impressioni di thimpu. bhutan.

lo dzong di Thimpu

Finalmente in Bhutan! Il volo è arrivato a Paro, con un atterraggio, a 2.200 metri di altitudine, solo per piloti provetti ed al centro di una vasta e fertile vallata punteggiata da abitazioni rurali e risaie. La guida, con la macchina, mi aspetta e, dopo 54 chilometri, sopraggiungiamo a Thimpu, dal 1961 capitale del Regno. Si, questo è un regno, con un re ed una regina, Jetsun Pema Wangchuck e la sua consorte, proprio come nelle favole. E da favola è anche il clima sociale, l’educazione civica, l’approccio alla vita e all’ambiente. In effetti, è chiamato il Paese della Felicità ed ha addirittura un ministero che si dedica a questo aspetto!

Thimpu non è certo una megalopoli come le altre capitali del mondo però, tra queste, è la terza per altitudine (2648 m.s.l.m.), collocata com’è in un fantastico scenario himalayano con vette fino ai 3800 mt. di altezza, in una stretta valle plasmata dal fiume Raidak, piena di boschi e foreste. E’ da poco iniziata la primavera ma forme tondeggianti di neve residua ed il fiume gonfio di acqua piovana invernale testimoniano la durezza di una stagione passata che, tuttavia, difficilmente porta temperature sotto i tre gradi. Qui, come in tutto il Paese, tutto parla di buddismo: le ruote di preghiera, le bandierine colorate con le preghiere al vento, l’architettura delle abitazioni. Gli edifici, in pietra e terra, sono decorati da cornici di legno e disegni religiosi (vietato l’uso di chiodi o barre di ferro) che rispecchia antiche tradizioni preservate da un decreto reale che garantisce lo stile anche alle nuove costruzioni. Siamo lontani dalle strade caotiche e rumorose della vicina India; gli abitanti della città sono davvero pochi e disciplinati, circa 115.000 non (ancora?) contaminati dalla forma mentis della stragrande maggioranza di mondo che ha intorno. Il Bhutan ha aperto al turismo nel 1974, ogni anno centellina gli ingressi ai viaggiatori, e solo nel 1999 sono entrati nelle case la tv ed internet. A Thimpu si respira un’aria rilassata, tutto procede secondo ritmi naturali all’uomo, uomini e donne sono vestiti con abiti tradizionali in gho e kira e i bambini vanno a scuola con la loro bella divisa. L’aria è pulita e fresca, la luce è chiara, non vedo ciminiere da cui esce chissà quale sostanza industriale. Non esiste neppure un semaforo, non un clacson o una imprecazione. Queste le mie prime impressioni. Da viverci, se solo fosse consentito. Il giorno seguente mi coccolo, passeggiando per la strada principale di Thimpu, Norzin Lam, sbirciando nei negozi ricchi di artigianato colorato, ciotole di legno, tessuti ed oggetti della tradizione buddista di gusto semplice e misurato e per questo ancor più bello. Mi dicono che, nel fine settimana, la piazza principale si anima di un popolare mercato che, tra le altre cose, vende frutta, verdura e burro di yak, dove la gente va a rifornirsi. Peccato, il giorno del mercato io sarò già a Paro.

Nel pomeriggio, mi reco quindi a visitare i monumenti religiosi più conosciuti, dando la precedenza a quello maggiormente noto a chi ama questi posti, il Tashichoedzong, la “Fortezza della Gloriosa Religione”, con le sue incantevoli sommità dorate, dove convivono religiosità e buon governo che qui, in Bhutan, sono praticamente indistinti; infatti, questo bianco (risaltato dal legno) e maestoso dzong, traduzione di fortezza, è centro religioso per i lama e, dal 1968, centro politico-amministrativo del Paese, che ospita anche la sala del trono e gli uffici del re del Bhutan. Un bell’esempio di convivenza spirituale e temporale. Il fiume, che gli scorre accanto, contribuisce all’incanto di questo luogo più volte attentato da terremoti ed incendi ma sempre ricostruito. E’ ora di entrare nella fortezza, salendo una scalinata (non quindi dall’ingresso principale che è riservato al re) valorizzata da affreschi con maestri spirituali e divinità tantriche.

