BHIMBETKA

Sito che da il nome a una più vasta area, la più ricca di arte rupestre del Subcontinente e fra le più ricche del mondo; si trova a circa 45 km a sud-ovest di Bhopal, nel Madhya Pradesh, e comprende oltre 600 ripari sotto roccia, più della metà dei quali contenenti immagini. I ripari si aprono alle pendici e sui declivi delle basse colline calcaree che si allungano verso nord dai monti Vindhya Occidentali. Il territorio è di antica popolazione, ma le testimonianze archeologiche più frequenti sia all’esterno sia all’interno dei ripari sono riferibili a una tecnologia microlitica databile all’epoca mesolitica (10.000-8000 a.C.); solo alcune delle sequenze indicano una possibile continuità dal Paleolitico superiore. Reperti e pitture rupestri segnalano comunque una frequentazione pressoché ininterrotta fino all’epoca storica.

Le migliaia di immagini, tuttora non completamente registrate e analizzate date anche la recente introduzione in India di questo tipo di studi, sono tracciate si pareti e soffitti utilizzando sopratutto il bianco e altre tinte biancastre, in secondo luogo il rosso (ematite) e il giallo, con altri colori in quantità notevolmente inferiori. I soggetti sono a larga maggioranza animali e rappresentano pressoché tutta la fauna locale; molti e assai interessanti gli animali compositi. La compresenza di migliaia di immagini tracciate in epoche e con stili differenti rende lo studio di questa eccezionale area un compito arduo che è ancora agli inizi.

Storia del capitano della squadra di Hockey femminile Indiana

In tema di Olimpiadi c’è una bella storia da raccontare. Quella del capitano della squadra di Hockey femminile Indiana,Rani Rampal.

“Volevo una fuga dalla mia vita; dalla mancanza di elettricità alle zanzare che ci ronzano nelle orecchie, dall’avere a malapena 2 pasti al vedere la nostra casa allagata. Ma non c’era molto che i miei genitori potessero fare: papà era un guidatore di carretti e Maa era una cameriera.

C’era un’accademia di hockey nelle vicinanze, quindi passavo ore a guardare i giocatori, volevo davvero giocare. Papà guadagnava 80 rupie al giorno e non poteva permettersi di comprarmi un bastone da hockey Ogni giorno chiedevo all’allenatore di insegnarmelo. Mi rifiutava dicendo: “Non sei abbastanza forte per superare una sessione di allenamento”.

Quindi, ho iniziato ad esercitarmi con una mazza da hockey rotta: correvo in un salwar kameez (vestito tradizionale indiano). Ma ero determinata e ho fatto fatica a convincere il mio allenatore.

Ma la mia famiglia mi diceva “non ti lasciamo giocare con la gonna”. Io supplicavo: ” per favore lasciatemi andare a giocare. Se fallisco, farò quello che volete.  La mia famiglia cedette.”

La formazione sarebbe iniziata presto; non avevamo un orologio, quindi la mamma guardava il cielo per controllare se era ora di svegliarmi.
In accademia era obbligatorio per ogni giocatore portare 500 ml di latte. La mia famiglia poteva permettersene solo 200 ml; quindi lo mescolavo all’acqua.

Il mio allenatore mi sosteneva; mi comprava divise e scarpe da hockey. Si è anche preso cura delle mie esigenze dietetiche. Non persi nemmeno un giorno di allenamento.

Ricordo che vinsi Rs.500 in un torneo e diedi i soldi a papà. Non aveva mai tenuto così tanti soldi nelle sue mani. Promisi alla mia famiglia: “Un giorno avremo una casa nostra”; Ho fatto tutto ciò che era in mio potere per lavorare in tal senso.

Dopo aver rappresentato il mio Stato, finalmente ricevetti la convocazione in nazionale a soli 15 anni!. I miei parenti mi chiedevano quando mi sarei sposata. Ma papà diceva: “Gioca fino a quando non sei contenta”. Con il sostegno della mia famiglia, alla fine sono diventata il capitano della squadra di hockey indiana!

