lindia-difficile-delle-donne/

“A rivederci Damini”

https://passoinindia.wordpress.com/?s=damini

L’India difficile delle donne

L’India è la Terra dove sono nati Buddha, Mahavira, Guru Nanak, Swami Vivekanand e tanti altri maestri e santi che hanno insegnato una via di spitualità a tutto il mondo; è il Paese dove è nato Mahatma Gandhi che ha dato il suo insegnamento universale di non violenza. La sua cultura, le sue tradizioni e la sua spirtualità attraggono tutte le genti ma, nonostante tutto, rimane un Paese difficile per le donne; qui si prega davanti a Kali, Lakshmi, Durga, Saraswati, Parvati, Sita, che sono tutte rappresentazioni femminili dello spirito supremo. Eppure L’India è il Paese (come altri) della discriminazione sessuale.

Sul giornale, frequentemente, si parla di violenza su donne per ragioni di dote, di onore, di donne forzate all’ aborto di figlie femmine, di donne costrette a prostituirsi e di donne vendute per denaro. L’ecografia è vietata in India perchè la conoscenza prematura che quel figlio sarà femmina potrebbe essere causa di una scelta di aborto (anche se, pagando un caro prezzo, la si può ottenere illegalmente da qualche medico connivente). La donna è spesso considerata un fardello per tutta la famiglia perché fin da quando è piccola occorre cominciare a risparmiare (e indebitarsi) per costruirne la dote e alcune donne sono state uccise a causa di una dote insufficiente. Ci sono stati casi di  donne lasciate o uccise per non aver saputo partorire figli maschi. Donne espulse, picchiate o  uccise dalla famiglia perchè hanno scelto libramente un uomo da amare . Nelle famiglie povere la donna è talvolta costretta a vendere il suo corpo.

Secondo gli storici, le donne godevano della stessa dignità e diritti dell’uomo durante il primo periodo vedico.  Tuttavia, più tardi (circa 500 AC), la condizione delle donne cominciò a declinare con la Smriti, gli antichi libri sacri Induisti (Manusmriti o codice di Manu). In questo Codice (ma anche nei Purana)  la donna viene eletta al solo servizio degli altri ovvero la madre, il padre, il marito e i figli. Con l’invasione Islamica e l’impero Mughal e poi il Cristianesimo, la libertà e i diritti delle donne continuarono ad affievolirsi.

La posizione della donna indiana nella società si aggravò durante il periodo medievale quando la Sati (la donna, alla morte del marito, doveva immolarsi e bruciare con lui perché questo gesto avrebbe reso onore a tutta la famiglia – usanza abolita dagli inglesi),  i matrimoni tra bambini e il divieto di seconde nozze delle vedova entrarono a far parte della vita sociale tra alcune comunità in India.

Secondo la Costituzione Indiana invece la donna ha tutti i diritti uguali a quelli dell’ uomo.  Nella realtà ogni giorno le donne vengono molestate, violentate o uccise. E nei casi di stupro si tende a ritenerla responsabile di ciò che ha subito. Poi, ci sono le violenze domestiche, quelle tra quattro mura di casa che non verranno mai pubblicate sui giornali e resteranno per sempre inascoltate e impunite. Ovviamente non si può generalizzare ma questi casi sono frequenti.

Quello che è sucesso a Delhi, alle 21.30, il 16 Dicembre è orribile; una studentessa di 23 anni è stata picchiata e violentata brutalmente in autobus da almeno sei uomini che dopo l’hanno  buttata fuori come fosse un giocattolo. Ora lei sta ancora combattendo contro la morte.

Ma questa volta l’India non è stata a guardare. Sono scesi in piazza donne e uomini tra cui giovani studenti per chiedere giustizia, leggi più severe e misure di sicurezza per le donne.

Avremmo voluto leggere sul giornale che:

22 dicembre 2012, New Delhi: Migliaia di manifestanti si sono riuniti all’India Gate esigenti giustizia per la vittima dello stupro di gruppo chiedendo più sicurezza per le donne, si sono mossi verso il Palazzo della Presidenza  e sono entrati nella casa del Presidente che, insieme al Primo Ministro e ai membri di tutto il Gabinetto indiano, li ha accolti per ascoltarli. L’ Onorevole Presidente dell’India e il  Primo Ministro hanno  assicurato ai manifestanti l’adozione di provvedimenti per  garantire la rapidità di tutte le sentenze nei crimini contro le donne e misure concrete per migliorare i livelli di sicurezza e protezione per le donne. La protesta si è conclusa con l’ illuminazione di candele per tutte le vittime, alla presenza del Presidente dell’India e a tutto il Governo. Una vera democrazia ….Uno  Stato di persone per le persone.