Il cortile interno, circondato da templi, abitazioni dei monaci e uffici governativi, è immenso e mi fa desiderare di tornare in occasione di uno dei Tshechus che si tengono in Bhutan e, ovviamente, anche qui, a Thimpu, dove si svolge per tre o quattro giornate, tra settembre ed inizio ottobre e che è tra i più importanti perché vi partecipa la famiglia reale. In realtà, da tempo. le rappresentazioni si svolgono all’esterno sul lato nord del Palazzo. Assistere a queste grandi manifestazioni religiose è sempre un’esperienza perfetta per rimettersi in pace con se stessi e con gli altri ed è proprio questo il loro scopo, fortificare i legami sociali ed impartire dettami di compassione verso gli esseri umani sensibili. E poi, i monaci in abiti cerimoniali che, al ritmo della musica tantrica, eseguono le loro danze mistiche (cham) con il viso coperto da particolari maschere.

Festival di Thimpu

Del resto, Thimpu nasce, con poche case sparse, proprio attorno a questo dzong, prima di espandersi piano piano lungo le rive del fiume verso nord fino agli anni 70, periodo di accelerata crescita urbana, quando il Paese si è aperto al mondo circostante.

La giornata è terminata. Domani visiterò uno dei chorten più famosi, il Memorial Chorten e, questa volta, dovremo dirigerci verso sud. Risale al 1974, quando è stato costruito in onore del terzo Capo di Stato della dinastia Wangchuck. Chorten è il nome tibetano che i buddisti danno ai loro stupa e, normalmente, hanno una forma a bulbo o a campana e custodiscono reliquie umane; quello di Thimpu, con la sue guglie dorate, quella grande e quella piccola, ha invece una forma quasi piramidale e conserva, all’interno, solo una foto del sovrano che desiderava costruirne uno a rappresentare la mente del Buddha.

Memorial Chorten

Come in tutti i chorten, i fedeli fanno la kora, cioè camminano in senso orario intorno ad esso, seguendo il percorso del sole, per portare energia positiva. Con le rappresentazioni dei tre bodhisattva protettori del Buddha convivono, quasi fossero blasfeme, ma ovviamente non è così, le immagini di divinità in atti erotici con le consorti, tratte dalla tradizione tantrica secondo cui il sesso diventa fonte di energia spirituale, atto di sublimazione, estasi divina.

Ed io, stasera, mi sento particolarmente pura, protetta da un’aura quasi visibile, propensa al sonno più profondo di cui mai abbia goduto.

Testo by PassoinIndia Tours

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Lathmar Holi a Barsana e Nandgaon nell’Uttar Pradesh

Le celebrazioni Holi a Nandgaon, Barsana, nell’Uttar Pradesh, iniziano una settimana prima delle vere celebrazioni di Holi. Quest’anno le celebrazioni di Lathmar Holi sono state ieri, il giorno 11 di marzo 2022.

Lathmar Holi è celebrato principalmente nelle città di Barsana e Nandgaon, situate vicino a Mathura nell’Uttar Pradesh.

La tradizione del Lathmar Holi è legato alla storia mitologica di Radha e del Signore Krishna. Si ritiene che il dio Krishna, che viveva a Nandgaon, fosse solito portare i suoi amici, nel villaggio dove viveva Radha con le sue amiche, chiamate Gopi, per giocare a holi tutti insieme. Krishna, che era noto per essere amico di tutte le “Gopi”, applicò, per scherzo, del colore sul viso di Radha. Ma le sue amiche e le anziane del paese si offesero e, con dei bastoni di bamboo, lo cacciarono da Barsana,

Lathmar Holi rimane quindi in sintonia con questo racconto ed è una ricreazione di questo episodio della vita di Lord Krishna. Ogni anno, gli uomini di Nandgaon visitano la città di Barsana e le donne li scacciano, giocando con bastoni (cioè lathi) e colori.

Gli uomini che vengono da Nandgaon infastidiscono le donne cantando canzoni, provocandole. Le donne recitano la parte delle Gopi e lanciano bastoni contro gli uomini in toni di divertimento e scherzo. Agli uomini sfortunati che finiscono nelle mani delle donne di Barsana vengono fatti indossare abiti femminili e vengono obbligati a ballare in pubblico.

