Perchè in India la mucca è sacra?

Perchè in India la mucca è sacra? Molto spesso, in India, vediamo girovagare mucche in libertà in mezzo al traffico cittadino, una delle rare situazioni in cui le auto rallentano. Tutti sanno che la mucca è considerata sacra. Le ragioni sono religiose e sociali.

 Un indu risponderebbe alla domanda precisando di adorare non le mucche ma la divinità onnipresente che è dentro di esse e preciserebbe anche che per indu e giainisti tutti gli esseri viventi hanno un’anima e quindi sono sacri, particolarmente la mucca che li rappresenta tutti. Animale da cui tutto si può prendere, tranne la vita, la vacca richiede poco per vivere e fornisce il latte da cui si ottengono alimenti essenziali per l’uomo come il formaggio, lo yoghurt, il burro chiarificato (ghee), diventando simbolo, sin dai tempi antichi, dell’abbondanza e della Terra che nutre la vita.

 I cinque prodotti (pancagavya) della mucca – latte, cagliata, burro (ghee), urina e escrementi – sono tutti utilizzati nella puja (come avviene nella Yagna, l’adorazione del fuoco) e nei riti di estrema penitenza. Nelle scritture indù il latte è considerato tra le più alte forme di cibo (satvik) oltre che avere poteri calmanti e di ausilio alla meditazione.

Nel Rig Veda (4.28.1; 6), l’antichissimo testo sacro, si legge. “Le mucche sono venute e ci hanno portato fortuna. Nelle nostre stalle, contente, possano rimanere! Possano crescere per noi i vitelli, dando latte per Indra ogni giorno. (…). Rallegrate la nostra fattoria con piacevoli muggiti.” Versi del Rig Veda si riferiscono alla mucca come Devi (dea), identificata con la dea vedica Aditi, madre di tutte le forme esistenti, degli dei e degli esseri viventi.

 Della mucca non si butta niente. La sua urina e il suo sterco sono disinfettanti; i pavimenti di terra delle modeste abitazioni dei villaggi, un tempo non rivestiti, come oggi, di piastrelle o cemento, venivano coperti con strato di sterco di mucca a scopo  antisettico. Lo sterco essicato di mucca è inoltre da sempre utilizzato come combustibile (gobar) e l’urina viene impiegata nell’antica medicina ayurvedica.

Nella mitologia induista Kamadhenu (significato: da cui tutto ciò che è desiderato viene disegnato), chiamata anche Surabhi (in sancrito vuol dire gradevole, affascinante, fragrante – dal buon odore della mucca), è la dea madre di tutte le mucche, simbolo di prosperità ed è raffigurata in vari modi, talvolta con la testa femminile, il seno, le ali dell’aquila e la coda del pavone; altre volte con un corpo contenente le altre divinità dell’induismo: le gambe simboleggiano le sacre scritture Veda, le corna rappresentano la trinità Brahma, Vishnu e Shiva, gli occhi sono gli dei sole e luna, le spalle sono il simbolo di Agni, il dio del fuoco, e di Vayu, il dio del vento mentre e gli stinchi rappresentano l’Himalaya.

 La mucca è quindi considerata l’incarnazione terrena (avatar) di Kamadhenu diventando così un tempio vivente e mobile che non ha creato negli indu l’esigenza di avere templi specificamente dedicati a lei che, infatti, non è adorata in modo indipendente come una dea anche se in molti luoghi di culto vi si possono trovare sue raffigurazioni. Gli indiani indu onorano quindi la mucca, e addobbandola con ghrlande e colori, la festeggiano in certe occasioni, come ad esempio durante la festa annuale di Gopashtama.

 La mucca diventa cosi un componente della famiglia, da rispettare e onorare persino in vecchiaia; pensate che in Inda ci sono più di 3.000 Gaushalas, isitituti sorretti da beneficenza, che si prendono cura delle mucche vecchie e malate.

Nell’antica India, buoi e tori venivano sacrificati agli dei e la loro carne veniva mangiata. Eppure le antiche scritture vediche già incoraggiavano il vegetarianismo. Nei Veda infatti è scritto: “Non vi è alcun peccato nel mangiare carne … ma l’astensione porta grandi ricompense.” (Le leggi dell’uomo, V / 56).

