Bellezza e sacrificio. L’offerta dei capelli agli dei

Quanto sono belli, lucidi e fluidi i capelli delle donne indiane! Quale donna non ha mai desiderato averli sulla propria testa? E’ noto che chi non ne è naturalmente dotata può ricorrere a parrucche od extension, l’allungamento artificiale dei propri con altri artificiali o naturali. Alcune si saranno anche domandate da dove arrivino.

Le donne indiane sanno di possedere sotto questo aspetto un dono naturale di bellezza, li curano moltissimo, li adornano, ne fanno cornice preziosa dei loro stupendi abiti e sono probabilmente proprio i capelli a conferire loro quella innata eleganza e femminilità che non fa distinzione di casta.

Ebbene, c’è un luogo (a dire il vero più di uno ma questo è il più famoso), in India, dove le donne si privano della propria chioma per offrirla alla divinità, secondo una antica tradizione che si chiama Mokku. Succede, fin dai tempi antichi, al tempio di Tirupati Balaji, in Andra Pradesh, anche chiamato Bhuloka Vaikuntham, che significa “dimora di Vishnu sulla terra”.

Qui, ogni giorno, migliaia di persone donano i propri capelli. La divinità del tempio è Lord Venkateswara, un avatar (incarnazione) del Dio Vishnu.

Il tempio, la cui costruzione è probabilmente iniziata nel 300 d.C. ,è il più ricco dell’India grazie alla rivendita di capelli e alle donazioni, anche in oro e gioielli, fatte dai devoti alla divinità. Per gli induisti, queste donazioni consentono a Vishnu di ripagare il debito contratto nei confronti di Kubera ed infatti, come sempre, vi è una lunga storia, al proposito, nelle scritture indu. La mitologia racconta (qui, in breve, perché la storia è davvero molto più lunga) che quando Vishnu nacque sulla terra per cercare la sua Lakshmi che lo aveva lasciato, si incarnò in una donna di nome Vakula Devi assumendo il nome di Lord Srinivasa; egli, che viveva in un formicaio, incontrò un giorno Padmavati, figlia di un re Chola nonché reincarnazione sulla terra della dea Lakshmi, di cui, ricambiato, si innamorò. Ottenne il consenso per il matrimonio dagli dei e i denari per la cerimonia da Kubera, il dio della ricchezza che gli concesse un prestito da rimborsare con tanto di interessi entro la fine del Kaliyuga (nell’induismo per Yuga si intende un’era e la Kaliyuga è un’era oscura, di grande decadenza)

I pellegrini, quindi, aiutano il Dio a rientrare dal proprio debito con le loro preziose offerte, capelli compresi. Secondo stime, ogni anno il tempio rivende 75 tonnellate di capelli, per un giro di affari di circa 140 milioni di euro all’anno, il cui utile dovrà essere devoluto in opere di assistenza e beneficienza.

Le donne lasciano così la propria vanità facendosi operare la tonsura, secondo quel rituale che un tempo, ed ora abolito, era anche proprio della cristianità e consisteva nel taglio di cinque ciocche di capelli effettuato dal vescovo, a simboleggiare la rinuncia al mondo da parte del chierico novizio.

Tutto, nell’edificio e locali annessi, è ben organizzato ai fini della tonsura (gratuita): le prenotazioni tramite i gettoni generati dai computer, le sale, le file, il darshan (l’incontro faccia a faccia con la divinità), i moltissimi rasatori (più di mille), gli antisettici per la disinfezione delle chiome, la fornitura di acqua calda per i risciacqui e le strutture ricettive.

Ci sono tagli e capelli di tutti i tipi, fino alla rasatura completa della testa. I capelli più pregiati sono i capelli cosidetti Remy, i migliori perchè raccolti tra loro dal lato della radice e mantenuti tali durante tutta la lavorazione. Se cercate “capelli Remy” in internet, Amazon ve ne offre in gran varietà (!).

Anche la lavorazione dei capelli segue regole precise e anche in questa fase sono molti gli addetti che si occupano di lavare e confezionare una vera e propria montagna di capelli in attesa di essere rivenduti.

L’ingresso al tempio è riservato ai soli induisti ma anche solo l’esterno vale una visita. E’ uno di quei luoghi, come ce ne sono tanti in India, dove si respira una spiritualità autentica.

testo by PassoinIndia

India o Arizona? Gandikota Canyon

Chi non conosce il magnifico Grand Canyon in Arizona? Direi che tutti, in una foto o dal vivo, ne hanno apprezzato la stupefacente bellezza e maestosità. Ma c’è un luogo, in Andhra Pradesh, ancora poco conosciuto ed ugualmente affascinante, adatto a chi ama scoprire bellezze nascoste in un clima di assoluta quiete.

Lo chiamano l’Arizona dell’India ed è un insieme di rocce stratificate della catena montuosa di Erramala che forma una gola lungo la quale scorre il fiume Pennar, l’autore di questa meraviglia. E’ un luogo antico e vivo che anche gli amanti dell’avventura stanno scoprendo, dilettandosi in escursioni, arrampicate sulla roccia, discese in corda doppia ed in kayak lungo il fiume, magari fermandosi la notte a campeggiare come alternativa agli alloggi nel villaggio di Gandikota.

a sinistra le mura del forte

Questo piccolo Paese lungo il fiume fu abitato da molte dinastie sin dal 1123 e deve il suo nome a due parole “Gandi”, gola, e ” Kota”, forte. In una posizione strategica sul canyon si trova il Forte Gandikota, in arenaria rossa, del XIII° secolo, circondato da un muro perimetrale di 5 miglia, protetto dalla gola ed ora in rovina. All’interno delle mura, una torre di guardia, una prigione, un granaio, serbatoi d’acqua che da soli non meriterebbero la visita. Le sole costruzioni interessanti sono una moschea del XVI° secolo con un grande ingresso a più archi che conduce alla sala di preghiera e due templi. Quello di Madhavaraya Swamy in granito, con il suo gopuram a quattro piani, una bella architettura con incisioni e sculture indu e quello di Raghunatha Swamy in granito rosso, costruito dal re Krishnadeva Raya nel XV° secolo, formato da pilastri e corridoi e che non contiene idoli.