Lo spruzzo di colori aumenta l’eccitazione e la gente ricorda Lord Krishna e la sua amata Radha cantando “Shri Krishna” e “Shri Radhey”. Il giorno successivo le femmine di Barsana visitano Nandgaon e i festeggiamenti continuano. C’è anche l’usanza di consumare il thandai, una bevanda tradizionale a base di latte e erbe.

La grande notte di Shiva

Happy Maha Shivaratri

passoinIndia

Mahashivratri, (altrimenti detto Shivratri o “grande notte di Shiva) è il nome della festa, che quest’anno cade oggi, molto importante per gli induisti, dedicata a Shiva, una delle divinità indu che formano la Trinità (Vishnu, Brahma, Shiva). Sono varie le storie mitologiche cui si attribuisce l’origine di questa festa. Una delle leggende più popolari racconta che Shivaratri è il giorno in cui Shiva e Parvati si sono uniti in matrimonio e pertanto questa festa è una celebrazione della loro unione divina; un’altra, che Lord Shiva abbia eseguito in questa notte la Tandava, ovvero la danza che descrive la primordiale creazione, conservazione e distruzione dell’universo; un’altra ancora, secondo i Veda, racconta che in questa notte Shiva si sarebbe manifestato per la prima volta sotto forma di Linga (Lingum) (fallo) per rendere l’uomo consapevole della presenza di un tempo eterno, senza inizio né fine. Una delle storie più popolari…

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Quando la pittura diventa realtà !

Shruti Haasan, Samantha Akkineni, Ramya Krishnan e altre donne posano come soggetti dei dipinti iconici di Raja Ravi Varma. I dipinti sono stati ricreati da G.Venket Ram Photography per il calendario 2020 del Naam.

Naam Charitable Trust di Suhasini, lavora per aiutare le donne single svantaggiate. Anche alcune di queste donne sono state incluse nel calendario.

my name is khan

C’è un film di Bollywood dell’anno 2010, uscito anche nelle sale italiane, campione di incassi (e di costi) in India. Innanzitutto perché il registra è Karan Johar, una garanzia cinematografica e l’attore principale è il noto e amatissimo Shah Rukh Khan (che significa “viso da re”) che da sempre recita in quasi tutti i suoi progetti.

E’, questa, una storia che ricorda quella del celeberrimo Forrest Gump. Innanzitutto perché è ambientato in India ma anche negli Stati Uniti, anche se non poche sono state le difficiltà ad ottenere i permessi a “girare”, e racconta una storia particolare. Quella del musulmano Rizwan Khan che, lasciata Mumbai, vive in America. E’ il momento dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Garrick, suo amico con moglie e figlio, parte per la guerra in Afghanistan….

Dopo alcuni episodi di violenza che interessano da vicino la sua esistenza, fino ad allora tranquilla, riflette sulle parole della moglie: il problema è il suo cognome. Così Rizwan parte per incontrare l’ex Presidente George Bush e poi il nuovo Presidente Barack Obama. Ma Rizwan viene interrogato come sospetto terrorista e poi rilasciato dopo una campagna mediatica da parte di alcuni studenti reporter indiani che sostengono la sua innocenza rivelando i suoi tentativi di informare l’FBI sulla divulgazione terrorista, alla moschea, di Faisal Rahman. Riuscirà Khan ad incontrare il Presidente?

E’ una storia di razzismo, di negata integrazione e di pregiudizio, amplificati dalla scia di terrore lasciata da quel grave episodio che ha cambiato il mondo e la percezione dell’altro. Ma Khan, che anche soffre della sindrome di Asperger, vuole gridare il suo nome fortemente, ricordando quello che sua madre gli disse. “Ricordati sempre una cosa: al mondo esistono due categorie di persone; quelle buone che fanno cose buone e quelle cattive che fanno cose cattive. Questa è l’unica differenza che esiste tra le persone.”

Due sole note: 1) All’ attore Aamir Bashir fu negato il visto per gli Stati Uniti e dovette essere sostituito 2) Le riprese che avrebbero dovuto essere girate in una moschea di Los Angeles, negati i permessi, furono alla fine realizzate in una moschea costruita vicino a Mumbai.