 Più tardi gli indù smisero di mangiare carne di manzo per ragioni pratiche e non spirituali considerato come fosse oneroso macellare un animale per riti religiosi o per un ospite, privandosi così di un animale, come la mucca, che così tanto offre ll’uomo.  Inoltre l’industria del cuoio e quella della macellazione erano estremamente inquinanti.

 Alcuni studiosi ritengono che la tradizione di non mangiare carne sia stata trasmessa all’induismo dal giainismo.

Nei primi secoli d.C., la mucca veniva considerata il regalo più adatto per i brahmani (sacerdoti di alta casta) e quindi si credeva che uccidere una mucca equivalesse ad uccidere un sacerdote.

L’importanza dell’elemento pastorale nelle storie del Dio Krishna, in particolare dal X° secolo in poi, ha ulteriormente rafforzato la santità della mucca.

Questo docile bovino incarna la virtù induista della non-violenza, nota come ahimsa e ed esprime dignità, forza, resistenza, maternità e servizio incondizionato.

 Un giorno Gandhi disse: “Si può misurare la grandezza di una nazione e il suo progresso morale dal modo in cui tratta i suoi animali. Proteggere la mucca vuol dire proteggere tutto ciò che vive ed è impotente e debole nel mondo. La mucca rappresenta  l’intero mondo subumano.

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Makar Sankranti. La festa del Sole.

Oggi in India si è celebrata una festa molto importante per gli induisti (ma anche i Sikh, la festeggiano), ritenuta la più propizia di tutto l’anno. Infatti, il 14 gennaio è il giorno di Sankranti, considerato particolarmente sacro perché in questo giorno il Sole, secondo le scritture vediche, lascia il Sagittario (Dhanu Rashi)  ed entra nel Capricorno (Makar Rashi), iniziando così il suo viaggio dall’emisfero Sud (Dakshinayana) all’emisfero Nord (Uttarayana). Nell’astrologia indiana Shankranti significa trasmigrazione del Sole da uno zodiaco verso un altro zodiaco. Questa festa cade circa 21 giorni dopo il solstizio d’inverno (il giorno più breve e la notte più lunga dell’anno) che, nell’emisfero settentrionale, ha luogo tra il 20 e il 23 dicembre. Sono gli Ariani ad avere iniziato a celebrare come propizio per i festeggiamenti questo giorno che anche apre la stagione del raccolto.

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Anche nel poema Mahabharata, si racconta di questo giorno di buon auspicio. Bhishma Pitamah, uno dei protagonisti del grande capolavoro epico, pur ferito in guerra resistette 58 notti alla morte fino allo momento dello Uttarayan così da raggiungere la dimora celeste in un momento di buon auspicio. Ancora oggi si crede che morire in questo giorno porti la Moksha (liberazione dal ciclo delle reincarnazioni) o la salvezza per il defunto.

Da oggi, in cui il giorno e la notte hanno la stessa durata, le giornate diverrano più lunghe e calde.

La festa, quindi, è dedicata a Surya Deva (il Dio Sole), il Signore dell’energia e della Luce, che nutre tutta la vita sulla Terra. Anche se ci sono dodici Sankranti nel calendario indù, il Makar Sankranti è quello religiosamente più significativo ed è diventato lo Sankranti per eccellenza. La festa, una delle poche che si celebra unanimemente in tutta l’India ed in una data fissa ogni anno, viene celebrata per due o quattro giorni, a seconda della regione, dove assume via via nomi diversi e dove variano anche i rituali celebrativi e le leggende locali che li animano. Gli induisti operano sacre abluzioni, fanno opere di carità, accendono falò un giorno prima di Makar Sankranti, celebrano il Dio Sole, offrono agli dei il Prasad (il cui nome significa “grazioso regalo”ed è rappresentato da cibo), preparano dolci e fanno, soprattutto in Sud India, un bagno d’olio; insomma, si compiono tutte le cerimonie rituali considerate di buon augurio. Gli stati di Bihar, Bengala, Punjab, Maharashtra, Gujarat, Rajasthan e Tamil Nadu celebrano la festa con grande fervore. In Tamil Nadu il festival è conosciuto come Pongal, in Assam come Bhogali Bihu, nel Punjab, come Lohiri, nel Gujarat e Rajasthan, come Uttararayan. Al di fuori dell’India, questo giorno è festeggiato in Nepal, dove conosciuto come Maghe Sakrati o Maghi, in Thailandia dove è chiamato Songkran e in Myanmar celebrato come Thingyan.