Poco tempo dopo, venne a trovarci l’amico di papà. Portò con sé sua nipote e mi disse: “È ispirata da te e vuole diventare una giocatrice di hockey!” Ero così felice!

E poi, nel 2017, mantenni la promessa che avevo fatto alla mia famiglia e comprai una casa. Piangemmo e ci stringemmo l’un l’altro! E non ho ancora finito; quest’anno, sono determinato a ripagare loro e il coach con qualcosa che hanno sempre sognato: una medaglia d’oro da Tokyo”.

La squadra femminile indiana di hockey non ha conquistato il podio ma si è piazzata al quarto posto con un piazzamento comunque storico.

Ram Setu, il ponte del mistero (con uno sguardo al Ramayana)

il “ponte” dall’alto

L’isola di Pamban nel Tamil Nadu, in India, è collegata all’isola di Mannar, nello Sri Lanka, da una “strada” particolare che fa discutere da sempre. E’ una striscia di terra, chiaramente visibile da una vista aerea, che attraversa lo stretto di Palk, cioè il mare. E’ chiamata Ram Setu, Rama’s Bridge, Adam’s Bridge, Nala Setu e Setu Banda. Ognuno dei suoi nomi la collega ad una storia diversa che accompagna credenze differenti, religiose e scientifiche.

Gli indu infatti credono che si tratti del ponte di cui si parla nel grande poema epico di Vālmīki, il Ramayana (nucleo originario: VI – III secolo a.C.), che racconta di Lord Rama, avatar del dio Vishnu e principe ereditario del regno dei Kosala, che viene allontanato dal suo trono per ben 14 anni. Durante l’esilio nella foresta di Daṇḍaka, popolata dai demoni (rākṣasa), sua moglie Sita viene rapita da Ravana, re di Lanka, il demone con dieci teste e venti braccia. Così Rama, con il suo esercito di vanara (scimmie divine) e di guerrieri scimmia (tra cui Hanuman, il dio con la faccia di scimmia), vuole arrivare in Sri Lanka dove Ravana ha imprigionato Sita. Egli quindi, per attraversare il mare, invoca l’aiuto di Varuna, il dio dell’Oceano; poiché la sua richiesta rimane inevasa, Rama comincia a prosciugare il mare. Varuna, impaurito, gli suggerisce di farsi aiutare dal varana ingegnere Nala a costruire un ponte che attraversa l’oceano fino a Lanka. Così tutte le scimmie gettano in mare tronchi di alberi abbattuti e grandi massi galleggianti e, in cinque giorni, realizzano un ponte lungo molti chilometri. Rama ed il suo esercito riesce così arrivare a Lanka, dove affronta ed uccide in duello Ravana, tornando così vincitore ad Ayodhyā, capitale del suo regno, dove finalmente viene incoronato re.

Perciò il “ponte” è chiamato anche Ram Setu e Nala Setu.

scena del Ramayana

Il nome Adam’s Bridge deriva invece da alcuni antichi testi islamici che si riferiscono al Adam’s Peak in Sri Lanka, un picco dove si suppone che Adamo espulso dal giardino dell’Eden dopo aver mangiato il frutto proibito, sia caduto sulla terra; egli avrebbe cercato di raggiungere l’India attraverso il ponte (naturale) che oggi porta il suo nome.

Per la scienza si tratta invece di un ponte naturale antichissimo (ma non c’è univocità sull’epoca di formazione) costituito naturalmente da secche calcaree e barriere coralline. Per alcuni le rocce avrebbero 7.000 anni e il banco di sabbia inferiore costituitosi successivamente, 4.000 anni. Il motivo per cui i massi fluttuerebbero sarebbe riposto nella loro composizione, la pomice.

dal satellite

Per alcuni il ponte è artificiale, creato dall’uomo. Per altri, come il geologo indiano N. Ramanujan, sarebbe il risultato di un processo di sedimentazione: lo Stretto di Palk e il Golfo di Mannar appartenevano allo stesso bacino, ma si separarono gradualmente a causa dell’assottigliamento della crosta terrestre. Ciò ha portato allo sviluppo di una cresta, che ha aumentato la crescita dei coralli nella zona. Questi coralli hanno poi continuato a intrappolare la sabbia che quindi è più giovane.