Un film da vedere.

fede ad alta quota (HEMKUND SAHIB)

Hemkund Sahib, in Uttarakhand, India, è un luogo di pellegrinaggio molto venerato per la comunità sikh. Si ritiene che Guru Gobind Singh ji (1666–1708), il decimo guru dei Sikh, abbia trascorso qui 10 anni in meditazione. Ciò che aumenta la popolarità del sito religioso è la sua splendida posizione a circa 4160 metri di altitudine e circondata dall’Himalaya Garhwal. Hemkund Sahib è infatti incastonato tra le vette dell’Hemkund Parvat.

Il nome “Hemkund” significa lago di neve le cui acque per buona parte dell’anno sono ghiacciate. Vi si trova un gurudwara, costruito negli anni 60, visitato da un gran numero di devoti giunti da ognidove prima che chiuda per la stagione invernale da ottobre ad aprile quando i pellegrini sikh arrivano al gurudwara per aiutare a riparare il sentiero dai danni subiti dall’inverno gelido; il loro è un servizio disinteressato (Kar seva) secondo quel principio di assistenza reciproca che pervade la religione sikh.

Il gurudwara ospita anche un lago panoramico dove i devoti fanno un bagno considerato sacro.

Sierra Exif JPEG

Attorno, sulle sette cime montuose, sventola il Nishan Sahib, la bandiera triangolare in stoffa e simbolo dei Sihk, proprio quella che sventola sopra ogni gurudwara e che riporta il Khanda, formato da due spade che si incrociano e tra le quali si trova un pugnale e un disco.

Anche per l’Induismo questo luogo è importante perché si ritiene che un tempo il luogo fosse un luogo di meditazione per il fratello di Lord Rama, Lakshmana ed infatti vicino vi è un tempio dedicato a Lord Lakshmana che può essere visitato anche durante un viaggio a Hemkund Sahib.

Vicino a Hemkund Sahib si trova anche la famosa Valle dei Fiori raggiungibile da Ghangharia, da dove i sentieri per Hemkund Sahib e Valley of Flowers divergono. Questo Parco Nazionale d’alta quota è noto per la sua ricca varietà di flora che è in piena fioritura durante i mesi dei monsoni e che offre uno spettacolo naturale meraviglioso.

Un modo per raggiungere il tempio è partire da Delhi con il treno e scendere ad Haridwar dove prendere un autobus fino a Govindghat via Rishikesh. In auto la distanza da Delhi a Govindghat è di circa 500 chilometri e richiede circa 18 ore di viaggio. Il mezzo più veloce è l’uso di un elicottero privato che impiega 5 minuti ad andare da Govindghat e Ghangria.

l’interno del gurudwara

Testo by PassoinIndia

Bellezza e sacrificio. L’offerta dei capelli agli dei

Quanto sono belli, lucidi e fluidi i capelli delle donne indiane! Quale donna non ha mai desiderato averli sulla propria testa? E’ noto che chi non ne è naturalmente dotata può ricorrere a parrucche od extension, l’allungamento artificiale dei propri con altri artificiali o naturali. Alcune si saranno anche domandate da dove arrivino.

Le donne indiane sanno di possedere sotto questo aspetto un dono naturale di bellezza, li curano moltissimo, li adornano, ne fanno cornice preziosa dei loro stupendi abiti e sono probabilmente proprio i capelli a conferire loro quella innata eleganza e femminilità che non fa distinzione di casta.

Ebbene, c’è un luogo (a dire il vero più di uno ma questo è il più famoso), in India, dove le donne si privano della propria chioma per offrirla alla divinità, secondo una antica tradizione che si chiama Mokku. Succede, fin dai tempi antichi, al tempio di Tirupati Balaji, in Andra Pradesh, anche chiamato Bhuloka Vaikuntham, che significa “dimora di Vishnu sulla terra”.

Qui, ogni giorno, migliaia di persone donano i propri capelli. La divinità del tempio è Lord Venkateswara, un avatar (incarnazione) del Dio Vishnu.