E’ altrettanto piacevole il bellissimo lago adiacente il forte che si ritiene sia stato realizzato dall’imperatore Sri Krishnadevaraya con l’acqua del fiume Pennar e che sarà ora utilizzato per l’irrigazione dei campi del villaggio.

In due ore da Gandikota si giunge alle Grotte naturali di Belum, il secondo sistema di grotte più grande del subcontinente indiano molto interessanti anche scientificamente per i depositi di quarzo nelle stalattiti e stalagmiti delle grotte.In due ore da Gandikota si giunge alle Grotte naturali di Belum, il secondo sistema di grotte più grande del subcontinente indiano molto interessanti anche scientificamente per i depositi di quarzo nelle stalattiti e stalagmiti delle grotte.

Per raggiungere Gandikota si può prendere un treno da Bangalore per Jammalamadugu e poi proseguire su strada fino a Gandikota che dista circa 18 km. Se si preferisce un bus o taxi direttamente da Bangalore ci vogliono circa 6 ore per arrivare a Gandikota che è anche ben collegata alle principali città come Hyderabad, Vizag e Bengaluru tramite la NH 7.

Ricondatevi che la zona in estate è molto calda poiché le temperature arrivano sino ai 40 gradi e quindi il periodo migliore per visitarla è tra settembre e febbraio.

by PassoinIndia

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Kuldhara, il luogo del mistero

In Rajasthan a 18 chilometri dalla splendida citta d’oro di Jaisalmer, famosa in tutto il mondo, c’è un luogo del mistero, circondato dal deserto del Thar. Una moltitudine di rovine di case in pietra arenaria, pozzi, resti di templi, terreni di cremazione e cenotafi (tombe vuote – come vuole il significato della parola – o monumenti eretti in onore di qualcuno) rivelano l’esistenza passata di un villaggio che fu abbandonato per motivi ancora e forse per sempre sconosciuti.

Quel che si sa è che Kuldhara, questo il nome del luogo, fu costruita nel 13° secolo dal facoltoso clan dei Paliwal Brahmins (bramini migrati da Pali) ed ospitò oltre 1.500 persone che abitarono in prosperità ben 85 piccoli insediamenti di 400 case. Esse vivano soprattutto di agricoltura sfruttando l’acqua del fiume stagionale Kakni; quando si asciugava, si utilizzavano le riserve d’acqua incamerate dentro ai pozzi, realizzati anche a gradini, come ben testimonia un antico pilastro. Realizzavano ceramiche decorate in fine argilla.

Sono le iscrizioni devali, ancora ben presenti, a raccontarne usi, costumi e religiosità; par quindi di vederli, gli uomini, barbuti e incollanati, con turbanti in stile moghul, jamas (tunica), kamarband (cintura in vita) e khanjar (pugnale), le donne in lehengas e monili da collo; la popolazione era composta, oltre che da bramini, (pare che Kuldhara fosse un gruppo di caste tra i bramini Paliwal da cui il nome del luogo), anche da jati  (sotto-casta) e gotra (clan) ed era Vaisnavita (devota a Visnu), come testimoniato anche dalle sculture di Vishnu e Mahishasura Mardini (la neonata Durga che uccise il demone Mahishasura) nel tempio principale del villaggio. La maggior parte delle iscrizioni inizia con un’invocazione a Ganesh, le cui sculture in miniatura si trovano anche sui portali. Gli abitanti del villaggio adoravano anche il toro e una divinità equestre locale. 

Nel 1825, Kuldhara venne improvvisamente abbandonata nel cuore della notte e di quella comunità non fu mai più trovata traccia. Non essendo gli storici mai riusciti a darsi risposte definitive (una ipotesi del 2017 è quella di un sisma, un’altra l’ improvvisa carenza di acqua), è intervenuta la leggenda. Si racconta che un ex primo ministro dell’epoca, il Diwan di Jaisalmer, Salim Singh, si innamorò della figlia del capo villaggio e minacciò di imporre un’altissima tassa se la famiglia della giovane non avesse acconsentito a concedergliela. Cosi l’intera comunità decise di lasciare la città per non dover cedere alle voglie del politico e compromettere l’onore della giovane. Ma prima lanciò una maledizione sul villaggio che non avrebbe mai più potuto ospitare nessuno e chi avesse avuto intenzione di stabilirvisi avrebbe ricevuto maledizioni e incantesimi. E così fu. Nessuno mai riuscì a rimanervi a lungo.

Oggi, il Servizio Archeologico dell’India mantiene ciò che resta di questa città come sito del Patrimonio dell’Umanità che è visitabile solo di giorno. La sera infatti i cancelli di Kuldhara vengono chiusi dagli abitanti dei villaggi vicini credenti che, al calar del sole, arrivino degli esseri soprannaturali ad infestarla. La Società paranormale di Nuova Delhi afferma di aver assistito ad episodi sconvolgenti come voci inquietanti, impronte sul fango, ombre in movimento, graffi sulle auto e altro ancora. Ma il governo del Rajasthan sta tentando di ridargli vita e ricostruirla, come già è avvenuto per il suo antico tempio.

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Arrivare a Shimla con il treno storico

Simla-Shimla-Kalka-Toy-Train

Appena ho sentito parlare dello storico trenino Kalka – Shimla, la “Regina delle colline” l’ho preso in considerazione per questo mio viaggio salendo verso l’Himachal Pradesh. E’ un toy-train, come vengono chiamati i trenini che viaggiano su antichi binari a scartamento ridotto, come altri in India ed altrettanto noti e deliziosi (vedi ad esempio https://passoinindia.wordpress.com/2014/12/29/il-trenino-del-darjeeling-e-pronto-alla-partenza-2/ e https://www.passoinindia.com/sikkim-ai-piedi-dellhimalaya ).

