Credo in un bacio all’atmosfera.

Credo in un bacio all’atmosfera..

 

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dal sito PINOCCHIO NON C’E’ PIU’    pinocchiononcepiu.com

Credo a quelli che parlano guardandomi negli occhi, a quelli che mi ascoltano tenendo lo sguardo fisso nel mio. Perché non hanno niente da nascondere. E se rimaniamo in silenzio, allora credo negli occhi.

Credo alle mani che si sfiorano, si stringono, si intrecciano, a quei gesti che descrivono un’emozione. E se le strette di mano sono sincere, allora credo nelle strette di mano.

Non credo a chi proclama verità assolute e indiscutibili, a chi gioca con i “per sempre”. Non credo a chi non ha mai un dubbio. E se le incertezze creano scompiglio, allora credo alle incertezze.

Credo a Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Gabriele Sandri, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Stefano Brunetti, Riccardo Rasman e a tutti quelli che non hanno potuto dare la loro versione. Perché forse non avevano ragione, forse avevano commesso degli errori, forse avrebbero dovuto pagare il loro debito. Forse. Sicuramente non doveva finire così. Sicuramente.

Credo a quelli che riescono a perdonare, ma non sono disposti a cedere. A quelli che capiscono ma si rifiutano di fare la parte del martire. Credo alle donne che dopo il primo schiaffo non porgono l’altra guancia. Ma credo anche a quelle che non hanno la forza di dire “basta”, che proprio non ce la fanno a scalare certi muri. E se certe paure ti strappano l’anima, allora credo in certe paure.

Non credo agli sconti di pena, alla vita facile, a chi predica l’umiltà mentre mangia caviale. Non credo alle discese, all’assenza di ostacoli, a chi non suda mai e a chi non ha mai porte da dover aprire. E se certe delusioni ti fanno crescere davvero, allora credo in certe delusioni.

Credo in Marco e Andrea che si baciano sulla panchina all’ombra del salice piangente, credo in Anna ed Eleonora che si tengono per mano nelle vie del centro e guardano le vetrine in cerca di un piumone per il loro letto. E se certi amori non hanno bisogno di clamore e ostentazione, allora credo in certi amori.

Credo a chi si sente a disagio, dopo aver visto qualcuno andare alla deriva, a chi non riesce a perdonarsi del tutto, a chi si rigira nel letto, con un unico, grande, incolmabile rimorso: non averlo difeso abbastanza. E se la forza nasce dal perdono, allora credo nel perdono.

Credo a certi “no”, quelli che non ammettono equivoci, che non si possono fraintendere. I “no” detti con la camicetta sbottonata e le mani a tenersi su le calze, ecco, quei “no” lì non hanno altri significati e non ci sono scuse, nessuna scusa che possa ignorare quel rifiuto. Non credo a chi se ne frega di quel rifiuto e continua a far salire la mano sotto la gonna. E se certe parole hanno un unico significato, allora credo nel significato delle parole. E di chi le pronuncia.

Credo a certe strofe, non credo sempre in chi le canta. Ma se la musica ha la forza di farmi emozionare ancora, allora credo nella forza della musica. Sempre. E comunque.

Credo in chi non ce la fa, in chi arranca, in chi si è fermato e non ha la forza di chiedere aiuto, ma lo implora con certi sospiri, certi sguardi e certe lacrime mascherate dai sorrisi. Quelli che vorrebbero solo stare in questo mondo, come fossero satelliti che cercano di arrivare al suolo, ma scendono dallo spazio con traiettorie azzardate e finiscono per dare un bacio all’atmosfera. E se le parole non dette fanno un rumore assordante, allora credo nelle parole non dette. E a chi non le dice.

Credo in un dio, uno di quelli di cui non parla nessuno, di quelli che vengono al pub con me e si fanno pagare da bere. Uno di quelli che non ha la fila di gente che si fa viva quando se lo ricorda, solo quando hanno bisogno di qualcosa, pronti a scambiare una manciata di desideri esauditi con promesse solenni di pentimento e devozione. Come se quel dio se ne facesse poi qualcosa di quel baratto. E se c’è un qualche dio che se ne frega delle preghiere e degli atti di fede, allora io credo in quel dio.