Buon Sankranti a tutti!

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(foto da Hindutan Times. Celebrazioni e raccolta dei fiori di loto)

Happy Gurpurab per Guru Govind Singh.

Oggi è il compleanno del decimo Guru del Sikhismo Gobind Singh e quindi questo giorno è di particolare importanza per i seguaci del Sikhismo.

Vi proponiamo questo post, interessante per comprendere la filosofia religiosa del Sikhismo e anche una parte della storia dell’India.

Gobind Rai si ritrovò alla guida dei fedeli all’età di soli nove anni . Dopo aver eseguito i riti funebri in onore del padre Shri Teg Bahādur Ji (1621- Guru 1664 -1675), nono Guru e secondo martire dei Sikh ucciso dal rigido imperatore Mughal Aurangzeb (1658-1707), si ritirò in una cittadina nascosta fra i monti dove covò per anni propositi di vendetta e di riscatto per i suoi Sikh (discepoli).

Durante questo periodo si dedicò alle attività fisiche e studiò nel medesimo tempo la storia, il sanscrito, il persiano, la hindī, la panjabi e le rispettive letterature, traendone ispirazione e costruendosi solide basi su cui elaborare le importanti innovazioni che introdusse di lì a poco.

Promosse e praticò egli stesso, seguendo l’esempio di molti suoi predecessori, la caccia e altre attività fisiche e marziali.

Dopo alcuni anni di intensi conflitti con i Rajput , che alternativamente lo appoggiarono e lo osteggiarono, arrivando da un lato ad allearsi con lui contro i Mughal e dall’altro a dichiarargli apertamente guerra proprio grazie all’alleanza con l’imperatore, il Guru tornò ad Anandpur (un piccolo villaggio fondato dal padre), dove approfittando di un lungo periodo di quiete di 12 anni, poté dedicarsi alla riorganizzazione delle proprie forze, munendo in primo luogo Anandpur di ulteriori difese e facendo costruire una catena di fortezze ininterrotta in territorio Rajput.

Riconoscendo nell’ignoranza la causa principale dell’abbattimento morale della sua gente si dedicò anche alla promozione della cultura. Egli stesso conosceva come si è visto le lingue più importanti del tempo ed ora si adoperò per farle conoscere e studiare al maggior numero di persone possibile, inviando a tale scopo cinque discepoli a Benares a studiare il sanscrito e i testi della mitologia indù .

I suoi studi gli avevano fornito le basi per comprendere appieno il proprio tempo e gli strumenti per portare a termine con successo la missione che si era prefissato. Si trattava ora di applicare le proprie conoscenze ed infondere coraggio e fiducia al buon esito della missione nella massa dei fedeli, abituati da secoli a sottostare ad ogni discriminazione senza levare alcuna protesta e da ciò minati nella fiducia in se stessi e nella possibilità di un cambiamento.

Guru Gobind quindi tradusse e fece tradurre dal sanscrito in panjabi molti miti e storie edificanti in cui si esaltava il coraggio e l’eroismo. Dotato di talento per la poesia, scrisse egli stesso molti inni in cui esponeva il proprio pensiero in accordo con quello di Nanak .

In particolare riconobbe il pericolo che derivava dall’idolatria, ancora molto diffusa fra gli indù, e sottolineò l’unicità di Dio, di cui egli era l’inviato, umile servitore. A tale proposito condannò con fermezza ogni forma di idolatria per la propria persona.

Cosciente dell’impossibilità di successo di un movimento puramente politico anti-mughal e dei segni di decadenza che mostrava la “monarchia religiosa”, prese misure volte alla riorganizzazione della comunità.

In primo luogo identificò le principali cause di decadenza: l’ereditarietà della carica, con le conseguenti lotte di successione, aveva ormai reso il Guru del tutto simile ad un contemporaneo monarca (anche dal punto di vista di una pronunciata rilassatezza morale e dei costumi); l’istituzione dei masand (spesso veri e propri signorotti locali che si arricchivano presentandosi come interpreti del volere del Guru) e la riscossione delle imposte a loro demandata erano un’altra grave causa di malcontento nella popolazione vessata.