Questa linea, iniziata nel 1898 ed inaugurata nel 1903 dal viceré Lord Curzon, percorre ben 96 chilometri in cinque ore e raggiunge 2.205 metri di altezza con le sue poche e piccole carrozze colorate di prima, seconda e terza classe. Mi imbarco a Kalka, nello Stato di Haryana, una piccola stanzioncina abbastanza pulita. Viene bene raggiungerla se, come me, arrivate da Haridwar, passando per la moderna città di Chandigarh, da cui ho preso il treno per Kalka e, dunque, per Shimla.

Si viaggia con passeggeri del luogo e turisti e si può scegliere se scendere in una delle località intermedie dove si ferma questo delizioso giocattolino contrassegnato con la targa di Patrimonio dell’Umanità UNESCO, titolo conferitogli nell’anno 2008. E’ un salto indietro nel tempo l’ascoltare il suo sferragliare a suoni costanti su questi binari prodigio di ingegneria che è ancor più netto accanto al portellone sempre aperto da cui, con azzardo, mi affaccio per fotografare il trenino in corsa. Lo spettacolare paesaggio tra foreste, cascatelle, prima collinare e poi montuoso, che, lungo i dirupi, scorre dai finestrini, interrotto, a tratti, da gallerie, ben 103, è reso ancora più stupefacente dai ben 806 ponti antichi e 919 curve mozzafiato che collegano vari tratti. Il tunnel più lungo è presso la stazione di Barog, (tunnel 33, lunghezza 1.143,61 metri) ed il ponte architettonicamente più bello è il numero 226, nei pressi della stazione di Sonwara, che domina una profonda valle ma purtroppo quest’ultimo non è vedibile dalle carrozze. Il tunnel Barog ha anche una storia da raccontare perché il Signor Barog, progettista e costruttore della galleria si suicidò proprio lì vicino a seguito di un errore da lui commesso nella progettazione che indispose il committente governo inglese. Egli provò infatti a scavare il tunnel da entrambe le parti ma qualcosa andò storto e i due tratti non si incontrarono.

Dopo Kalka, a 656 metri s.l.m., il trenino comincia la sua salita, rallentando ed arrancando ad una velocità media di 25 Km. orari su una pendenza del 3%. Lo sviluppo dell’itinerario è scandito dai grandi numeri dipinti sui lati dei tunnel.

Finalmente arrivo a Shimla, dopo aver superato ben 18 stazioni sul percorso, tutte fornite di bancarelle da cui comprare del cibo (vedi, sotto, l’elenco).

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Non fatico a pensare che Shimla, costruita su diverse colline ad una altitudine di 2.075 metri, tra verdi pascoli e cime innevate, sia davvero una piccola perla dell’Himalaya, fondata dagli inglesi con il nome di Simla e divenuta, nel 1864, capitale estiva dell’Impero britannico oltre che quartier generale della forza militare inglese. Di fatto gli inglesi fecero di Shimla un luogo a loro uso e consumo, soprattutto durante la ricostruzione dopo l’ incendio del 1876. Persino i nativi indiani furono praticamente costretti ad allontanarsene, tranne quelli che erano al servizio degli inglesi. Ma all’epoca, prima della costruzione della linea ferroviaria, raggiungerla non era semplice, considerata la sua collocazione, se non con carri trainati da buoi ed impiegando moltissimo tempo ed uomini lungo la faticosa salita. Del resto, il punto di forza di Shimla era proprio la sua posizione che la rendeva fresca anche durante l’estate. Sono ovunque le tracce del suo passato coloniale, come i cottages, la Loggia vicereale, i lampioni in ferro, gli edifici in stile tudor e neo gotico e, ovviamente, i nomi inglesi. Dopo l’indipendenza del 1947, Shimla divenne la capitale dello Stato del Punjab e, in seguito alla costituzione dell’Himachal Pradesh, nel 1966, fu designata capitale di quest’ultimo.

Dopo il check-in hotel faccio due passi per la cittadina. Mi trovo nei pressi della via pedonale principale The Ridge, un grande spazio aperto con vista sulle pendici innevate dell’Himalaya, che somiglia ad una piazza; è lunga quanto lo spazio che passa tra le due colline di Shimla, Jakhoo, ad est e Observatory ad ovest e che è pari all’estensione della cittadina. Qui le persone si ritrovano e qui si fanno i festival.

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Mi dirigo poi verso ovest e visito la seconda Chiesa cattolica più antica costruita in India, la quasi bianca Christ Church in quello stile neogotico che piaceva agli inglesi durante l’era vittoriana. La progettò l’architetto colonnello J. T Boileau, i lavori iniziarono nel 1844 e la consacrazione avvenne nel 1857. All’interno 5 vetrate rappresentano le 5 virtù del cristianesimo (carità, fortezza, pazienza, umiltà e speranza) e, nella parte anteriore della chiesa, il contrassegno su un banco indica che quello era riservato al viceré. All’uscita la luce è forte e tiro un forte respiro di aria pura; nel mentre, realizzo che, dietro la chiesa, è visibile la grande statua di Hanuman costruita sulla collna di Jakhoo dove intendo recarmi.

Continuo la strada in discesa ed arrivo a Scandal Point dove The Ridge si incontra con Mall Road. E’ un nome davvero strano. Mi spiegano che deriva da una storia forse vera, forse no o forse solo in parte. Si racconta della fuga d’amore, nel 1892, della figlia del viceré e del Maharaja di Patiala Bhupinder Singh che erano incontrati proprio qui a Scandal Point. Pare che a questo Maharaja piacessero molto le donne che quindi cadevano preda del suo fascino.