Non credo agli eroi, a chi fa la scaletta dei valori, a chi mi dice cosa fare o non fare, a chi mi chiede “come stai?” e non sta a sentire la risposta. Credo a chi non ha risposte, ma continua a farsi domande. E se le risposte non date mi fanno cercare percorsi alternativi, allora credo alle risposte non date.

Credo nelle mie debolezze, nelle mie tendenze che faccio una fatica infernale a debellare, ma ci devo provare. Non credo nei giorni in cui faccio promesse solenni, quelle che mantengo meno di una settimana per poi tornare stronzo come prima. Ma se anche uno solo dei miei giorni sbagliati servisse a crearne uno migliore, allora credo nei miei giorni sbagliati.

Credo in tutti quelli che stanno cercando qualcosa e lo cercanno da così tanto tempo che non sanno più neanche cosa sia. Sanno soltanto che vogliono continuare a cercarlo. E se le cose che non riesco a trovare sono quelle che mi fanno andare avanti, allora credo nelle cose che non riesco a trovare.

Credo in quelli che si baciano, mettendosi le mani fra i capelli e chiudono gli occhi e quando si allontanano hanno i pensieri profumati. Credo a quelli che mentre camminano sorridono senza un motivo apparente. Ma, loro, un motivo, ce l’hanno davvero. E se certi pensieri mi fanno arrossire, allora credo in certi pensieri. E al loro profumo.

Credo a quelli che si siedono sui muri a contemplare la facciata di un palazzo e sospirano e si accendono una sigaretta e se ti avvicini e chiedi cosa stiano guardando rispondono: il mare. E se certi orizzonti ti rendono libero, allora credo in certi orizzonti.

Credo che la risposta sia “Vita”. La domanda ha poca importanza.

“Non aver paura della vita. Credi invece che la vita sia davvero degna d’essere vissuta, e il tuo crederci aiuterà a rendere ciò una verità.” (William James).

Perché, nonostante tutto, continuo a credere in qualcosa (I believe – Christina Perri).

 

 

 

Il Monkey Temple Galta (Il tempio delle scimmie).

La bella città rosa di Jaipur, in Rajastan, con i suoi magnifici, tra gli altri, palazzo dei venti, City Palace e Jantar Mantar (giardino astronomico), nasconde, non lontano dal centro, altre bellezze che non potete perdere se vi trovate nei dintorni. Le colline Aravalli che circondano questa meravigliosa città sono la dimora di un complesso di templi sacri agli induisti, ospitati dalla città di Chania-Balaji, a circa 10 km da Jaipur. E’ qui che si trova il Galta temple, dedicato al Dio Sole e ad Hanuman, costruito, così come lo vediamo ora, nel 18 °secolo da Diwan Rao Kriparam, un cortigiano di Sawai Jai Singh II, e noto come “tempio delle scimmie”. Sono tantissimi i macachi rheus, condierati sacri, che, con occhi languidi e furbetti, aspettano i visitatori per scroccare delicatamente qualche nocciolina. Il luogo è sacro e tutto lo ricorda; come le abluzioni che, in ben 7 “Kunds”, serbatoi di acqua separati, operano uomini, donne e scimmie. Gli occhi profondi dei devoti scrutano i turisti passanti. Eppure questo non è un luogo che appare spesso negli itinerari di viaggio. Ha tratti comuni ad altri siti di culto ma qui, se si esclude la sacrissima Varanasi, la profonda spiritualità induista appare più manifesta che altrove. Il tempio ha da sempre costituito luogo di meditazione per asceti induisti che qui eseguivano la ‘tapasya’ cioè la meditazione profonda pe raggiungere l’ autorealizzazione di sè e quindi la liberazione spirituale; ancora oggi si ritiene che bagnarsi nell’acqua delle sue sorgenti naturali purifichi da ogni peccato. Il percorso del tempio si snoda in non più di due chilometri e mezzo, sino all’interno di una gola, il che lo rende un luogo raccolto e un po’ appartato, cosi come lo è il tempio stesso, addossato a una roccia di montagna da cui, attraverso la bocca di una statua a forma di mucca, il Gaumukh, sgorga l’acqua naturale che alimenta le vasche. Con i suoi tetti arrotondati, le colonne scolpite e le pareti dipinte, ricorda l’architettura di palazzo “haveli”, diverso dai classici templi indu che siamo abituati a vedere; l’ arenaria rosa di cui è fatto fa da sfondo ai colori delle sete inzuppate dei pellegrini, insieme ai riflessi cangianti dell’acqua nelle vasche, e alla terra ocra su cui posa tutto il complesso; le verdi colline che lo avvolgono fanno tutto il resto, creando un contrasto di colori di una calda morbidezza. Ogni anno a metà gennaio, la sacra ricorrenza del ‘Makar Sankranti’ attira in questo sito folle di pellegrini. Il templio, a 10 chilometri da Jaipur, è raggiungibile in auto ma vale la pena, se la calura lo consente, arrivarci a piedi; prendete quindi un tuk tuk e scendete al cancello Galti Ji alla fine della strada Surajpol Bazar, la strada principale che attraversa il centro storico di Jaipur. La salita regala incontri inaspettati con le persone locali intenti nelle loro attività quotidiane che vi accoglieranno con l’usuale sorriso di benvenuto. Comunque ci arriviate, dalla collina in cui sorge il tempio delle scimmie godrete di una spettacolare vista su tutta la città rosa, così’ come è chiamata la bellissima Jaipur.