Invece è successo che:

22 dicembre 2012, New Delhi:  migliaia di manifestanti si sono riuniti all’India Gate esigenti giustizia per la vittima dello stupro di gruppo chiedendo più sicurezza per le donne e sono stati raggiunti da proiettili di gas lacrimogeni, idranti e bastonate. 35 dimostranti e 37 agenti sono rimasti feritiUn agente è morto di infarto. Nel  cuore della protesta a Delhi sono stati violati ancora una volta i diritti delle donne picchiate dalle forze di polizia che dovrebbero garantirne l’incolumità. Ieri il Governo ha vietato le manifestazioni“.

Nell’anno 2012 ci sono stati 635 casi di stupro denunciati (572 nell’anno 2011) che, secondo le statistiche nazionali, rappresentano il solo 30% del  totale (di cui solo il 27% si conclude con una condanna) perché gli altri non sono stati denunciati  per paura (anche di emarginazione sociale e di non trovare marito), vergogna o mancanza di fiducia nelle istituzioni (ritenute corrotte e incompetenti). Negli ultimi venti anni i casi di volenza sessuale sono raddoppiati.

In India vige ancora la pena di morte in casi specifici previsti dalla legge e i manifestanti, bloccati dalla polizia, chiedono che venga applicata anche a questi casi di stupro per i quali normalmente  viene irrogata una pena detentiva limitata ad un numero di anni.

Quando si fermerà questo fuoco di violenza verso le donne?

L’opinione pubblica questa volta ha fatto sentire la sua voce. Speriamo, come invece sembra, che non resti inascoltata.

(testo by PASSOININDIA)

KARWA CHAUTH – una festa indiana – davanti alla luna, le donne celebrano i loro mariti

Oggi le donne indiane, soprattutto nel Nord e nell’Ovest India, festeggiano il “ Karwa Chauth”; è per loro un giorno di digiuno da cibo e acqua, dedicato ai loro mariti per ottenerne la longevità e il benessere. “Karwa” significa “ vaso di terracotta “ e rappresenta la pace e la prosperità mentre “Chauth” vuol dire “quarto giorno” perchè questa festa si celebra il quarto giorno di luna piena del mese di Kartik che cade in ottobre o novembre, secondo il calendario indiano. Tutte le donne sposate si alzano presto e, prima dell’alba, mangiano il pasto preparato per loro dalla suocera; con il sorgere del sole, cominciano il loro digiuno. Durante il giorno, non fanno i lavori di casa e visitano parenti e amici da cui ricevono regali, tra cui anche le Karwas. Alla sera, le donne indossano i vestiti tradizionali , “sari” o “ sute”, solitamente dei colore beneauguranti rosso, arancio o oro, o il loro abito da sposa, si truccano, si dipingono le mani con l’henné , appongono il loro “bindi” (simbolo di coniugio) sulla fronte e si decorano con gioielli. Durante la serata, e prima di terminare il digiuno, le donne si riuniscono tutte insieme in un gruppo, disponendosi sedute in cerchio, e, con i loro “thalis puja” ( il piatto con le offerte per la preghiera) che si passano di mano in mano, si raccontano la storia del Karwa Chauth. Quando la luna appare, le donne le offrono l’acqua e si mettono vicino al loro marito, riflettendone il volto in un secchio di acqua o guardandolo attraverso una dupatta (il velo che le donne indiane portano in testa) o un setaccio per la farina. Poi, i mariti offrono loro l’acqua e il cibo, bevendo e mangiando insieme. Dopo la rottura del digiuno, le donne ricevono i regali dai loro mariti. Questa festa cade nel periodo della semina del frumento e il Karvas è anche il vaso dove viene conservato il frumento; così, il digiuno del Karwa Chauth è altresì considerato una preghiera, oltre che per il proprio marito, anche per un buon raccolto. I Sikh non praticano questa festa in quanto il digiuno è proibito dalla loro religione perché mortificante per il loro corpo, tranne nei casi in cui sia richiesto per motivi di salute.

Fonte foto: Internet