Percorro quindi Mall Road, l’altra strada principale di Shimla che corre lungo una terrazza inferiore e dove, al Bazaar, si vende di tutto. Qui si trova anche l’edificio postale in stile coloniale.

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Nel pomeriggio cammino per 30 minuti (2,5 Km.) lungo un percorso intercalato da tratti a gradini e dalla visita di scimmiette un po’ invadenti che in India non mancano mai; con stupore scopro che affittano bastoni per tenerle lontane durante il cammino! Arrivo a Jakhoo Hill, ad un’altezza di 2.455 metri, il luogo più alto di Shimla, immerso nella natura, dove si trova un tempio indu e una recente statua arancione di Hanuman, il dio dell’induismo con il volto di scimmia, alta ben 33 metri. Da quassù si vede la catena montuosa Shivalik che appartiene a quella Himalayana. La mitologia hindu racconta che la cima piatta di Jakhoo Hill Shimla è l’impronta del piede di Hanuman che vi atterrò dal cielo a cercare un’erba per medicare il sacerdote Lakshmana durante la battaglia del Ramayana. Proprio in quel punto venne quindi costruito il colorato tempio di Jakhoo che riporta esternamente le immagini di questa divinità e, all’interno, una sua statua. Prima di entrare nel tempio seguo la ritualità e suono la campana affinché quel suono porti fortuna per i 3 giorni che verranno.

La mattina del giorno seguente mi dirigo a 2 chilometri dal centro, al Viceregal Lodge, l’ex residenza estiva dell’allora Viceré, colui che, in nome del monarca, esercitava il potere in India. La sua costruzione è del 1888 ed il primo ad abitarla fu Lord Dufferin cui, nel 1884, venne conferito quel titolo. Il palazzo ospitò anche la conferenza di Shimla che Lord Wavell, nel 1945, organizzò per presentare il suo piano per l’autogoverno indiano. Erano le premesse per l’indipendenza indiana che sarebbe avvenuta nel 1947 e di cui Wavell intendeva dibattere ma senza alcun appoggio dal primo Ministro Churchill, che non condivideva la svolta, né tanto meno dal suo successore Attlee che, nel 1947, lo rimpiazzò con Louis Mountbatten che traghettò l’India fuori dalla supremazia inglese (vi consiglio di vedere il film “Il palazzo del Viceré” del 2017). Qui si tennero le discussioni nel 1947 sulla divisione territoriale tra India e il nuovo Pakistan. (https://passoinindia.wordpress.com/2015/08/14/lindipendenza-indiana-e-la-partizione-del-1947/ )

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Il Viceregal Lodge è anche chiamata “Casa del presidente” (Rashtrapati Niwas) perché, dopo l’indipendenza e fino alla metà degli anni ’60, vi si recavano in estate i presidenti indiani, dopodiché, perduta questa consuetudine, il Lodge venne consegnato all’ Institute of Advance Studies, praticamente una Università. Passeggio nei giardini del palazzo voluti dal marchese Lansdowne e mi soffermo ad esplorare il panorama che si gode dalla cima della collina dell’ Observatory Hill su cui si trova l’edificio; questo luogo è il secondo punto più alto di Shimla, dopo la collina Jakhoo. Mi chiedo quanto movimento ha visto in passato questo luogo e quanto denaro e sforzo fisico deve essere costato. Portare fin quassù il materiale da costruzione come l’ arenaria grigia locale e la pietra calcarea azzurra, utilizzati per costruire il palazzo, non deve essere stato così facile, seppure con l’utilizzo di muli e certamente di molti servitori. E tutto l’andirivieni si ripeteva ad ogni cambio della stagione quando gli inglesi lasciavano la calura delle pianure effettuando un vero e proprio trasloco, una lunga fila di uomini, merci, mobilio (pensate ai pianoforti!), carri, carretti, rickshaw, bauli, dame con ombrellini e gentiluomini… Per l’epoca, il Viceregal Lodge era una residenza moderna con tubazioni per l’acqua sia calda che fredda, un efficiente sistema di immagazzinaggio dell’acqua piovana ed un grande generatore di vapore per l’illuminazione elettrica. Durante il movimento per l’indipendenza anche Mahatma Gandhi giunse sin qui a visitare il viceré nella sua residenza nel 1922 e successivamente Lord Willingdon nel 1931.

Lascio Shimla con un sorriso e anche un po’ di quella malinconia che ti invita a ritornare.

(testo by PassoinIndia)

Ricorda che in inverno la zona è coperta di neve e durante i monsoni piove molto. 

