Bellezza e sacrificio. L’offerta dei capelli agli dei

Quanto sono belli, lucidi e fluidi i capelli delle donne indiane! Quale donna non ha mai desiderato averli sulla propria testa? E’ noto che chi non ne è naturalmente dotata può ricorrere a parrucche od extension, l’allungamento artificiale dei propri con altri artificiali o naturali. Alcune si saranno anche domandate da dove arrivino.

Le donne indiane sanno di possedere sotto questo aspetto un dono naturale di bellezza, li curano moltissimo, li adornano, ne fanno cornice preziosa dei loro stupendi abiti e sono probabilmente proprio i capelli a conferire loro quella innata eleganza e femminilità che non fa distinzione di casta.

Ebbene, c’è un luogo (a dire il vero più di uno ma questo è il più famoso), in India, dove le donne si privano della propria chioma per offrirla alla divinità, secondo una antica tradizione che si chiama Mokku. Succede, fin dai tempi antichi, al tempio di Tirupati Balaji, in Andra Pradesh, anche chiamato Bhuloka Vaikuntham, che significa “dimora di Vishnu sulla terra”.

Qui, ogni giorno, migliaia di persone donano i propri capelli. La divinità del tempio è Lord Venkateswara, un avatar (incarnazione) del Dio Vishnu.

Il tempio, la cui costruzione è probabilmente iniziata nel 300 d.C. ,è il più ricco dell’India grazie alla rivendita di capelli e alle donazioni, anche in oro e gioielli, fatte dai devoti alla divinità. Per gli induisti, queste donazioni consentono a Vishnu di ripagare il debito contratto nei confronti di Kubera ed infatti, come sempre, vi è una lunga storia, al proposito, nelle scritture indu. La mitologia racconta (qui, in breve, perché la storia è davvero molto più lunga) che quando Vishnu nacque sulla terra per cercare la sua Lakshmi che lo aveva lasciato, si incarnò in una donna di nome Vakula Devi assumendo il nome di Lord Srinivasa; egli, che viveva in un formicaio, incontrò un giorno Padmavati, figlia di un re Chola nonché reincarnazione sulla terra della dea Lakshmi, di cui, ricambiato, si innamorò. Ottenne il consenso per il matrimonio dagli dei e i denari per la cerimonia da Kubera, il dio della ricchezza che gli concesse un prestito da rimborsare con tanto di interessi entro la fine del Kaliyuga (nell’induismo per Yuga si intende un’era e la Kaliyuga è un’era oscura, di grande decadenza)

I pellegrini, quindi, aiutano il Dio a rientrare dal proprio debito con le loro preziose offerte, capelli compresi. Secondo stime, ogni anno il tempio rivende 75 tonnellate di capelli, per un giro di affari di circa 140 milioni di euro all’anno, il cui utile dovrà essere devoluto in opere di assistenza e beneficienza.

Le donne lasciano così la propria vanità facendosi operare la tonsura, secondo quel rituale che un tempo, ed ora abolito, era anche proprio della cristianità e consisteva nel taglio di cinque ciocche di capelli effettuato dal vescovo, a simboleggiare la rinuncia al mondo da parte del chierico novizio.

Tutto, nell’edificio e locali annessi, è ben organizzato ai fini della tonsura (gratuita): le prenotazioni tramite i gettoni generati dai computer, le sale, le file, il darshan (l’incontro faccia a faccia con la divinità), i moltissimi rasatori (più di mille), gli antisettici per la disinfezione delle chiome, la fornitura di acqua calda per i risciacqui e le strutture ricettive.

Ci sono tagli e capelli di tutti i tipi, fino alla rasatura completa della testa. I capelli più pregiati sono i capelli cosidetti Remy, i migliori perchè raccolti tra loro dal lato della radice e mantenuti tali durante tutta la lavorazione. Se cercate “capelli Remy” in internet, Amazon ve ne offre in gran varietà (!).