Gobind non perse tempo in mezze misure e le eliminò risolutamente entrambe. Abolì in blocco i masand, pur cosciente del rischio di impoverimento cui andava incontro la comunità intera, privata dell’unico mezzo di sostentamento, e presentò ai fedeli il compito di fare offerte volontarie e prendersi cura della comunità come un proprio bene e non perché costretti da qualcuno.

L’altra causa di decadenza – la monarchia religiosa ereditaria – era certamente più complessa da riformare o eliminare e necessitava di qualcosa che potesse assumerne le funzioni e le responsabilità.

All’inizio del 1699, Guru Gobind Rāi invitò tutti i fedeli a recarsi in pellegrinaggio ad Amritsar per la grande festa annuale, richiedendo loro esplicitamente di partecipare all’evento con la barba ed i capelli non tagliati.

Il primo giorno del mese di Baisakh, durante il grande raduno, si presentò all’auditorio con una spada in pugno, chiedendo che chi era pronto ad immolarsi per lui gli offrisse la testa in sacrificio. Il silenzio scese sugli astanti. Alla terza ripetizione della richiesta un uomo si fece avanti. Gobind lo condusse dietro una tenda, da cui uscì poco dopo con la spada insanguinata in pugno. Per altre quattro volte ripeté la medesima richiesta e ogni volta un fedele si offrì un sacrificio. Al termine il Guru uscì dalla tenda con i cinque e proclamò che coloro che si erano mostrati pronti ad immolarsi per lui erano i suoi Panj Pyare (i cinque beneamati), ed avrebbero costituito il nucleo da cui sarebbe sorto il khalsa, la comunità di Santi-Soldati pronti a battersi fino alla morte per far trionfare il dharma sull’adharma.

Istituì un nuovo rito, mescolando dello zucchero a dell’acqua con una spada a doppio taglio, ed aspergendo i cinque con l’amrata così ottenuto. Subito dopo chiese di essere battezzato con lo stesso rito.

All’entrata nel khālsā tutti dovevano rinunciare alle proprie precedenti occupazioni per quella di soldato, alla propria famiglia per abbracciare quella del Guru, a tutti i riti salvo quelli previsti dal Gurū, alla propria fede per quella del Sat Guru.

Tutti gli uomini, entrando nel khalsa, aggiungevano inoltre al proprio nome quello di Singh (Leone) e tutte le donne quello di Kaur (Principessa, Leonessa), nomi dei nobili Rajput in forte contrasto con gli umili nomi castali che portava allora gran parte dei fedeli.

In assenza del Gurū le decisioni dei Panj Pyare sarebbero state considerate equivalenti al volere del maestro, spiritualmente presente nell’assemblea.

Chi faceva parte del khalsa era poi tenuto a portare cinque simboli (le cosiddette cinque “K”), ognuno volto a sottolineare un aspetto particolare dell’essere santi-soldati.

Il simbolo più importante erano i capelli e la barba intonsi (keś), mentre gli altri ne completavano l’estensione semantica.

L’uso di non tagliare barba e capelli è in voga da tempo immemorabile presso gli asceti indiani, come simbolo di rinuncia alle illusioni mondane, e pare assai probabile che tutti i Guru Sikh da Nanak in poi portassero questo simbolo di santità. Quindi la decisione di renderlo obbligatorio per tutti gli appartenenti al khalsa non sorprese in modo particolare i Sikh, che evidentemente vi erano già adusi.

L’innovazione di Gobind risiede nell’aver voluto sottolineare come tutti gli appartenenti al khalsa fossero dei santi al servizio di Dio, pronti a prendere le armi in difesa del dharma, contro i mali del mondo: dei Santi-Soldati (sant-sipahi).

Il valore di un soldato si misura proprio nel suo essere costantemente vigile e pronto a sguainare la spada ed offrire in sacrificio la propria vita, ma solo nel momento del bisogno, quando ogni altra strada sia stata preclusa e l’ adharma rischi di trionfare.

Gli altri simboli sono facilmente spiegabili partendo da questi presupposti, e sono tutti relativi alla occupazione di Santo-Soldato che i Sikh abbracciavano entrando nel khalsa: così il kangha (pettinino di legno) serve a mantenere puliti ed in ordine i lunghi capelli nascosti sotto il turbante e a ricordare la necessità di essere puri, nella vita come in battaglia.