leggi anche

https://passoinindia.wordpress.com/2016/05/01/in-india-ad-un-passo-dallhimalaya/

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Le stazioni che tocca il treno per Shimla: Kalka (0 km, 656 m.s.l.m.) il cui nome è mutuato dal tempio di Kali Mata situato a Shimla. 2) Taksal (5,69 km. 806 m.s.l.m.), la prima stazione dopo l’ingresso nello Stato di Himachal, dove anticamente si fabbricavano monete. 3) Gumman (10,41 km, 940 m.s.l.m.), sulle colline di Kasauli. 4) Koti (16.23 km, 1.098 m.s.l.m.), spesso visitata da animali selvatici; vicino si trova il secondo tunnel più lungo (n. 10) con una lunghezza di 693,72 metri. 5) Sonwara (26 km, 1.334 m.s.l.m.); vicino si trova il ponte (n. 226) più lungo di 97,40 metri. 6) Dharampur (32.14 km, 1.469 m.s.l.m. 7) Kumarhati Dagshai (39 km, 1.579 m.s.l.m.). 8) Barog (42.14 km, 1.531 m.s.l.m.); vicino si trova il tunnel più lungo (n.33) con una lunghezza di 1.143,61. 9) Solan (46.10 km, 1.429 m.s.l.m.).a 10) Salogra (52,70 km, 1.509 m.s.l.m.); pochi chilometri si trova la famosa fabbrica di birra Solan. 11) Kandaghat (58.24 km, 1.433 m.s.l.m.). Vi si trova il ponte ad arco n. 493 con una lunghezza di 32 metri. 12) Kanoh (69.42 km, 1.647 m.s.l.m.); vi si trova il ponte più alto della galleria ad arco (n. 541) con un’altezza di 23 metri e una lunghezza di 54,8 metri. 13) Kathleeghat (72.23 km, 1.701 m.s.l.m.). 14) Shoghi (77,81 km, 1,832 m.s.l.m.), la prima stazione del distretto di Shimla. 15) Taradevi (84,64 km, 1.936 m.s.l.m.), il cui nome deriva da Mata Tara Devi situato vicino; in prossimità si trova anche il terzo tunnel più lungo (nr.91) a 992 metri. 16) Jutogh (89.41 km, 1.958 m.s.l.m.). 17) Summer Hill (92.93 km, 2.042 m.s.l.m.) che inizialmente serviva la Loggia vicereale; vicino si trova l’Università Himachal Pradesh. 18) Shimla (95.60 km, 2.075 m.s.l.m.).

Patrika Gate, la porta più colorata dell’India

C’è un luogo a sud di Jaipur, lungo Malviya Nagar, a circa 1,5 km, dall’aeroporto internazionale Sanganer, che non trasuda autentica storicità e non supera in bellezza i monumenti di Jaipur ma che vale la pena visitare. E’ il Patrika Gate, con la facciata rigorosamente di colore rosa, come il resto della città, fiancheggiato da figure di elefanti, cavalli e soldati, a ricordare il valore degli Stati principeschi del Rajasthan in quelle battaglie e guerre che fanno parte della storia dei Rajput. Il design della facciata del Patrika Gate richiama l’architettura tradizionale rajastana con i suoi armoniosi jharokhas, un tipo di balcone sporgente, tipico dello stile moghul, i pols, e gli chhatris, i bei padiglioni che si elevano a forma di cupola, tipici di alcuni meravigliosi edifici di Jaipur come il famoso Hawa Mahal, ed il grandioso City Palace, residenza della famiglia reale.

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L’interno del Patrika Gate appare come un caleidoscopio: consta di 9 archi o padiglioni ognuno dei quali misura 9 piedi ed è finemente scolpito e dipinto con temi che testimoniano la ricca cultura del Rajasthan, la terra dei re, e della storia di Jaipur, i suoi antichi templi, le fortezze, i palazzi come l’Hawa Mahal e il City Palace, i ritratti di sovrani di Jaipur, le ceramiche blu, i gioielli ed anche la vita e le tradizioni quotidiane. Altre pitture riguardano strutture architettoniche più moderne di Jaipur come ad esempio il World Trade Park (un grande centro commerciale) e l’Amar Jawan Jyoti.

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Il Patrika Gate diventa la nona porta, aggiungendosi infatti alle altre otto porte di accesso alla città (Soorajpole Gate, Chaanpole Gate, Ajmeri Gate, Sanganeri Gate, Ghaat Gate, Samrat Gate, Zorawar Singh Gate e New Gate) attraverso le mura che il Maharaja Sawai Jai Singh II, quando fondò Jaipur nel 1727 d.C. , volle erigere per separare il cuore della città dalla periferia, probabilmente per ragioni di sicurezza. Notate come il numero 9 sia ricorrente?

Il Patrika Gate è il luogo di accesso al Jawahar Circle, con i suoi alberi e giardini che ne fanno probabilmente il più grande parco circolare dell’Asia. Di fronte al Gate c’è l’enorme giardino circolare con la sua fontana che ogni domenica, dalle ore 19:00 e per circa 30 minuti, offre uno spettacolo di getti di acqua danzanti al ritmo di musica indiana con ben 290 effetti coreografici e 316 diversi colori. Il parco ospita bancarelle che vendono gustoso cibo indiano street food.

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Ricordate che non sarete soli a meno che non andiate molto presto la mattina. Questo luogo è molto ambito da fotografi e turisti.

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Tempio indu: devoti e devozione

Quando si visita un tempio indu è impossibile non rimanere affascinati da tutto quanto “gira” attorno alla sua figura, compreso l’interno che ospita la divinità principale. Come in altre religioni, la pulizia fisica è parte integrante del culto religioso e per questo i devoti entrano nel tempio dopo un bagno rituale al serbatoio della struttura o presso un fiume. Portano offerte e eseguono la pradakshina, una circoambulazione in senso orario (la parola infatti significa a destra) dell’edificio principale. Questo rito, conosciuto similarmente anche nel Buddismo, conduce simbolicamente i devoti attorno ad una miniatura del cosmo e viene praticato anche in luoghi dove non esiste un tempio se lì, secondo credenza, è presente la divinità, ad esempio su una collina, attorno a Agni, il fuoco sacro (come anche si fa durante una cerimonia nuziale indu), alla pianta sacra Tulsi e all’albero sacro Pipal. Gli induisti si muovono lentamente attorno al santuario, mostrando rispetto verso gli idoli installati lungo il percorso e alle figure nelle nicchie del tempio, tutte manifestazioni dell’immagine del dio che si trova all’interno. Le figure sul muro del tempio ricordano ai fedeli di essere state create per aiutarli nella preghiera, per offrire l’ immagine di un superiore, onnipotente, informe e non manifesto potere.