Quel che è certo è che esso è da sempre un ostacolo alla navigazione attraverso lo stretto di Palk, perché le navi più grandi provenienti da ovest, per raggiungere l’India orientale, hanno sempre dovuto circumnavigare lo Sri Lanka.

Oggi il Setu Samudram Project si propone di costruire un vero e proprio ponte sullo stretto di Palk, ritenuto un sacrilegio per gli indu ed un danno naturalistico per gli ambientalisti.

testo by PassoinIndia

Buon Natale e Buone Feste a tutti

Questo è un Natale certamente speciale. L’emergenza sanitaria ha privato le persone, oltre che della loro vita nei casi peggiori, del contatto umano, delle abitudini consolidate, quelle che creano la quotidianità di ognuno, della possibilità di spostarsi ed anche di viaggiare. Non abbiamo dovuto rinunciare a poco. Tuttavia abbiamo imparato quale sia il grande valore di questi gesti che forse, ultimamente, davamo un po’ troppo per scontati. E così, questo Natale appare anomalo, asettico, misero. Le luci splendono di meno, gli auguri sono goffi, gli alberelli quasi insignificanti. Comprendiamo allora quale è il vero valore delle feste: lo stare insieme, il condividere i momenti, l’abbracciarsi, più ancora dello scambio dei regali, anche quando il donarli non è un dovere ma il desiderio vero di fare felice qualcuno. Ecco perché questo è un Natale comunque speciale.

Quindi Buon Natale e Buone Feste a tutti.

Mother India (un film intramontabile)

Mother India è un famoso film indiano drammatico del 1957 diretto da Mehboob Khan ed è la storia di Radha, una donna povera e sola il cui marito ha lasciato la casa perchè la sua invalidità non fosse di peso) che lotta per crescere i suoi figli tra i soprusi di un usuraio, in un’India post indipendenza che sta ancora costruendosi.

E’ un film di 172 minuti in lingua indi, tra i più costosi di Bollywood, ripagato da incassi da record del botteghino. Girato negli Mehboob Studios di Mumbai e nelle zone rurali del Maharashtra, del Gujarat e dell’Uttar Pradesh, Mother India è da sempre un classico ed uno dei migliori film del cinema indiano. Neanche a dirlo, ha vinto l’All India Certificate of Merit, il Filmfare Award per il per il miglior film e Nargis e Khan hanno vinto il premio come miglior attrice e miglior regista. È stato anche candidato all’Oscar all’Academy Award nel 1958 come miglior film straniero, diventando il primo film indiano ad avere la nomination. Per un solo voto perse il titolo che andò al bellissimo film “Le notti di Cabiria” di Federico Fellini.

Dentro MOTHER INDIA l’India c’è tutta, quella più dura, che diventa durissima quando affrontata da una donna. C’è l’India dei monsoni che tutto porta via anche a chi poco ha. Ci sono le regole sociali, la vita del villaggio, gli stenti, la cattiveria, la vendetta, l’onore e la fede.

Chi ama l’India non può non vederlo.

by PASSOININDIA

IL MONTE EVEREST CRESCE DI QUASI UN METRO

La montagna più alta del mondo è ora ufficialmente un po’ più alta. Dopo anni di dibattiti, Cina e Nepal hanno finalmente concordato una precisa elevazione per il Monte Everest. La nuova altezza concordata è di 8.848,86 metri (29.031,69 piedi) stata annunciata durante una cerimonia virtuale.

Si tratta di 86 centimetri in più rispetto alla misura precedentemente riconosciuta dal Nepal. È più di quattro metri sopra la cifra ufficiale della Cina.

La decisione politica di arrivare a una misurazione congiunta era stata presa durante una visita del presidente cinese, Xi Jinping, a Katmandu, lo scorso anno. La catena dell’Himalaya è relativamente giovane essendosi formata 50-60 milioni di anni fa ed è ancora in crescita a causa delle spinte tettoniche della crosta terrestre. La stima dei geologi è che ogni secolo guadagni poco meno di mezzo metro di altezza.