Il tempio, la cui costruzione è probabilmente iniziata nel 300 d.C. ,è il più ricco dell’India grazie alla rivendita di capelli e alle donazioni, anche in oro e gioielli, fatte dai devoti alla divinità. Per gli induisti, queste donazioni consentono a Vishnu di ripagare il debito contratto nei confronti di Kubera ed infatti, come sempre, vi è una lunga storia, al proposito, nelle scritture indu. La mitologia racconta (qui, in breve, perché la storia è davvero molto più lunga) che quando Vishnu nacque sulla terra per cercare la sua Lakshmi che lo aveva lasciato, si incarnò in una donna di nome Vakula Devi assumendo il nome di Lord Srinivasa; egli, che viveva in un formicaio, incontrò un giorno Padmavati, figlia di un re Chola nonché reincarnazione sulla terra della dea Lakshmi, di cui, ricambiato, si innamorò. Ottenne il consenso per il matrimonio dagli dei e i denari per la cerimonia da Kubera, il dio della ricchezza che gli concesse un prestito da rimborsare con tanto di interessi entro la fine del Kaliyuga (nell’induismo per Yuga si intende un’era e la Kaliyuga è un’era oscura, di grande decadenza)

I pellegrini, quindi, aiutano il Dio a rientrare dal proprio debito con le loro preziose offerte, capelli compresi. Secondo stime, ogni anno il tempio rivende 75 tonnellate di capelli, per un giro di affari di circa 140 milioni di euro all’anno, il cui utile dovrà essere devoluto in opere di assistenza e beneficienza.

Le donne lasciano così la propria vanità facendosi operare la tonsura, secondo quel rituale che un tempo, ed ora abolito, era anche proprio della cristianità e consisteva nel taglio di cinque ciocche di capelli effettuato dal vescovo, a simboleggiare la rinuncia al mondo da parte del chierico novizio.

Tutto, nell’edificio e locali annessi, è ben organizzato ai fini della tonsura (gratuita): le prenotazioni tramite i gettoni generati dai computer, le sale, le file, il darshan (l’incontro faccia a faccia con la divinità), i moltissimi rasatori (più di mille), gli antisettici per la disinfezione delle chiome, la fornitura di acqua calda per i risciacqui e le strutture ricettive.

Ci sono tagli e capelli di tutti i tipi, fino alla rasatura completa della testa. I capelli più pregiati sono i capelli cosidetti Remy, i migliori perchè raccolti tra loro dal lato della radice e mantenuti tali durante tutta la lavorazione. Se cercate “capelli Remy” in internet, Amazon ve ne offre in gran varietà (!).

Anche la lavorazione dei capelli segue regole precise e anche in questa fase sono molti gli addetti che si occupano di lavare e confezionare una vera e propria montagna di capelli in attesa di essere rivenduti.

L’ingresso al tempio è riservato ai soli induisti ma anche solo l’esterno vale una visita. E’ uno di quei luoghi, come ce ne sono tanti in India, dove si respira una spiritualità autentica.

testo by PassoinIndia

BHARATANATYAM

Bharatanatyam, una forma di danza classica indiana preminente, presumibilmente la più antica eredità di danza classica dell’India, è considerata la madre di molte altre forme di danza classica indiana. Convenzionalmente una danza solista eseguita solo da donne, iniziò nei templi indù del Tamil Nadu e alla fine fiorì nel sud dell’India. La base teorica di questa forma risale a ‘Natya Shastra’, l’antico testo sanscrito indù sulle arti dello spettacolo. Una forma di aneddoto illustrativo di temi religiosi indù e idee spirituali emozionati da ballerini con eccellenti giochi di gambe e gesti impressionanti, il suo repertorio di performance include nrita, nritya e natya. Gli accompagnatori includono un cantante, la musica e in particolare il guru che dirige e conduce l’esibizione. Continua inoltre a ispirare diverse forme d’arte tra cui dipinti e sculture a partire dalle spettacolari sculture del tempio dal VI al IX secolo d.C.

