Chandni Chowk, il grande mercato di Delhi.

Quando vado a Chandni Chowk con i turisti, che accompagno per lavoro (sono una guida indiana), mi diverte il loro stupore.

IMG-20150904-WA0005La zona ospita uno dei mercati più antichi, tra i più importanti dell’India, nel cuore della vecchia Delhi che viene chiamato anche Shahjahanabad. Fu infatti il grande imperatore dell’India Shah Jahan (che ideò il bellissimo Taj Mahal di Agra) a farlo realizzare per desiderio e su progetto della figlia Jahan Ara, nell’era dei Moghul, 17° secolo; il nome Chandni Chowk significa “piazza al chiaro di luna”, perché quel luogo era un tempo diviso da un canale per la fornitura dell’acqua che rifletteva appunto la luna.

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Ciò che appaga chiunque visiti questo posto è la sua capacità di portare indietro in quel passato tempo ormai rimpiazzato troppo spesso dai magazzini della grande distribuzione.

Chandni Chowk è un dedalo di strade strette e affollate con negozi e bancarelle che vendono davvero di tutto, dai libri all’abbigliamento, dalle calzature ai prodotti elettronici, dall’oro all’argento, dal pellame ai gioielli, dagli arazzi agli oggetti di antiquariato, ai vestiti per le nozze… e tutto quant’altro vi possa venire in mente, persino animali come pecore, capre, galline vive che poi…

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Ci sono anche barbieri e pulitori d’orecchi.

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Il colpo d’occhio, che cade anche sulle variopinte piramidi di spezie di ogni genere, quello che esalta i turisti, è un congestionato scenario pieno dei colori delle sete svolazzanti che fanno da anticamera a piccoli e grandi negozi dove i commessi, prevalentemente uomini, dispiegano, con una capacità da sbandieratori provetti, metrature di setose e scintillanti stoffe, e le donne, seriamente immerse nell’affare, scelgono la più congeniale per il loro prossimo abito.

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E’ davvero tanta la gente a Chandni Chowk, di tutti i tipi e sfumature e i turbanti pastello sembrano camminare da soli in mezzo a tutta quella folla. I miei clienti si divertono sui richshaw (un carro trainato da un uomo a piedi o in bicicletta), facendo centinaia di foto alle scene del commercio quotidiano mentre io devo badare che non si perdano! Anche l’olfatto ha il suo da fare, perché il profumo è quello della autentica cucina indiana, con le sue prelibatezze e i suoi dolci.

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E’ l’odore invitante del cibo di strada, dei tanti tipi di pane che, per forma e ingredienti, hanno nomi diversi come il chapati, il roti, il naan, solo per citare i più popolari; è l’odore delle parathas (una sorta di focaccia tonda) fritte con puro ghee in pentole di ghisa, servite con chutney (salse) di gusti vari come menta, banana, tamarindo e con verdure sottaceto oppure ripiene di patate, cavolfiore, piselli, lenticchie, carote, fieno greco, ravanello oppure farcite con paneer (formaggio fresco), menta, limone, peperoncino, frutta secca, anacardi, uvetta, mandorle, karela (chiamato anche melone amaro ma con l’aspetto di un cetriolo).

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E’ l’odore delle papad (cialde croccanti molto saporite), del rabdi (un dolce fatto con yoghurt e farina), del khurchan (una zuppa a base di paneer, pomodoro e spezie), dei jalebis fritti in puro ghee, del pao bhaji cucinato con verdure, patate e coriandolo (simile al nostro prezzemolo ma di gusto diverso). 

I venditori di dolci (halwais), quelli di salatini, (namkeenwallahs) e di pane (paranthewallahs) sorridono allo straniero invitandolo all’assaggio delle kachoris, polpette fritte ripiene di patate e piselli, dei gobhi-matar, fatti con cavolo e piselli, delle samosa, inconfondibili per la loro forma triangolare, fritte e ripiene di carne o verdure, delle matar paneer tikki, a base di spezie e verdure.