India o Arizona? Gandikota Canyon

Chi non conosce il magnifico Grand Canyon in Arizona? Direi che tutti, in una foto o dal vivo, ne hanno apprezzato la stupefacente bellezza e maestosità. Ma c’è un luogo, in Andhra Pradesh, ancora poco conosciuto ed ugualmente affascinante, adatto a chi ama scoprire bellezze nascoste in un clima di assoluta quiete.

Lo chiamano l’Arizona dell’India ed è un insieme di rocce stratificate della catena montuosa di Erramala che forma una gola lungo la quale scorre il fiume Pennar, l’autore di questa meraviglia. E’ un luogo antico e vivo che anche gli amanti dell’avventura stanno scoprendo, dilettandosi in escursioni, arrampicate sulla roccia, discese in corda doppia ed in kayak lungo il fiume, magari fermandosi la notte a campeggiare come alternativa agli alloggi nel villaggio di Gandikota.

a sinistra le mura del forte

Questo piccolo Paese lungo il fiume fu abitato da molte dinastie sin dal 1123 e deve il suo nome a due parole “Gandi”, gola, e ” Kota”, forte. In una posizione strategica sul canyon si trova il Forte Gandikota, in arenaria rossa, del XIII° secolo, circondato da un muro perimetrale di 5 miglia, protetto dalla gola ed ora in rovina. All’interno delle mura, una torre di guardia, una prigione, un granaio, serbatoi d’acqua che da soli non meriterebbero la visita. Le sole costruzioni interessanti sono una moschea del XVI° secolo con un grande ingresso a più archi che conduce alla sala di preghiera e due templi. Quello di Madhavaraya Swamy in granito, con il suo gopuram a quattro piani, una bella architettura con incisioni e sculture indu e quello di Raghunatha Swamy in granito rosso, costruito dal re Krishnadeva Raya nel XV° secolo, formato da pilastri e corridoi e che non contiene idoli.

E’ altrettanto piacevole il bellissimo lago adiacente il forte che si ritiene sia stato realizzato dall’imperatore Sri Krishnadevaraya con l’acqua del fiume Pennar e che sarà ora utilizzato per l’irrigazione dei campi del villaggio.

In due ore da Gandikota si giunge alle Grotte naturali di Belum, il secondo sistema di grotte più grande del subcontinente indiano molto interessanti anche scientificamente per i depositi di quarzo nelle stalattiti e stalagmiti delle grotte.In due ore da Gandikota si giunge alle Grotte naturali di Belum, il secondo sistema di grotte più grande del subcontinente indiano molto interessanti anche scientificamente per i depositi di quarzo nelle stalattiti e stalagmiti delle grotte.

Per raggiungere Gandikota si può prendere un treno da Bangalore per Jammalamadugu e poi proseguire su strada fino a Gandikota che dista circa 18 km. Se si preferisce un bus o taxi direttamente da Bangalore ci vogliono circa 6 ore per arrivare a Gandikota che è anche ben collegata alle principali città come Hyderabad, Vizag e Bengaluru tramite la NH 7.

Ricondatevi che la zona in estate è molto calda poiché le temperature arrivano sino ai 40 gradi e quindi il periodo migliore per visitarla è tra settembre e febbraio.

by PassoinIndia

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Chhath Puja

Il Chhath Puja è un vivace festival indù che viene celebrato negli Stati indiani del Bihar, Jharkhand e Uttar Pradesh e in Nepal. Dai tempi antichi gli indu festeggiano la divinità “Surya” cioè il sole ed anche sua sorella Shashti Devi, conosciuta anche come Chhathi Maiya, per ottenere la loro benedizione e ringraziarli per avere donato tutte le cose belle della vita. Questa è l’unica festa dedicata a Lord Surya, considerato la fonte di ogni potere. Questo festival non prevede l’adorazione alcun idolo.