Secondo la tradizione indù il nome della forma di danza deriva dall’unione di due parole, ‘Bharata’ e Natyam’ dove ‘Natyam in sanscrito significa danza e ‘Bharata’ è un mnemonico che comprende ‘bha’, ‘ra’ e ‘ta’. che rispettivamente significa ‘bhava’ che è emozione e sentimenti; ‘raga’ che è melodia; e ‘tala’ che è ritmo. Quindi, tradizionalmente la parola si riferisce a una forma di danza in cui sono espressi bhava, raga e tala. La base teorica di questa forma di danza, che viene anche chiamata Sadir, risale all’antico teatrologo e musicologo indiano, il testo indù sanscrito di Bharata Muni sulle arti dello spettacolo chiamato “Natya Shastra”. La prima versione completa del testo fu presumibilmente completata tra il 200 a.C. e il 200 d.C., tuttavia tale lasso di tempo varia anche tra il 500 a.C. e il 500 d.C. Secondo le leggende, il Signore Brahma ha rivelato Bharatanatyam al saggio Bharata che ha poi codificato questa forma di danza sacra in Natya Shastra. Il testo che consiste di migliaia di versi strutturati in diversi capitoli divide la danza in due forme specifiche, vale a dire “nrita” che è pura danza che comprende finezza di movimenti e gesti delle mani, e “nritya” che è danza espressiva solista che comprende espressioni. Secondo la studiosa russa Natalia Lidova, “Natya Shastra” chiarisce diverse teorie delle danze classiche indiane tra cui quella della danza Tandava, posture in piedi, passi di base, bhava, rasa, metodi di recitazione e gesti.

MAI bHAGO LA GUERRIERA PERFETTA DELL’ESERCITO DEL KHALSA

Nella storia punjabi c’è una donna che tutti i sikh ricordano. E’ Mai Bhago, conosciuta anche come Mata Bhag Kaur, la prima donna sikh a combattere su un campo di battaglia nell’esercito di Khalsa. La storia, vera, prende forma nel 1704 quando il decimo Guru Sikh, Guru Gobind Singh Ji e il suo esercito di Khalsa si erano rifugiati nella fortezza di Anandpur per sfuggire ai Moghul, guidati dal terribile imperatore Aurangzeb, che avevano attaccato la città. Aurangzeb odiava i Sikh la cui religione predicava (e predica) una giustizia sociale per tutti, in netta antitesi con il suo modo dittatoriale di governare. Già nel 1675, Aurangzeb fece decapitare pubblicamente il nono Guru Sikh, Guru Tegh Bahadur Ji che aveva difeso dei Pandit (maestri) indù a Delhi costretti a convertirsi all’Islam contro la loro volontà e si era egli stesso rifiutato di rinnegare la sua fede.

Per lungo tempo, i Moghul premettero per entrare nella fortezza dove il cibo stava scarseggiando da mesi non potendo arrivare nuove scorte. Centinaia di Sikh deboli, stanchi e sfiduciati, guidati da Bhai Mahan Singh, decidero di lasciare il loro Guru e tornare alle loro case, nonostante il suo invito a rimanere. E così, mentre uscivano dalla fortezza, il Guru disse loro di sconfessarlo come loro guru attraverso una dichiarazione scritta (nota come bedawa) contenente l’impronta digitale di ogni disertore. Dopo questa richiesta, solo 40 Sikh si manifestarono dispositi a rinunciare ai loro titoli come Khalsa e solo loro, perciò, abbandonarono la fortezza tornando alle loro case nella regione di Majha.

Una donna venne a sapere, disgustata, della diserzione dei 40 uomini, nel 1705. Era Mai Bhago, una donna sikh del villaggio di Jhabal Kalan a Majha. Cavalcò per tutti i villaggi vicini, invitando le sue sorelle (le altre donne sikh) a prendere le armi al posto dei loro mariti. Disse ai 40 disertori che sarebbero stati più adatti a indossare i braccialetti delle mogli e sedersi a casa con i loro figli mentre le loro mogli avrebbero preso il loro posto uscendo a combattere per la giustizia sociale come veri sikh del Guru Gobind Singh Ji.