Il kach, i comodi e semplici pantaloni usati dai guerrieri del tempo, andavano a sostituire la graziosa, ma assolutamente poco pratica in battaglia, dhotī.

L’uso di portare una spada (kirpan) è ovviamente legato a filo doppio con l’essere un sant-sipahi e non sembra necessitare di particolari spiegazioni.

Il simbolo che presenta qualche maggiore difficoltà di interpretazione è il kara, il braccialetto di ferro. Apparentemente non connesso con l’arte della guerra, aveva la sua utilità pratica in battaglia nel difendere il braccio dai colpi e pare possibile che derivi dall’uso indù di cingere i polsi dei guerrieri con nastri benaugurali prima di andare in battaglia. Il ferro sembra anche riportare alla mente la semplicità che doveva ispirare la vita di ogni Sikh, in contrasto con l’uso contemporaneo di adornarsi con splendenti e costosi gioielli in metalli preziosi.

Ogni appartenente al khalsa era poi tenuto a rispettare quattro regole (rahat): il divieto di tagliare barba e capelli (evidentemente una ripetizione del keś), il divieto di assumere tabacco ed altre sostanze intossicanti, il divieto di mangiare animali uccisi per dissanguamento (come era l’uso musulmano) ma solo uccisi da un colpo netto, il divieto di intrattenersi con donne musulmane.

Infine, a sancire e definire inequivocabilmente la nuova identità Sikh, Gurū Gobind Singh prescrisse un nuovo saluto: Wah guru Ji ka khalsa, Wahe guru ji ki fateh.

Con l’istituzione del khalsa, Gurū Gobind Singh aveva creato la struttura adatta a sostituire la monarchia ereditaria al momento della sua morte.

Su basi democratiche aveva brillantemente sostituito tutte le funzioni temporali del Gurū, demandandole a una assemblea di cinque uomini pii (molto simile al pancayat indù di cui evidentemente era una rielaborazione), e al gurumata, il consiglio cui tutti partecipavano di diritto con l’entrata nel khālsā, convocato per tutti i casi di vitale importanza.

Si preoccupò di sottolineare l’eguaglianza di tutti gli uomini e di dar loro coraggio e fiducia nelle possibilità di un movimento compatto e riuscì in questo intento grazie alla forza dei simboli che scelse e all’intelligenza con cui li presentò ai fedeli: Singhil Leone, fino ad allora un nome castale, diveniva l’unico cognome per tutti gli appartenenti al khalsa, tutti leoni pronti a battersi fino alla morte. Gli umili cognomi fino ad allora usati dalla maggioranza dei fedeli erano rimpiazzati da un unico nobile cognome, che portava con sé altissime responsabilità .

Sempre per l’elevazione spirituale dei discepoli si adoperò affinché nessuno si sentisse più in basso degli altri a causa della propria occupazione (ciò che avrebbe reso l’uguaglianza conferita dal cognome e dall’appartenenza al khalsa puramente formale).

Riconoscendo l’importanza del guadagno e del modo di procurarselo proibì la carità e tutti i lavori umilianti e decretò che occupazioni degne erano l’agricoltura, il commercio, le professioni di penna e, ovviamente, le professioni di spada.

A tutti questi cambiamenti corrispose un’inversione di tendenza nella composizione sociale del Panth (letteralmente: sentiero, via; quello che in occidente è conosciuto come Sikhismo è in india il Sikh-panth).

I khatrī, alta casta urbana dalle cui fila provenivano i masand, che fino ad allora avevano costituito la spina dorsale del Panth e ne avevano certamente determinato alcuni aspetti relativi alle occupazioni e al modo di vita, vennero gradualmente rimpiazzati da una maggioranza di jaṭ, bassa casta rurale di agguerriti combattenti, che formerà il nerbo dell’esercito Sikh.

I Rajput delle montagne assistevano con crescente preoccupazione alle operazioni del Guru e decisero quindi, consci che se non avessero fatto nulla la furia dei Mughal si sarebbe abbattuta su di loro, di cercare di arginare il crescente potere del Guru.