Nelle lingue hindi e nepalese, Chhath significa “sei” ed infatti questa festa si celebra il sesto giorno del mese di Kartika. In questo giorno, i devoti offrono preghiere al Dio della luce, considerato la forza vitale che lega l’universo e dà energia a tutti gli esseri viventi.

I rituali sono rigorosi e osservati per un periodo di quattro giorni. I mantra dei testi dei Rigveda vengono cantati mentre si adora il sole. Il Chhath Puja, che ricorre due volte l’anno (qualche giorno dopo il Diwali e qualche giorno dopo la festa di Holi), prevede il bagno nel fiume sacro, il digiuno e l’astensione dall’acqua potabile, lo stare in acqua per lunghi periodi di tempo e l’offerta di prasad (offerte di preghiera) al tramonto e al sorgere del sole e che include dolci, kheer (latte dolce con riso), thekua (un dolce secco), riso, laddu (polpette dolci a base di cocco) e frutta. Il cibo è vegetariano e viene cucinato senza sale, cipolle o aglio con attenzione sul mantenimento della purezza del cibo. I piatti tradizionali sono il Kaddu Bhaat (un piatto con la zucca) e il Channa Dal (zuppa di ceci) che si cuociono il primo giorno di festa utilizzando utensili di fango o bronzo o legno di mango su un stufa di fango.

Chhath è considerato il festival più rispettoso dell’ambiente in quanto è il culto degli elementi della natura ed è spesso utilizzato per diffondere il messaggio della conservazione dell’ambiente. Inoltre, Chhath è una delle pochissime feste indù che trascende le rigide restrizioni del sistema delle caste, emerse nel periodo post-vedico, sposando idee di uguaglianza, fraternità, unità e integrità. Ogni devoto, indipendentemente dalla sua classe o casta, prepara la stessa offerta per il Dio Sole e arriva sulle rive dei fiumi e degli stagni per proferire le sue preghiere. Chhath è considerato il festival più rispettoso dell’ambiente in quanto è il culto degli elementi della natura ed è spesso utilizzato per diffondere il messaggio della conservazione dell’ambiente. Inoltre, Chhath è una delle pochissime feste indù che trascende le rigide restrizioni del sistema delle caste, emerse nel periodo post-vedico, sposando idee di uguaglianza, fraternità, unità e integrità. Ogni devoto, indipendentemente dalla sua classe o casta, prepara la stessa offerta per il Dio Sole e arriva sulle rive dei fiumi e degli stagni per proferire le sue preghiere.

testo by passoinIndia

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Kuldhara, il luogo del mistero

In Rajasthan a 18 chilometri dalla splendida citta d’oro di Jaisalmer, famosa in tutto il mondo, c’è un luogo del mistero, circondato dal deserto del Thar. Una moltitudine di rovine di case in pietra arenaria, pozzi, resti di templi, terreni di cremazione e cenotafi (tombe vuote – come vuole il significato della parola – o monumenti eretti in onore di qualcuno) rivelano l’esistenza passata di un villaggio che fu abbandonato per motivi ancora e forse per sempre sconosciuti.

Quel che si sa è che Kuldhara, questo il nome del luogo, fu costruita nel 13° secolo dal facoltoso clan dei Paliwal Brahmins (bramini migrati da Pali) ed ospitò oltre 1.500 persone che abitarono in prosperità ben 85 piccoli insediamenti di 400 case. Esse vivano soprattutto di agricoltura sfruttando l’acqua del fiume stagionale Kakni; quando si asciugava, si utilizzavano le riserve d’acqua incamerate dentro ai pozzi, realizzati anche a gradini, come ben testimonia un antico pilastro. Realizzavano ceramiche decorate in fine argilla.