Dopo aver visto la devozione di Mai Bhago verso il Guru, i 40 uomini furono pieni di rimorso per il loro tradimento e così tornarono dal Guru a chiedere perdono. Il Guru Ji chiese loro e a Mai Bhago di frenare l’avanzata dei Mughal per avere il tempo di portare in salvo gli abitanti di Anandpur che viaggiavano con l’esercito di Khalsa. Mentre Guru Ji guidava gli abitanti di Anandpur Sahib, Mai Bhago e i 40 uomini restarono indietro e si accamparono a Khidrana. Ma l’esercito di 10.000 guerrieri moghul li attaccò nella battaglia di Muktsar il 29 dicembre 1705.

Mai Bhago ordinò ai 40 uomini di difendere un serbatoio d’acqua, unica fonte per miglia e miglia che avrebbe costretto i Mughal, impediti di attingervi, a ritirarsi. I 41 combatterono coraggiosamente per il loro Guru che arrivò a sostenerli lanciando un mare di frecce dall’alto. L’esercito Mughal alla fine si ritirò. I 40 uomini si erano riscattati agli occhi del loro Guru ma, feriti a morte in guerra, erano diventati martiri. (shaheeds). Quando il Guru arrivò sul campo di battaglia, espresse a Bhai Mahan Singh, che era in punto di morte, il suo perdono e il suo orgoglio per i valorosi 40 uomini. Bhai Mahan Singh sorrise e chiese al Guru di strappare il bedawa. Guru Gobind Singh Ji disse a Bhai Mahan Singh che mentre un Sikh può scegliere di lasciare il suo Guru, il Guru non volterà mai le spalle al suo Sikh. I 40 disertori del Guru divennero noti come Chali (40) Mukte (liberati). Mai Bhago fu l’unica a sopravvivere alla battaglia di Muktsar. Trovatala ferita, il Guru la guarì e la invitò ad arruolarsi nell’esercito di Khalsa come una delle cinque guardie del corpo personali di Guru Gobind Singh Ji, grazie al coraggio e alla lealtà da lei dimostrata al Guru.

Dopo la morte di Guru Gobind Singh a Nanded nel 1708, si ritirò a Jinvara, in Karnataka dove visse gli ultimi suoi giorni in meditazione. La sua capanna è oggi diventata un Gurudwara.

Una sala del gurudwara di Nanded, il Hazur Sahib, noto anche come Takht Sachkhand Sri Hazur Abchalnagar Sahib, è conosciuta con il nome di Bunga Mai Bhago.

By PassoinIndia Tours

IL TEMPIO NATO DALLA ROCCIA. IL KAILASA TEMPLE ALLE GROTTE DI ELLORA.

Ellora caves Maharashtra, India

Varrebbe la pena di recarsi in Maharashtra, ad Ellora, solo per visitare questo grandioso e particolarissimo tempio in stile dravidico, il Kailasa ( o Kailash), uno tra i più grandi della fede indu che prende il nome dalla montagna sacra dimora di Shiva. Secondo un’iscrizione lasciata a Ellora, la sua costruzione risalirebbe all’VIII° secolo per probabile opera del re Rashtrakuta Krishna I (regno 756-773). Evidenti successive aggiunte e modifiche fanno ritenere che più sovrani succedutisi nel tempo si siano dedicati alla sua costruzione e questo spiegherebbe anche la presenza di stili architettonici diversi tra cui quello Pallava e Chalukya. Il complesso del tempio è contrassegnato, tra i tesori di Ellora, come cave 16. E’, infatti, uno dei 34 templi rupestri, cioè costruiti su roccia, di fede buddista, giainista e indù, testimonianza di piena tolleranza religiosa, il cui insieme è noto come “grotte di Ellora”, dichiarate patrimonio mondiale dell’UNESCO nel 1983. Pensate che qui, per ben oltre 2 chilometri, queste meraviglie si appalesano una a fianco all’altra, scavate come sono su una roccia di basalto. Il Kailasa temple è stato realizzato scavando ed intagliando verticalmente, a tutti i livelli, dall’alto verso il basso una grande roccia di ben 400.000 tonnellate ed è il più grande tempio monolitico del mondo!