Anche la lavorazione dei capelli segue regole precise e anche in questa fase sono molti gli addetti che si occupano di lavare e confezionare una vera e propria montagna di capelli in attesa di essere rivenduti.

L’ingresso al tempio è riservato ai soli induisti ma anche solo l’esterno vale una visita. E’ uno di quei luoghi, come ce ne sono tanti in India, dove si respira una spiritualità autentica.

testo by PassoinIndia

La montagna di luce, il Koh-I-Noor.

Si disse che chi possedeva il Koh-i-Noor avrebbe governato il mondo anche se i fatti hanno dimostrato che portasse invece grande sfortuna. Secondo la leggenda la gemma potrebbe risalire a prima di Cristo, per i teorici sarebbe comparsa nei primi anni del 1300, per gli storici è dimostrata la sua esistenza negli ultimi due secoli e mezzo.

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Il Koh-i-Noor (in sanscrito “montagna di luce”) è il più famoso diamante del mondo, probabilmente estratto in Andra Pradesh, in India, da cui sarebbe derivato anche il suo gemello, il Darya – ye Noor (“mare di luce”). Più volte sequestrato come bottino di guerra, il diamante è appartenuto a molte dinastie, tra cui i Kakatiyas, i Rajput, i Mughal, gli Afsharid, i Durrani, i Sikh e, da ultimo, la corona britannica nelle cui mani ancora oggi si trova. Prima di essere tagliato era di ben 793 carati ed ora ne conta 105,6, pesa 21.6 grammi e rappresenta uno dei più grandi diamanti del mondo.

Babur, il primo sovrano moghul dell’India e discendente di Genghis Khan, cita nel Baburnama, la raccolta delle sue memorie, che una grande pietra, probabilmente proprio il Koh – i – Noor, era appartenuta ad un imperatore afghano senza nome costretto a cederla nel 1294 ad Alauddin Khilji. Sarebbe poi diventata di proprietà delle dinastie Tughlaq (che la strappò alla dinastia Kakatiya) e Lodi, e, infine, posseduto da Babur stesso nel 1526.

Anche Humayun, anch’egli sovrano moghul, menzionò un grande diamante nelle sue memorie e anche egli, che lo possedette, non ebbe grande fortuna. Suo figlio, il grande e illuminato Akbar, non tenne mai con sé il diamante e solo Shah Jahan, suo nipote, colui che ad Agra fece costruire il Taj Mahal per la sua amata sposa, utilizzò questo tesoro mettendolo nel suo bellissimo Trono del Pavone; ma Shah Jahan fu altrettanto sfortunato, visto che suo figlio Aurangzeb lo spodestò e lo fece rinchiudere nel Forte Rosso di Agra, fino alla sua morte. Aurangazeb fece tagliare il diamante da Hortenso Borgia, veneziano, che maldestramente ne ridusse il peso a ben 186 carati. La leggenda dice che Aurangzeb posizionò il Koh -i- Noor vicino ad una finestra in modo che Shah Jahan potesse vedere il Taj Mahal solo guardandone il riflesso nella pietra. Più tardi Aurangazeb portò il diamante nella capitale Lahore e lo aggiunse al suo tesoro dove rimase fino all’invasione del sovrano iraniano Nadir Shah nel 1739 che saccheggiò Agra e Delhi e, insieme al famoso Trono del Pavone, portò via anche il Koh -i- Noor.

Dopo l’assassinio di Nadir Shah nel 1747, la preziosa pietra passò nelle mani del suo generale, Ahmad Shah Durrani dell’Afghanistan. Nel 1830, Shujāh Shāh Durrani, il sovrano deposto dell’Afghanistan, riuscì a fuggire con il diamante e arrivò a Lahore dove il Maharajah Ranjit Singh, dell’ Impero Sikh, lo costrinse ad arrendersi. Ranjit Singh fu incoronato sovrano della regione del Punjab. Il 29 marzo 1849 gli inglesi conquistarono Lahore e il Punjab venne formalmente proclamato parte dell’Impero britannico in India. Una delle condizioni del Trattato di Lahore, scritto per formalizzare questa occupazione, era la seguente : “Il Koh-i-Noor, che è stato rubato a Shah Shujāhul-Mulk dal Maharajah di Lahore Ranjit Singh, deve essere ceduto da questi alla regina d’Inghilterra.”.