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E’ il sapore dei chaats, un mix di snack piccanti, speziati e salati come il gol gappe, il dahi vada, il dahi bhallaun, un gnocco fritto con cagliata, cioccolato nero, chutney di tamarindo e semi di melograno, oppure fatti con la frutta.

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E’ il sapore delle kachori, di solito ripiene di legumi e servite con patate al curry e delle aloo tikki ripiene di patate e piselli. Il tutto gustato con il chai, il tipico thè indiano con latte e spezie.

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Una vera esplosione di sapori. Tutta la vecchia Delhi è famosa per la sua prelibatissima cucina.

Alcuni tra i ristoranti più frequentati si trovano proprio qui. Persino il gelato si può trovare nella vecchia Delhi; il rabdi faluda, che va servito freddo, è molto simile quando arricchito con crema di vaniglia; il kulfi è un dessert gelato al latte di vari gusti tra cui rosa, mango, melograno, litchi.

Sul versante musulmano, di fronte alla moschea Masjid, l’aroma del cibo di strada aleggia nell’Urdu Bazaar che significa “mercato dell’accampamento imperiale” e la lingua urdu (lingua nazionale del Pakistan e lingua ufficiale dell’amministrazione indiana insieme con hindi e inglese) significa proprio accampamento. E’ l’odore del pesce, degli spiedini aromatici e del pollo fritto. Qui si vendono sopratutto kebab, stufati di montone e tikkas (con carne di bufalo) avvolti in rumali roti (sottile carta di pane).

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Chandni Chowk è anche un meltin pot religioso; persone di tutte le religioni lo frequentano o lo attraversano, anche per ragioni di fede. I gaininsti si dirigono verso il tempio Jain Digamber, il più antico tempio Jain nella capitale, originariamente costruito nel 1656, alla foce di Chandni Chowk, proprio di fronte al Forte Rosso. Gli induisti raggiungono il vicino tempio di Gauri Shanker da 800 anni dedicato al culto di Shiva. A pochi passi si trova la chiesa Battista centrale istituita nel 1814 e il Gurudwara Sikh Sis Ganj Sahib, costruito nel 1783, in onore del nono Guru Sikh Teg Bahadur e di alcuni suoi seguaci giustiziati dai Moghul in quel luogo nel 1675 d.C. 

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Ma è il Red Fort (o Lal Qila di Delhi ) che si fa notare, proprio davanti al Chandni Chowk, costruito in nove anni da Shah Jahan come palazzo ufficiale dei Moghul. Di fronte ad esso, la splendida Jama Masjid, l’ altro edificio che Shah Jahan costruì in 6 anni, una delle più grandi moschee di Delhi.

Questa è Chandni Chowk, con anche i suoi palazzi a volte fatiscenti, con gli intrecci penzolanti dei fili della luce, con i sadhu, i poveri  e i mendicanti ma un vero spaccato di India autentica. Lascio i turisti soddisfatti con, negli occhi, i colori di Chandni Chowk.

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Testo e photo by PASSOININDIA

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EQUILIBRIO TRA ARTE E RELIGIONE

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Per fortuna le glorie della letteratura classica indiana come Vatsayana, Kalidasa o Jayadeva non sono nate nell’India laica e moderna del 21° secolo. Perché, se così fosse stato, probabilmente né le loro opere magistrali – l’anima della letteratura classica indiana – né loro stessi sarebbero sopravvissuti ai giorni nostri.

Come avrebbe potuto il poeta Jayaveda della ‘Gita Govinda’, concentrarsi tanto sia sul fervore religioso che sugli scherzi sessuali tra Krishna e Radha?

E sarebbe ancora così altamente sensuale il ‘Kumarasambhava’, l’inno romantico di Kalidasa alla nascita del figlio di Shiva e Parvati, in cui il dio indù dell’amore, Rati, lamenta la morte del suo amato Kama?

Data la natura altamente liberale del suo contributo di civiltà al mondo, l’ironia di abbandonare l’apertura culturale in India non avrebbe potuto essere più stridente. Oggi, in India, gruppi di “vigilantes” culturali, piccoli ma in crescita, stanno attaccando tutto, dai libri e film ad atteggiamenti di arte occidentali se li ritengono dannosi per la loro fede o se non sono conformi alla loro nozione di purezza e moralità.