Come i bambini in una casa, gli dei del tempio vengono svegliati ogni mattina, vestiti, alimentati con le offerte dai sacerdoti bramini. Ci sono sacerdoti ereditari designati secoli fa a mantenere il tempio, ai quali re e signori assegnarono terre e regali per la loro sussistenza. A seconda delle stagioni gli dei sono vestiti in abiti di differenti colori che simboleggiano la celebrazione festiva. In alcuni templi ricchi come a Tirupati (Andra Pradesh) i gioielli che adornano le principali divinità costano milioni di rupie, mentre nei poveri templi dei villaggi la divinità è adornata con semplici fili di perline. Una volta che la divinità è vestita vengono aperte le porte del tempio ed i devoti arrivano ad offrire frutta e fiori. Anche l’accensione delle luci nel tempio ha un grande significato simbolico perché rappresenta l’eliminazione dell’ignoranza e dell’oscurità e quindi del potere del maligno. La saggezza è evocata con l’accensione e lo sventolio delle lampade, spesso bellissime, e delle fiammelle delle candele affinché i fedeli ricevano il darshanIl gioco delle luci sulla divinità nella scura stanza della grabha griha esalta il concetto della divinità all’interno dell’individuo. Agli dei vengono fatte offerte simboliche dei cinque elementi della natura (simboleggianti anche i cinque sensi): l’acqua, da cui deriva la vita, i fiori, simbolo di crescita e prosperità, la frutta, l’emblema del compimento e ricompensa per il lavoro, l’incenso, che, con dolci fragranze, riempie l’aria che dà la vita, e lo scampanellio delle campane che sveglia gli dei e risuona in quello spazio comune in cui tutti coesistiamo. Ogni divinità ha le sue offerte preferite. Alcune divinità femminili amano l’odore del sangue e così in alcuni templi del Nepal e dell’ India vengono compiuti sacrifici. Ma, per fortuna, nella maggioranza dei casi il sangue di vittime sacrificali (animali) è stato sostituito da polvere rossa che viene spalmata sulla fronte delle divinità a significare il suo potere a riprodurre e sostenere la vita. Shiva ama le offerte di latte ed essere bagnato con l’acqua.

Nel tempio si medita, si recitano le scritture e i mantra, si cantano gli inni sacri ma soprattutto, anche più volte al giorno, nella scura garbha griha si fa la puja, un rituale di adorazione della divinità che viene lavata mentre le si offrono doni. Alla fine della celebrazione, ha luogo l’arati e il fuoco dei lumini illumina l’immagine della divinità. Il momento conclusivo, alto e personale, è il darshana, quando il fedele raggiunge la “visione” di Dio. Dopo la preghiera i bramini distribuiscono il prasad che simboleggia le benedizioni degli dei in forma di polvere rossa (se divinità femminili) o cenere (nel caso di Shiva) insieme ad altre cose come dolci o frutta che quindi ritornano ai devoti come simbolo di abbondante grazia della divinità. Quando i devoti ricevono le benedizioni essi possono fare offerte di gioielli o abiti per le divinità o offrire i loro servizi come cantare o suonare strumenti musicali durante le festività. Ma il tempio è soprattutto il principale luogo di aggregazione e scambio culturale per le comunità indu. Le donazioni contribuiscono a creare nuovi padiglioni o mandaps, ovvero delle strutture, parti integranti del tempio, realizzati solitamente su colonne, aperti o chiusi da pareti; essi conducono all’ingresso del tempio, anche se nei templi più grandi possono essere posti ai lati o staccati all’interno del complesso templare. Gli antichi templi dell’Orissa e del sud India hanno un nat o un mandap per le danze, un bhoga mandap per la distrubuzione di cibo, un kalyana mandap per condurre la cerimonia di matrimonio degli dei e altri festival per i quali il tempio è famoso. Dentro il perimetro templare possono trovarsi altri piccoli templi dedicati a divinità correlate a quella principale (ad esempio in un tempo shivaista, le principali divinità correlate sono Parvati, sua moglie, Ganesh e Kartikkeya, i suoi figli.) 

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A volte, posto su una colonna di fronte al santuario, come nei templi della valle di Kathmandu, si trova la figura del vahana, altre volte ospitato in un tempio separato, come è stata pratica comune in zone del sud India. Il vahana (letteralmente “ciò che trasporta, ciò che tira”) è l’animale che viene associato ad una divinità come suo veicolo che essa cavalca oppure lo affianca oppure ne possiede un simbolo.

Nel sud India dal XIII° secolo il tempio diventò il cuore della città, dove anche si commerciavano i prodotti portati dai villaggi vicini; ovviamente, tutto intorno vennero installate le sistemazioni per i brahmini, i sacerdoti. Nelle città tempio come Kanchipuram e Thanjavur in Tamil Nadu, ogni cosa è disponibile lungo i confini del tempio: abiti, utensili, fiori, cibo, sete, ceramiche, articoli artigianali e tanto altro. I templi relativamente più piccoli sono comunque un fulcro attorno al quale gira la vita quotidiana, quella stessa che l’induismo ha fatto innanzitutto una filosofia di vita.

by PassoinIndia

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Il tempio indu (la struttura)