Il Governatore Generale responsabile della ratifica di questo trattato era Lord Dalhousie, altresì incaricato di acquisire il Koh-i-Noor. Il lavoro di Dalhousie in India mirava principalmente allo stanziamento delle attività indiane per l’utilizzo della Compagnia delle Indie Orientali. Dalhousie dispose che il diamante dovesse essere presentato da Dulīp Singh, giovane successore del Maharaja Ranjit Singh, alla regina Vittoria nel 1850. E così egli fece. Il 1° febbraio 1850, il gioiello fu sigillato in una piccola cassaforte di ferro, racchiusa in una scatola rossa, entrambe chiuse da un nastro rosso e un sigillo di cera e conservate in una cassaforte presso il Tesoro di Bombay in attesa che una nave a vapore arrivasse dalla Cina e lo portasse, a cura del capitano J. Ramsay, in Inghilterra per essere consegnato alla regina Vittoria. Il 6 aprile 1850 il Koh-i-Noor, protetto da una cassaforte di ferro a bordo della nave capitanata da Lockyer, partiva da Bombay alla volta dell’Inghilterra in un viaggio che si rivelò difficile a causa del colera e delle burrasche in mare, confermando ancora una volta la sua fama di portatore di disgrazie.

Finalmente la nave arrivò in Gran Bretagna il 29 giugno 1850 e a Spithead, vicino a Portsmouth, il 1° luglio 1850, la grande gemma lasciò la nave. La mattina del 2 luglio 1850, Ramsay e Mackeson in compagnia del signor Onslow, il segretario privato del Presidente del Tribunale di Amministrazione della British East India Company, arrivarono a Londra con il treno dove consegnarono il diamante nelle mani del Presidente e del Vice Presidente della Compagnia. Il 3 luglio del 1950 il Koh-i-Noor venne finalmente consegnato alla regina.

Nel 1851 il pubblico britannico poté ammirarlo in occasione di una grande mostra all’uopo allestita in Hyde Park. Ma si riteneva che quella gemma, avendo un taglio a rosa, non brillasse a sufficienza e così, l’anno successivo, venne nuovamente tagliata. L’incarico di forgiare la “montagna di luce” venne dato a Mozes Coster, uno dei più grandi e famosi commercianti di diamanti olandesi che mandò a Londra uno dei suoi artigiani più esperti , Herr Voorsangerenti. Il 6 luglio 1852, con l’ausilio di un mulino a vapore costruito apposta per il lavoro, iniziò il taglio del diamante, sotto la supervisione personale del consorte della regina Vittoria, il principe Alberto; l’operazione richiese 38 giorni di 12 ore ciascuno. Il diamante venne ridotto da 186 (1/16) carati (37,21 g) agli attuali 105,602 carati ( 21,61 g). Effettivamente il nuovo taglio ovale conferì alla pietra maggiore brillantezza.La pietra venne poi montata su una spilla che Queen Victoria, proclamata imperatrice dell’India nel 1877, indossava spesso. Fu conservato al Castello di Windsor invece che con il resto dei gioielli della corona nella Torre di Londra.

Dopo la morte della regina Vittoria venne incastonato nella nuova corona di diamanti che la regina Alexandra indossò in occasione dell’incoronazione del marito, il re Edoardo VII. Alexandra è stata la prima regina consorte ad utilizzare il diamante nella sua corona, seguita dalla regina Maria Elisabetta, la consorte di re Giorgio VI e madre di Elisabetta.

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Il diamante attualmente abbellisce la corona della Regina Elisabetta ed è in mostra presso la Torre di Londra. Ancora oggi si ritiene che porti sfortuna al maschio, ma non alla donna, che lo indossi o lo possieda.