I libri vengono sempre maciullati e gli autori sono costretti a riscriverli; i testi delle canzoni cambiano, e film e mostre d’arte vengono banditi come blasfemi e quindi il liberalismo culturale viene imbavagliato.

La polemica intorno ai testi dell’insegnante in pensione Dina Nath Batra rafforza semplicemente questo costante declino del liberalismo culturale in India, cosa che mina non solo il peso dell’espansione del Paese sulla scena mondiale, ma anche il suo contributo di civiltà come principale centro intellettuale fin dalla storia più antica del genere umano.

Non permetteremo che gli scrittori insultino l’induismo ed i nostri dèi e dee con la scusa della ricerca scolastica“, dichiara l’insegnate di 85 anni. Nella sua lista dei desideri per l’istruzione scolastica in India c’è la messa a termine dell’insegnamento della lingua inglese e delle lingue straniere in genere e l’istituzione di un call center per inculcare i valori culturali del nazionalismo tra i bambini.

Egli ha mandato tanti libri al macero, ha detto che i piani di studio devono essere ottimizzati e il liberalismo deve essere messo in discussione; per questo si è guadagnato il soprannome di ‘Ban-Man’ (l’uomo che censura).

Ma la costante erosione nel liberalismo non è puramente un fenomeno religioso o culturale. Ha una dimensione economica dovuta secondo alcuni alla dislocazione causata da un’economia in crescita e dal divario tra gioventù urbana che abbraccia i valori occidentali e il più tradizionale resto della società. E il più delle volte, viene giocata la carta religiosa.

Parte del problema è che l’India non è riuscita ad avviare un serio dibattito circa l’equilibrio tra arte e religione e tra libertà di espressione e difesa dei sentimenti religiosi.

Questo è un periodo deprimente, ma istruttivo nell’evoluzione della società indiana, in cui grandi sezioni restano ancora liberali. Speriamo che l’ illiberalismo, culturale o religioso, non diventi tradizionale in modo che i nostri Kalidas e Jayadeva non si rivoltino nelle tombe.

liberamente tradotto da articolo su HINDUSTAN TIMES del 30 Jul 2014 (Jaipur) autore:Krittivas Mukherjee

immagine di Raja Ravi Varma che ritrae Shakuntala, personaggio del poema epico Mahabharata

HAPPY BIRTHDAY GURU NANAK!

Oggi la comunità SIKH, stanziata in tutto il mondo, festeggia il compleanno del suo primo guru (in sanscrito significa “discepolo” o “allievo” e in lingua punjabi vuol dire “Dio”, “rivelatore”, “profeta”), GURU NANAK.

NANAK nasce, nel 1469, a Tolevandi (ora Nankana Sahib), vicino a Lahore (che dal 1947, anno della spartizione inglese, appartiene al Punjab pakistano).

Guru Nanak è il fondatore del Sikhismo, religione nata alla fine del XV secolo nel Punjab indiano. Nanak, di estrazione indu, sposato e con due figli, conoscitore anche del persiano e dell’arabo, dedica la sua vita alla diffusione del messaggio ricevuto da Dio e pertanto viaggia per 25 anni sino a raggiungere Tibet, Sri Lanka, La Mecca e Afghanistan, visitando la maggior parte di diversi centri di culto induisti, musulmani, gianisti e così via.

Nel 1496 Nanak, ottenuta l’illuminazione, comincia a predicare principi nuovi e rivoluzionari rispetto all’assetto sociale, culturale e religioso di quel tempo. In una società rigidamente suddivisa in caste, classi e sessi, egli sancisce la fratellanza e la incondizionata uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio e davanti agli uomini. Egli sfida moralmente la povertà istituendo i Langar (mense comuni vicino al tempio dove chiunque può ottenere cibo gratuitamente e tutt’oggi diffuse in India), demolendo così anche la secolare idea di contaminazione del cibo dovuta alla mera presenza di un intoccabile (si veda su questo blog “Il sistema castale”). La condivisione con i bisognosi del reddito eccedente le esigenze della famiglia costituisce, da allora, uno dei fondamenti della religione Sikh.