Sia il tempio indu che quello buddista derivano la maggior parte della loro forma e decorazione dalla rispettiva mitologia e filosofia. Ma, a differenza dello stupa buddista, il tempio indu non è un monumento funerario e commemorativo ma è concepito come devalaya, la dimora di dio, un luogo che gli dei amano visitare e deve quindi essere perfetto per questo scopo in ogni suo dettaglio. Nonostante la sua vastità, il subcontinente indiano è accomunato da un filo conduttore mitologico che lega luoghi distanti. I luoghi in cui, secondo il mito, gli dei profusero le loro gesta, divennero sacri centri di pellegrinaggio, perché benedetti dalla visita divina. Le origini del tempio sono da rinvenirsi anticamente in un modesto riparo sotto un albero o sulle rive di un fiume riconosciuti come sacri, visto che, nella configurazione di un tempio, l’acqua è importantissima perché simbolizza il punto di passaggio verso l’altra riva della saggezza. Questi punti sacri diventarono edifici a tutti gli effetti quando raggiunsero importanza tra i devoti e le risorse finanziarie ne supportarono la realizzazione. Quando i sovrani ed i cortigiani finanziarono e commissionarono un tempio o una scultura, fu sempre per una ragione particolare: ricordare una vittoria politica, la conquista di un territorio, una persona amata, una glorificazione perpetua della loro dinastia. Il tempio, come dimora degli dei, fu costruito come un riflesso in miniatura del cosmo, con la struttura allineata in direzione dei punti cardinali: verso est, simbolo della perseveranza, dove sorge il sole; verso ovest, dove tramonta il sole, zona di Varun, il dio dell’oceano eterno; verso nord, la regione della permanenza; verso sud, quella di cambiamento e decadenza, il regno di Yama, il Signore della morte. A seconda della divinità e la stagione in cui il tempio veniva costruito, esso si rivolgeva ad una particolare direzione cardinale ma la maggior parte erano rivolti verso est. Anche la configurazione delle stelle e dei pianeti fu determinante nella pianificazione strutturale del tempio affinché gli dei vi potessero riconoscere la ricostruzione dell’universo ed elargire la loro benedizione ai devoti. Tali regole furono rispettate sia che il tempio fosse costruito in India o in Nepal, nel deserto o sulle colline.

Un tempio consisteva in un singolo quadrato, il garbha griha o camera del grembo o dimora dell’embrione, il suo sancta sanctorum, dove avviene il contatto tra la dimensione terrena e quella divina; si trattava di una stanza disadorna, intenzionalmente buia per favorire la concentrazione della mente del devoto sull’immagine del divino all’interno di essa, la statua del dio principale da cui il tempio prendeva il nome. Ad esempio, il tempio più famoso a Varanasi è chiamato Vishvanatha, il Dio dell’intero Universo. Solo i sacerdoti potevano e possono accedere al garbha griha.. Anche se il termine è associato ai templi indù, spesso ne erano dotati anche i templi giainisti e buddisti. La sacra garbha griha con le sue facce uguali e dirette verso i punti cardinali di permanenza e cambiamento (con quattro porte aperte, come nei templi della valle di Kathmandu) negli ultimi secoli fu realizzata in modo da formare disegni e proporzioni diverse, assumendo talvolta una pianta a forma di stella, come nei templi di Belur e Halebid in Karnataka o tondeggiante, come in quelli del Kerala o con movimenti ondulatori come in quelli di Kajuraho (Madhya Pradesh). Durante lo stadio elementare di sviluppo il tempio era spesso composto dalla sola camera santa costituita da un singolo monolocale, coperta da un semplice tetto piano, come nei primi esempi del V secolo. La pietra per il tetto, infatti, era difficile da modellare, mentre nelle costruzioni in legno era possibile ottenere anche un tetto a forma di botte. Ci sono ancora molti templi in India dove il sanctum è costruito in legno e mattoni, come nel sud. Molti di quei templi antichi non sono arrivati fino a noi a causa della deperibilità del materiale con cui erano fatti. Quando crebbe il mecenatismo per la costruzione dei templi indu, si cominciò a costruirli in pietra, materiale più duraturo ma più costoso. Il garbha griha cominciò ad essere sormontato da una copertura, un “tetto” non piano chiamato shikhara, che nei secoli assunse proporzioni monumentali che lo rese dominante sul circondario e visibile da molto lontano. Shikhara é un termine sanscrito che significa “picco montuoso” ed è anche interpretato come un asse verticale, “l’axis mundi”, che attraversa i cieli, la terra e il sottoterra. L’elevazione verso l’alto del Shikhara rappresenta l’elevazione spirituale personale (ātman) e lo slancio verso Brahma, l’essere supremo.

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L’architettura dei templi è stata classificata in base alla forma del shikhara e alle sue decorazioni. Quelli del sud India, in stile drāvida, sono solitamente fatti di strutture orizzontali sovrapposte che verso l’alto si riducono in larghezza costituendo una sorta di piramide. Ogni livello è decorato con diverse rappresentazioni. I templi del nord e centro India, in stile nāgara, hanno al contrario dei shikhara somiglianti ad un cono decorato e costituito da altri piccoli shikhara in miniatura.A questi due stili si affianca quello vesara, (dalla copertura cilindrica), una sintesi degli altri due. I templi di Bhubaneshwar in Orissa hanno una forma evoluta che si erige con livelli orizzontali in pietra decorati che si alzano come una colonna sopra il garbha griha e accentuano la loro curvatura mentre si avvicina la cima della torre. Solo dopo la costruzione del garbha gtiha il tempio hindu, si ingrandiva con ambienti che si aggiungevano al disegno originale, soprattutto quando, dal VI°-VII° secolo d.C., il tempio divenne un fulcro sociale, gravitato com’era da sacerdoti, assistenti dei brahmini, giardinieri, addetti alle pulizie, musicisti e danzatrici, il luogo religioso e di ospitalità ai pellegrini di passaggio o ai poveri così come ancora oggi avviene in molti templi. I tetti delle sale sussidiarie del tempio dell’India centrale e dell’ Orissa svilupparono una distinta forma piramidale composta da diversi strati decrescenti, costituendo la forma di una montagna, incrementando il simbolismo dei templi come dimora degli dei in mezzo all’ Himalaya. Nella valle di Kathmandu, per le condizioni climatiche, l’architettura dei templi assunse la forma di una pagoda costituita di vari livelli. I templi in legno del Kerala e di Goa also ebbero grandi coperture spioventi ricoperti da piastrelle.