L’India ha rivendicato il Koh-i-Noor ritenendo illegale la sua dipartita nel 1800 e ne ha chiesto la restituzione. Quando la regina Elisabetta II visitò l’ India, durante la celebrazione del 50°anniversario di indipendenza nel 1997, molti indiani in India e in Gran Bretagna chiesero il ritorno del diamante. Il 21 febbraio 2013, durante una visita in India, David Cameron, il primo ministro britannico, dichiarò che sarebbe illogico restituirlo.

Se visiterete i gioielli della Corona nella Torre di Londra lo potrete ammirare magari sorridendo un po’, ora che sapete come si è svolta la sua storia.

Fonti:

http://www.dailymail.co.uk/news/article-2282104/The-Koh-noor-diamond-stay-Britain-says-Cameron-rules-returning-gem-India-final-day-visit.html

http://famousdiamonds.tripod.com/koh-i-noordiamond.html (tradotto dall’inglese)

 http://en.wikipedia.org/wiki/Koh-i-Noor (tradotto dall’inglese)

http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/asia/india/7798130/India-demands-return-of-Koh-i-Noor-diamond.html

Maoisti e naxaliti

Proponiamo un interessante articolo di Francesco Brunello Zanitti è ricercatore associato dell’IsAG (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie) e autore del libro Progetti di egemonia pubblicato su sito

http://www.geopolitica-rivista.org/17025/chi-sono-i-maoisti-indiani/

che spiega chi sono i maoisti e i naxaliti in India, scritto al tempo in cui nostri connazionali vennero rapiti in Orissa e proprio i maoisti ne rivendicarono il sequestro…

Da alcuni giorni l’attenzione dei giornali italiani è posta sui cosiddetti gruppi maoisti indiani, responsabili del rapimento di due nostri connazionali nello Stato indiano di Orissa. E’ bene comprendere le caratteristiche basilari di questi movimenti, dal momento che, sebbene sia una questione interna all’India, questa problematica si collega ai già delicati rapporti  tra Roma e Nuova Delhi per il caso legato ai due marò accusati dell’uccisione di due pescatori indiani al largo delle coste del Kerala. 

Questi gruppi sono eredi di quella che è stata definita storicamente come rivolta maoista o naxalita. Il primo ministro Manmohan Singh l’ha definita alcuni anni fa come la più grande minaccia per la sicurezza interna dell’India contemporanea. La sollevazione naxalita riguarda attualmente tutta la fascia nord-orientale e centro-orientale del paese, interessando, più o meno intensamente, ben 20 dei 28 Stati componenti la Federazione indiana. I territori maggiormente colpiti dalla rivolta sono le cosiddette “sette sorelle” del nord-est (Arunachal Pradesh, Assam, Meghalaya, Mizoram, Manipur, Nagaland, Tripura), Bengala occidentale, Bihar, Orissa, Chhattisgarh, Jharkhand, Uttarkhand, Madhya Pradesh, Uttar Pradesh, Maharashtra, Andhra Pradesh, Karnataka, Tamil Nadu e Kerala. L’area attraversata dalle rivolte è definita anche come “corridoio rosso” dell’insurrezione maoista.

Il termine naxalita deriva dalla sommossa contadina e anti-governativa del 1967 scoppiata a Naxalbari, piccolo villaggio del Bengala occidentale. Dalla fine degli anni ’60 le rivolte contadine, aventi l’appoggio dell’ala estrema del partito comunista indiano e prendendo come modello di riferimento la sommossa di Naxalbari, si sono propagate in breve tempo nell’India nord-orientale, centrale e meridionale, diffondendosi, inoltre, in Nepal e Bangladesh. Negli ultimi anni il vuoto di potere causato dalle autorità centrali ha comportato l’ascesa del Communist Party of India (Maoist), nato dalla fusione tra Maoist Communist Center of IndiaCommunist Party of India (Marxist-Lenist) e People’s War Group nel 2004, dopo anni di lotte intestine tra gli stessi gruppi dell’estrema sinistra indiana. La fusione ha portato alla creazione di un’unica forza armata chiamata People’s Liberation Guerilla Army (PLGA), nonché la costituzione di un apparato ben organizzato il cui vertice è rappresentato da un Comitato Centrale dal quale provengono le direttive per i singoli comitati statali, regionali e distrettuali, con collegamenti anche con i partiti maoisti in Nepal e Bhutan.