E’ nel VII° secolo che si comincia a realizzare templi in questa maniera, prima a Mahabalipuram nel sud dell’India e poi in tutto il Paese, come a Masrur nel nord, Damnar nel centro, Karugmalai nell’estremo sud, fino ad arrivare alla costruzione dei templi giainisti di Ellora. Sembra incredibile ma risultava infatti molto più economico in termini di lavoro e spese “ritagliare” la costruzione direttamente dalla montagna di roccia dove uomini scavavano dall’alto verso il basso senza uso di impalcature e gli scultori completavano l’opera con il loro magnifico lavoro.

Superata la porta di ingresso (gopura) rimango stupefatto dalle mura (prakaras), anch’ esse nascenti dalla roccia, che racchiudono il complesso su entrambi i lati. E’ impressionante, ci si sente piccoli piccoli e insignificanti.

Nel grande cortile incontro un piccolo mandapa e Nandi, il sacro toro bianco “veicolo” di Shiva, colui che lo accompagna in tutti i suoi spostamenti. Più avanti, un porticato di due piani decorato da nicchie e pannelli incisi con figure sacre indu, che nei templi induisti si chiama Nandi Mandapa (sala del culto) ed è di solito dedicato a danze e musica sacra; all’esterno, ai suoi fianchi, due enormi pilastri; al suo interno, in uno spazio di circa 324 mq, ben 16 colonne monolitiche.

Salgo al secondo piano del Padiglione Nandi e, percorrendo dei ponti in pietra da cui si ha una bella visione dall’alto sul complesso, raggiungo il livello superiore del gopuram di ingresso del santuario principale. Esso si erge su un alto podio di due parti, l’Adhisthana superiore e l’Upapitha inferiore, attorno al quale è scolpita una linea di grandi elefanti che sembrano sorreggerlo. Al piano superiore si accede, oltre che tramite i ponti in pietra dal Mandapa, anche salendo le scale (come salire la montagna sacra) ai lati del portico principale che, alla base, circonda la struttura. Il santuario è sormontato da una torre a piramide (vimana) di 32 mt. di altezza, che rappresenta la montagna sacra Kailah ed è di architettura tipicamente meridionale; sulla sua cima c’è una grande corona in pietra a forma di cupola. Il pinnacolo sovrastante (stupi, kalasha) è invece andato perduto. Entro nel Garbhagriha (sanctum sanctorum), il vero e proprio santuario, il grembo, fonte di vita, della sacralità del tempio. L’interno poco luminoso è dipinto con vari episodi del Ramayana e del Mahabharata e, nella sala centrale, si trova il lingam, altra forma in cui è adorato Shiva; sul soffitto, un grande fiore di loto.

L’invisibile linea verticale che congiunge il lingam al pinnacolo è interpretata come un asse dell’universo che collega la terra degli uomini al cielo degli dei.

Ogni volta che entro in un tempio mi riempio di sacro e percepisco il misticismo che invade questa complessa religione che è l’induismo. Esco e scendo. Attraverso nuovamente il ponte che collega il santuario principale e il nandimandapa ed incontro due enormi sculture di Shiva. Una è la sua rappresentazione (murti, la forma in cui un dio si trasforma) come gajasamhara, l’”uccisore dell’ elefante” di cui un demone prese le sembianze per terrorizzare i bramini in adorazione del lingam di Shiva; ma Shiva si avvolse nella sua pelle ed è cosi che viene talvolta raffigurato; questa storia è raccontata nel Kurma Purana ma ci sono altre versioni in merito; l’altra rappresentazione (murti) di Shiva è dakshina, il dio Shiva come insegnante (guru) di tutti i tipi di conoscenza, in atteggiamento di meditazione.

Non mancano figure del Vishnuismo ed altre divinità e neppure rappresentazioni erotiche Maithuna, termine sanscrito del tantrismo per indicare l’unione sessuale del maschio e della femmina che, se consacrata ovvero se dedicata al culto, diventa divina. La statua più importante resta quella del demone Rāvaṇa nell’atto di sollevare, nella sua eterna lotta contro Shiva, il monte himalayano Kailasa. Questa montagna oggi è in territorio cinese dopo che la Cina si è appropriata del Tibet e ed importante luogo di pellegrinaggio non solo indu ma anche buddista, giainista e zoroastriana.

Testo by Passoinindia

per approfondire https://passoinindia.wordpress.com/2017/10/15/le-coppie-dellinduismo-shiva-e-parvati/