Nanak condanna la pura idolatria e le credenze pseudo religiose lontane dalla vera elevazione spirituale (il sikhismo non adora idoli e non ha un clero precostituito ed organizzato) e sancisce la sacralità della vita terrena (lungi da ogni forma di ascetismo ed isolamento dalla vita sociale che non hanno alcuna vocazione produttiva); la vita umana non è un fardello da sopportare in attesa di una vita eterna ma è gioia e privilegio da onorare come mezzo di formazione spirituale. Così la vita morale diventa il solo mezzo di progresso spirituale che si realizza dentro la vita sociale e familiare, attraverso la preghiera e il lavoro praticato sia per il sostentamento familiare che per servire la comunità (il sikhismo professa di guadagnare lavorando onestamente e di condividerne con gli altri il risultato). Viene contestualmente condannata ogni forma di corruzione ed avidità castale (particolarmente quella sacerdotale, secolarmente privilegiata).

NANAK ha professato un messaggio d’ amore per tutti in lingua locale (e non in sanscrito, conosciuto  da pochi), ha scritto inni religiosi, inneggiato alla bellezza della vita e della natura in quanto doni divini.

Al termine dei suoi viaggi missionari, duranti i quali ha studiato ed avvicinato le più diverse religioni diffondendo il suo Sikhismo,  si ritira a Kartarpur, un piccolo villaggio nel Punjab, conducendo la vita di contadino e continuando da lì la sua missione.

Poco prima di morire NANAK nomina il suo successore, ANGAD, suo discepolo. Da allora, per ancora cento anni, ogni guru designato dal precedente avrebbe nominato il suo successore, fino a GURU GOBIND SINGH, il decimo ed ultimo guru che non ravvisò la necessità di un nuovo profeta, deponendo l’incarico di guru immortale al Sacro Libro dei Sikh, il Guru Grant Sahib ( o Adi Granth), negli anni alimentato dai messaggi illuminanti dei guru ed oggi composto di 1430 pagine e 5.930 versi di preghiere, per ricordare il Creatore in ogni momento (altro principio fondamentale del Sikhismo).

GURU NANAK muore il 7 settembre 1539 a Kartarpur, nel Punjab indiano.

La vita di Guru Nanak è raccontata nella raccolta Janam Sakhis.

Oggi i Sikh rappresentano il 2% della popolazione indiana, concentrati soprattutto nel Punjab indiano, nel nord – ovest dell’India, ai confini con il Pakistan. Essi professano il loro culto nei Gurudwara (templi dove si entra a piedi nudi e capo coperto), rigorosamente forniti di langar, la mensa aperta a tutti. Il tempio  è aperto anche alle donne ritenute, nella società sikh, al pari dell’uomo. In ogni Gurudwara viene letto ed accudito, avvolto nella seta e tenuto sotto un baldacchino,  il Libro Sacro e cantati i Gurbani, gli inni sacri. Il Gurudwara più importante si trova ad Amritsar dove, nel Golden Temple, milioni di pellegrini venerano il Libro sacro. Dopo l’ardas, la preghiera conclusiva, i fedeli si dividono la karah prasad, un’offerta di cibo a base di semolino dolce, acqua e burro.

Il Sikhismo, monoteista, non nega la credenza nella reincarnazione e degli effetti delle azioni sulle vite successive, cioè il Karma. Lo scopo ambito è di interrompere il ciclo delle nascite allo scopo di una congiunzione con il Creatore, Unico ed Indivisibile.