L’ultimo anno è stato contraddistinto da un deciso calo degli incidenti, anche se nuove aree precedentemente non colpite dal fenomeno sono ora contraddistinte da questa problematica; le nuove regioni sono in particolare quelle del nord-est, dove il vuoto di potere lasciato dalle organizzazioni indipendentiste in base a motivi etno-linguistici, parzialmente sconfitte, è stato prontamente ricoperto da alcuni gruppi legati al CPI(M). Secondo South Asia Terrorism Portal nel 2011 i distretti colpiti dall’insurrezione erano 141, rispetto ai 194 del 2008. Tuttavia, il primo caso di rapimento di cittadini stranieri occidentali potrebbe dare nuova linfa e popolarità ai gruppi insurrezionali, i quali ora sono maggiormente conosciuti a livello statale e globale.

L’obiettivo dichiarato del gruppo maoista è quello di rovesciare i diversi governi presenti negli Stati indiani per consegnare il potere direttamente alle popolazioni locali. Ma le motivazioni non solo solamente di carattere ideologico. I naxaliti hanno rivendicato la propria azione insurrezionale e violenta, infatti, in difesa delle svariate popolazioni tribali presenti nell’area, solitamente definite come Adivasi e comprendenti un universo estremamente variegato di etnie e tribù molto diverse tra loro. Ogni Stato e regione ha inoltre delle problematiche diverse e spesso il malcontento viene generalmente etichettato per semplicità come maoista, senza comprendere le reali motivazioni interne che differiscono a seconda del contesto. La situazione interna dell’Orissa è molto differente rispetto alle aree del nord-est, dove, unitamente a questioni di carattere sociale, esistono movimenti per la separazione dall’India con potenziali riperscussioni geopolitiche, visto il coinvolgimento di attori esterni come Bangladesh, Myanmar, Bhutan e Cina, interessati alle ingenti risorse presenti nell’area. Nell’Andhra Pradesh l’insurrezione maoista era collegata, fino a pochi decenni fa, alle richieste d’autonomia statale della regione del Telangana. Oggi permangono problematiche sociali ed economiche legate in particolar modo al settore agricolo, ma i collegamenti con i movimenti naxaliti sembra siano stati parzialmente sradicati, data la loro sempre più scarsa presenza nei distretti della regione. In Orissa l’ultimo anno ha registrato un’accresciuta mancanza di potere da parte delle autorità centrali e delle forze di sicurezza; questo in parte spiega l’avvenuto rapimento di Paolo Bosusco e Claudio Colangelo.

Nelle tredici condizioni poste dal gruppo maoista guidato da Sabyasachi Panda (segretario del Comitato organizzativo per il CPI-Maoist dell’Orissa) per il rilascio dei due italiani rapiti, è (leggi era) presente la richiesta di porre termine all’Operazione Caccia Verde (Operation Green Hunt), ossia l’azione militare predisposta da Nuova Delhi per sconfiggere il maoismo, e l’espulsione di tutto il personale paramilitare dall’Orissa. L’Operazione Caccia Verde è composta da corpi di polizia e gruppi paramilitari indiani, ma anche di appositi contingenti creati dalle multinazionali interessate alle risorse dell’area, nonché da guerriglieri tribali nemici dei maoisti ed ex guerriglieri naxaliti.