Dapprima tentarono di provocarlo ma alla sua determinazione risposero assediando Anandpur. In un primo tempo i Sikh ruppero ripetutamente il cordone che cingeva la città, alla lunga divenne però complicato reperire regolarmente le provviste ed essi si spostarono in un piccolo villaggio, Nirmoh, dove si scontrarono con il Raja di Bilaspur (sempre alla testa delle operazioni contro il Guru) sconfiggendolo.

I capi delle montagne realizzarono allora che la forza dei Sikh era al di là delle proprie possibilità e chiesero dunque l’aiuto dell’Imperatore. Le loro forze congiunte attaccarono i Sikh a Nirmoh, tentando invano di assediarli, e quando il Guru si ritirò con i suoi a Basali, Bilaspur tentò un’ultima volta di annientarlo.

Duramente sconfitto fu costretto a scendere a patti con Gobind, che tornò poi ad Anandpur dedicandosi al pressante compito di fortificarla in modo da poter resistere agli attacchi che l’attendevano.

Di lì a poco le preoccupazioni dei Raja causarono un nuovo invio di truppe imperiali contro Anandpur, che venne accerchiata. Questa volta l’assedio fu lungo e infine si rivelò stremante da entrambe le parti; molti abbandonarono il Guru, che rimase con un manipolo di uomini. Ci fu un tentativo di accordo, immediatamente infranto dagli imperiali; Guru Govind Singh consegnò ad un brahmano la madre con i due figli minori e si ritirò – protetto da una retroguardia che fu sterminata fino all’ultimo uomo – verso Sud a Chamkaur, dove decise di resistere fino alla fine con i quaranta che erano rimasti con lui.

Quando ormai tutto sembrava perso un fedele che assomigliava al Guru indossò i suoi vestiti ed uscì sul campo di battaglia, dando a Gobind il tempo di fuggire e di raggiungere Jatpura. Qui egli apprese della morte dei due figli minori e della propria madre – a quanto riferiscono le cronache sikh traditi dal brahmano cui erano stati affidati – per mano del governatore di Sirhind, Wazir Khan.

Migliaia di Sikh si strinsero intorno al Guru e gli offrirono il proprio aiuto per vendicare l’orrendo crimine. Saputo che Wazir Khan stava marciando contro di lui ed ormai forte dell’aiuto dei suoi, Gobind si lanciò sugli inseguitori sconfiggendoli a Khidrana, che da allora fu rinominata Muktsar (lo Stagno della Salvezza).

Guru Gobind Singh si ritirò dunque a Talwandi Sabo, dove con l’aiuto del discepolo Mani Singh si dedicò alla redazione definitiva del Dasven Pādśāh kā Granth (Il Libro del Decimo Imperatore), o Dasam Granth, in cui vennero raccolti i suoi inni.

Il 2 marzo 1707 morì l’Imperatore Aurangzeb.

Immediatamente si aprì la lotta per la successione ed il Guru si schierò dalla parte di Bahadur Shah (ricordando l’aiuto da questi offertogli precedentemente) inviando un distaccamento di cavalieri che parteciparono alla battaglia di Jajau del giugno 1707. Gobind accompagnò dunque il nuovo Imperatore nella sua marcia nel Deccan per sopprimere la ribellione del fratello Kam Baksh, pur non prendendo parte ad alcuna battaglia.

Arrivarono così sulle rive della Godavari e piantarono il campo nel villaggio di Nanded nel settembre 1707.

Una notte due Pathan si intrufolarono nella tenda del Guru e lo accoltellarono . La grave ferita fu suturata e parve che il Guru potesse sopravvivere, ma i punti esplosero dopo poco.

Guru Gobind Singh raccolse allora i fedeli attorno a sé e diede disposizioni: la successione dei Guru terminava con lui.

Da allora in poi la guida spirituale di tutti i Sikh sarebbe stato lo Sri Guru Granth Sahib, il libro che raccoglieva gli inni di lode dei primi nove Maestri e quelli di alcuni mistici indù e musulmani che, come Guru Nanak, riconoscevano di adorare, sempre e comunque e al di là di ogni divisione operata dall’uomo, lo stesso Dio.

Morì il 7 ottobre 1708.

Il post è stato integralmente tratto dal sito http://www.gatka.eu/storia-e-filosofia/guru-gobind-singh/

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