 

immagine da sito: vahrehvah.com

KARWA CHAUTH – una festa indiana – davanti alla luna, le donne celebrano i loro mariti

Oggi le donne indiane, soprattutto nel Nord e nell’Ovest India, festeggiano il “ Karwa Chauth”; è per loro un giorno di digiuno da cibo e acqua, dedicato ai loro mariti per ottenerne la longevità e il benessere. “Karwa” significa “ vaso di terracotta “ e rappresenta la pace e la prosperità mentre “Chauth” vuol dire “quarto giorno” perchè questa festa si celebra il quarto giorno di luna piena del mese di Kartik che cade in ottobre o novembre, secondo il calendario indiano. Tutte le donne sposate si alzano presto e, prima dell’alba, mangiano il pasto preparato per loro dalla suocera; con il sorgere del sole, cominciano il loro digiuno. Durante il giorno, non fanno i lavori di casa e visitano parenti e amici da cui ricevono regali, tra cui anche le Karwas. Alla sera, le donne indossano i vestiti tradizionali , “sari” o “ sute”, solitamente dei colore beneauguranti rosso, arancio o oro, o il loro abito da sposa, si truccano, si dipingono le mani con l’henné , appongono il loro “bindi” (simbolo di coniugio) sulla fronte e si decorano con gioielli. Durante la serata, e prima di terminare il digiuno, le donne si riuniscono tutte insieme in un gruppo, disponendosi sedute in cerchio, e, con i loro “thalis puja” ( il piatto con le offerte per la preghiera) che si passano di mano in mano, si raccontano la storia del Karwa Chauth. Quando la luna appare, le donne le offrono l’acqua e si mettono vicino al loro marito, riflettendone il volto in un secchio di acqua o guardandolo attraverso una dupatta (il velo che le donne indiane portano in testa) o un setaccio per la farina. Poi, i mariti offrono loro l’acqua e il cibo, bevendo e mangiando insieme. Dopo la rottura del digiuno, le donne ricevono i regali dai loro mariti. Questa festa cade nel periodo della semina del frumento e il Karvas è anche il vaso dove viene conservato il frumento; così, il digiuno del Karwa Chauth è altresì considerato una preghiera, oltre che per il proprio marito, anche per un buon raccolto. I Sikh non praticano questa festa in quanto il digiuno è proibito dalla loro religione perché mortificante per il loro corpo, tranne nei casi in cui sia richiesto per motivi di salute.

Fonte foto: Internet

L’INDIA DENTRO

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“L’India ha attivato tutti i miei sensi. La polvere ocra mi avvolge e l’inquinamento acustico mi assorda. Le strade brulicano di moto, di venditori ambulanti e di sari splendenti. E’ una tavolozza ricca di sfumature e di colori pastello. Possenti buoi trascinano carri guidati da corpi striminziti. Facce affaticate guidano ferrosi risciò e barcollanti biciclette soffocate da merci varie. Piccoli carretti mostrano vegetali bellamente disposti. La strada rivela le sue buche fangose e i fili della luce si avvinghiano l’uno all’altro. Le auto schivano le vacche e i venditori di dolciumi. Le facce coprono tutte le gradazioni del miele e le donne scampanellano le loro cavigliere. Milioni di occhi si incuriosiscono al mio passaggio e ammiccano buoni sorrisi. Turbanti e incantatori di serpenti mi ripetono che sono in India. Un sadhu all’angolo rinuncia alla materialità, un musulmano va al suo tempio, un sikh rende grazie al Grande Libro Sacro, un hindu offre collane di tagete a Brahma. L’invadenza di camion colorati che sembrano giocattoli riesce persino simpatica. I bus resistono alla pressione dei passeggeri sopra il tetto. Potrei comprare pezzi di ghiaccio, un bicchiere d’acqua limonata o il succo della canna da zucchero. I venditori di spezie incestano la loro profumata mercanzia. La offrono alle donne che svolazzano lunghe vesti setose. Alcune galline si azzuffano, su un mucchio di rifiuti, per il boccone più grande. Piedi seminudi vanno e vengono e laboriose mani mostrano i loro nodi. Si fanno strade e ponti col martello e con il gomito. I bambini, il regalo più grande dell’India. Mille e ancora mille. Curiosi, le magliette sgualcite, chiedono oggetti di quotidiana utilità. Guardano l’obiettivo e me. Si riguardano, avidi della loro immagine, felici.
Quando parlo dell’india mi brillano gli occhi per le lacrime versate e l’infuso di calore che ho ricevuto.”….

(testo by PASSOININDIA)