Sulla cima di ogni shikhara c’era il kalash, l’emblema a forma di contenitore per l’acqua. In tutto il continente il kalash è il vaso simbolico dell’ambrosia, il fine ultimo della preghiera, la promessa della vita eterna libera dal cambiamento e dalla morte. Anche la decorazione scultorea sulla parete esterna della garbha griha e della sala fu una questione di gusto regionale. Sebbene il Vastu-Shastra, il testo quasi sacro sull’architettura del tempio descrisse l’arte e il simbolismo della costruzione, ogni regione ne interpretò le regole secondo le proprie esigenze. Il garbha griha che ospitava l’immagine centrale del tempio era racchiuso su tre lati. La porta d’ingresso al santuario, dai primi esemplari di Gupta, fu scolpita, su entrambi i lati, con immagini delle dee dei fiumi, assicurando la purezza a tutti coloro che passavano attraverso i portali, e con altre figure di buon auspicio lungo il bordo della porta. La zona centrale sull’architrave dall’altra parte della porta era scolpito con una figura della divinità alla quale il tempio era dedicato. Sulle pareti esterne del garbha griha erano installate nicchie con immagini che rappresentavano la manifestazione della divinità. I muri del tempio potevano narrare temi della mitologia o rappresentare figure di altri dei e dee del pantheon indu. A questo vasto schema decorativo potevano essere aggiunte figure di semi-dei o creature mitologiche che proteggevano il tempio dalle forze maligne. La quantità e la proporzione dei motivi di questi templi variava da regione a regione, dagli scarni templi di Hampi a quelli pluridecorati di Belur e Halebid, peraltro tutti facenti parte della stessa regione del Karnatka.

Molti di questi templi o di ciò che ne rimane sono di epoca Gupta, una dinastia che regnò nell’India settentrionale a partire dal 320 d.C. fino al VII secolo d.C., sono frequentati dai devoti che operano puje e seguono riti codificati, compiono la pradakshina ovvero la circuambulazione del santuario entrando nell’area sacra da oriente (simbolo dell’inizio di ogni cammino) e, camminando, ripercorrono simbolicamente il ciclo solare. Molti altri sono di recente costruzione eppur mantengono le stesse regole strutturali di quelli antichi, senza tuttavia, a parer mio, emanare lo stesso fascino. (by PassoinIndia)

da sinistra:  templi in Madhya Pradesh, Kesava temple (Karnataka), Orissa, Tamil Nadu

Srinagar, il paradiso sulla terra

Jahangir, il quarto imperatore Mughal, scrisse del Kashmir come di un giardino di primavera eterna, una fortezza di ferro per un palazzo dei re, un delizioso letto di fiori e un eremo in espansione per il mendicante. In qualche modo Srinagar era la parte più bella dell’impero Moghul. È apprezzata per la sua posizione tra le montagne dell’Himalaya dove crescono bellissimi fiori selvatici, dove i torrenti gorgogliano sempre con acqua cristallina e la brezza leggera è profumata con l’aroma delle erbe di montagna. Akbar portò questa regione nel suo impero nel 1586 e lui, i suoi figli e nipoti spesero tempo e denaro nella costruzione di giardini e luoghi per valorizzare lo splendore naturale della valle.

Srinagar è oggi la capitale estiva dello stato del Jammu e Kashmir e si trova a 1730 metri sopra il livello del mare nel centro della valle del Kashmir. Il nome Srinagar implica una città contrassegnata da bellezza e dignità distintive, abbondanza e ricchezza. La città è situata in mezzo a un anello di montagne, con tre laghi, il Dal, il Sona e il Nagin e un fiume, il Jhelum, che si snoda dolcemente attraverso il suo corso verso le vaste pianure sotto la valle.

Sono la bellezza naturale della valle, i laghi con le case galleggianti e i giardini fioriti, quelli formali dei Moghul  squisitamente disposti, gli antichi edifici e la pittoresca architettura in legno del Kashmir a fare innamorare di Srinagar.
La città è cresciuta intorno ai tre laghi che si trovano nel bacino centrale della valle. A nord e a nord est dei laghi si trovano i giardini Mughal, Nazim, Shalimar e Nishat. A ovest dei laghi si trova la collina di Hariparbat sulla quale Akbar costruì uno splendido forte che domina l’intera città. Sul lato orientale del lago Dal si trova la collina Shankaracharya sulla cui cima vi è  uno dei templi più antichi di Srinagar. Ad est c’è un altro giardino popolare chiamato Chashma-i-Shahi e il Pari Mahal con la sua posizione dominante. A sud-est della città si trova Pandrethan, che ospita un delizioso tempio di Shiva. A sud – ovest dei laghi, in mezzo alla città vecchia, si trovano il magnifico vecchio Jami Majsid e il Pattar Masjid.

Per informazioni o preventivo per un viaggio in India contattaci su info@passoinindia.com o visita il nostro sito http://www.passoinindia.com

DHARAMSALA, UNA VISITA AL DALAI LAMA

Racconto di viaggio in India. Dal sito ufficiale di PassoinIndia http://www.passoinindia.com

Sono arrivato a Dharamsala, Himachal Pradesh, Nord India. Il motivo? Niente poco di meno che incontrare il Dalai Lama. In fin dei conti, molti dei pellegrini che arrivano qui lo fanno con questo scopo (persino Goldie Hawn, Uma Thurman e Richard Gere sono arrivati sin quassù!). In realtà Dharamsala è la città bassa, o meglio, un villaggio inquadrato in quella quotidianità tipica delle zone rurali settentrionali che ha sempre il suo fascino. Per raggiungere la residenza di Sua Santità, occorre salire ancora un poco, lungo una strada carrozzabile che si insinua agevolmente tra una vegetazione pre-himalayana di alberi sempreverdi e conduce a McLeod Ganj, un tempo stazione di villeggiatura, costruita nel 1848, con il nome di un vicegovernatore del Punjab, per i coloni inglesi stanchi del calore delle pianure. Arrivare a McLeod Ganj, è stata un’emozione forte…. (continua qui please https://www.passoinindia.com/…/Dharamsala-una-visita-al-Dal…