testo by PASSOININDIA (visitami su facebook)

La memoria perduta. Patan, Nepal.

Il terremoto in Nepal, insieme alla vita delle persone, ha distrutto anche la loro antica storia. Patan, la magnifica città nella parte centro meridionale della valle di Kathmandu, ed una delle principali del Paese, che da tempo sogno di visitare, è stata profondamente segnata nella sua bellezza di citta antichissima, ricchissima di templi indu e buddisti, di palazzi in legno finemente decorati, di ingegnosi serbatoi e condotti di acqua, di bellissime statue e di variegato artigianato.

patan

L’altro nome di Patan, Lalitpur, deriva da quello di un contadino che dall’Assam, in India, trasportò sin lì il dio della pioggia Rato Machhindranath, venerato da induisti e buddisti nepalesi, affinché portasse acqua contro la siccità. A questo Dio è dedicato l’omonimo splendido tempio dove ogni maggio, in occasione del festival del Bunga Dyah, un grande carro trasporta in processione la sua immagine. Gli studiosi non sono concordi riguardo alle origini di Patan; alcuni la le fanno risalire al 299dC ad opera del re Veer Deva, altri le attribuiscono ai governanti Kirat ma quel che è certo è che Patan ha origini che si perdono nel tempo. Ai quattro angoli di Patan si trova uno stupa, in rappresentanza del simbolo buddista del Dharma Chakra;  questi stupa vennero eretti dal grande re Ashoka nel 250 a.C. (vedi articolo su questo blog  https://passoinindia.wordpress.com/2013/02/17/il-governo-buddista-di-ashoka/).

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Nel 1979 ben sette zone della valle di Kathmandu sono state dichiarate Patrimonio Mondiale dell’Umanità e l’area momumentale della Piazza Durbar di Patan è una di queste, tra l’altro fantastica testimonianza della architettura Newa, dal nome dei suoi costruttori, i Newari, popoli indigeni della valle, di etnia indo-ariana e tibeto-birmano che, sin dalla preistoria, hanno fondato le basi della sua storia. Il loro contributo all’arte, alla cultura, alla musica, alla letteratura, al commercio, all’agricoltura, all’industria, alla cucina è visibile in tutta l’Asia centrale.

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Dopo il terremoto Patan non è più la stessa come non lo sarà più la vita dei sopravvissuti a questo evento perché, oltre ai loro affetti, è stata portata via la loro memoria.

Bhaktapur temple  Bhaktapur templ

                                                                             
                                              

testo by PASSOININDIA

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Le immagini di confronto sono state tratte dal sito

http://allday.com/post/3439-nepals-lost-heritage-before-and-after-the-earthquake/

quella di copertina da wikipedia.