Sono le iscrizioni devali, ancora ben presenti, a raccontarne usi, costumi e religiosità; par quindi di vederli, gli uomini, barbuti e incollanati, con turbanti in stile moghul, jamas (tunica), kamarband (cintura in vita) e khanjar (pugnale), le donne in lehengas e monili da collo; la popolazione era composta, oltre che da bramini, (pare che Kuldhara fosse un gruppo di caste tra i bramini Paliwal da cui il nome del luogo), anche da jati  (sotto-casta) e gotra (clan) ed era Vaisnavita (devota a Visnu), come testimoniato anche dalle sculture di Vishnu e Mahishasura Mardini (la neonata Durga che uccise il demone Mahishasura) nel tempio principale del villaggio. La maggior parte delle iscrizioni inizia con un’invocazione a Ganesh, le cui sculture in miniatura si trovano anche sui portali. Gli abitanti del villaggio adoravano anche il toro e una divinità equestre locale. 

Nel 1825, Kuldhara venne improvvisamente abbandonata nel cuore della notte e di quella comunità non fu mai più trovata traccia. Non essendo gli storici mai riusciti a darsi risposte definitive (una ipotesi del 2017 è quella di un sisma, un’altra l’ improvvisa carenza di acqua), è intervenuta la leggenda. Si racconta che un ex primo ministro dell’epoca, il Diwan di Jaisalmer, Salim Singh, si innamorò della figlia del capo villaggio e minacciò di imporre un’altissima tassa se la famiglia della giovane non avesse acconsentito a concedergliela. Cosi l’intera comunità decise di lasciare la città per non dover cedere alle voglie del politico e compromettere l’onore della giovane. Ma prima lanciò una maledizione sul villaggio che non avrebbe mai più potuto ospitare nessuno e chi avesse avuto intenzione di stabilirvisi avrebbe ricevuto maledizioni e incantesimi. E così fu. Nessuno mai riuscì a rimanervi a lungo.

Oggi, il Servizio Archeologico dell’India mantiene ciò che resta di questa città come sito del Patrimonio dell’Umanità che è visitabile solo di giorno. La sera infatti i cancelli di Kuldhara vengono chiusi dagli abitanti dei villaggi vicini credenti che, al calar del sole, arrivino degli esseri soprannaturali ad infestarla. La Società paranormale di Nuova Delhi afferma di aver assistito ad episodi sconvolgenti come voci inquietanti, impronte sul fango, ombre in movimento, graffi sulle auto e altro ancora. Ma il governo del Rajasthan sta tentando di ridargli vita e ricostruirla, come già è avvenuto per il suo antico tempio.

testo by PASSOININDIA

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L’ULTIMO ATTO SPIRITUALE

Shakespeare fa contemplare a Giulio Cesare che “Di tutte le meraviglie che ho ancora sentito, mi sembra molto strano che gli uomini debbano temere, visto che la morte, una fine necessaria, verrà quando verrà“. Una delle più grandi paure è la paura della morte. Ogni religione cerca di prepararci ad affrontare questa inevitabilità.
Gli uomini passano la vita propiziando gli dei per una fine pacifica e una prosecuzione migliore della loro vita trascorsa sulla terra. Ogni religione sottolinea la responsabilità e la dovuta ricompensa o punizione per atti di omissione o commissione.
Anche se i medici cercano di salvare vite umane, possono fare solo quello. La vita, dopo che avrà fatto il suo corso, un giorno finirà. Ma possiamo fare qualcosa in modo che il corpo, anche dopo la morte, non venga sprecato. Può essere messo a frutto per salvare vite umane.
L’atto più spirituale che possiamo fare è impegnarci a donare i nostri organi. È l’ultimo atto di bontà e altruismo. Il dono della vista a chi non può vedere, un cuore a chi altrimenti perderà la vita, un rene a chi ha un disperato bisogno di vivere, e altre parti del corpo a chi ne ha bisogno affinché possa continuare a vivere.
Spiritualità, in ultima analisi, significa sapere che le nostre vite hanno un significato oltre il mondano, rendendosi conto che dobbiamo lasciare il mondo un posto migliore.
E cosa c’è di meglio che impegnarsi a donare i propri organi? Eppure, esitiamo ad abbracciare questo supremo atto spirituale.

Liberamente tradotto da https://economictimes.indiatimes.com/blogs/the-speaking-tree/the-ultimate-spiritual-act/