I maoisti giudicherebbero in maniera negativa i cosiddetti “safari umani” avvenuti nel passato in Orissa e di cui è stato accusato anche lo stesso Bosusco. Il governo dell’Orissa ha recentemente stabilito la restrizione dell’accesso di turisti e ricercatori nelle aree abitate da gruppi tribali particolarmente vulnerabili.

Il rapimento non avrebbe comportato una significativa presa di forza da parte dei gruppi maoisti né una chiara strategia preparatoria. Alcuni analisti sostengono che il rapimento non avrebbe avuto la benedezione del CPI (Maoist); si tratterebbe infatti di un’operazione locale, riguardante le ambizioni personali di Sabyasachi Panda. Inoltre, il caso dei “safari umani” non rappresenterebbe la primaria causa del rapimento, il quale sarebbe piuttosto collegato alle volontà egemoniche di Panda nell’area, una dimostrazione di poter ricoprire un ruolo di primo piano all’interno del Comitato Centrale e soprattutto di non subire il controllo di altri leader maoisti, in particolar modo quelli provenienti dalla vicina Andhra Pradesh a capo delle operazioni in Orissa. Si tratta dunque di un fattore che testimonia la scarsa unità dei gruppi maoisti. In ogni caso una loro significativa ripresa potrebbe comportare simili azioni in altre zone del paese, generando allo stesso tempo degli effetti negativi per l’arrivo di turisti stranieri in Orissa o negli altri Stati particolarmente colpiti dal fenomeno.

Una delle conseguenze negative della vorticosa ascesa economica dell’India degli ultimi vent’anni, con la contemporanea apertura del mercato indiano agli investimenti stranieri, è l’aver comportato degli effetti deleteri per il secolare sistema sociale delle popolazioni tribali dell’India. Il problema non è solamente legato a questioni di carattere ideologico o alla mancata volontà da parte dei naxaliti e delle popolazioni rurali dell’accettare un’idea di “progresso”. Molto spesso, infatti, la modernizzazione legata all’attuale crescita dell’India ha comportato lo sgretolamento di ataviche strutture sociali, difficili da sradicare con le sole promesse di “progresso”, unito alla degradazione ecologica d’intere regioni, vista la cospicua presenza di risorse minerarie, attiranti l’attenzione dei privati e delle multinazionali. L’intera fascia dell’India centro-settentrionale è attraversata da questa problematica, nella quale sono in gioco gli interessi d’importanti gruppi industriali mentre le preoccupazioni riguardanti la degradazione ambientale e il crollo di antichi sistemi sociali tribali e rurali sono messe in secondo piano. Le Special Economic Zones governative, se da una parte possono essere viste come l’emblema della positiva crescita economica indiana, da una diversa prospettiva, comportano la conversione d’intere regioni in nuovi spazi economici, causando lo spostamento di un gran numero di contadini, operai, pescatori, per lo più poveri, in altre zone. Allo stesso tempo anche i gruppi maoisti hanno assunto un potere locale sempre più forte, controllando intere regioni ricche di risorse. La rivolta naxalita s’inserisce in questo contesto e sovente “utilizza”, in chiave ideologica e per interesse personale dei propri leader, le rivendicazioni delle popolazioni rurali e tribali. E’ dunque una delle componenti negative della riconosciuta crescita economica dell’India contemporanea, una delle sfide per il futuro di Nuova Delhi.

Il supporto decisivo del mondo rurale indiano all’azione violenta dei maoisti, la quale costantemente colpisce gli stessi civili, è strettamente legata al carattere di estrema povertà delle regioni del “corridoio rosso”, unito alla totale assenza di un sistema governativo in grado di garantire dei servizi minimi. La soluzione del problema naxalita è dunque molto complicata, vista l’estensione dell’insurrezione e l’appoggio attivo di una parte della popolazione, avvenuto grazie alla capillare azione dei gruppi maoisti nelle zone rurali negli ultimi trent’anni. Secondo alcuni analisti la rivolta maoista, possibile ostacolo per la coesione interna del paese, sarà completamente superata una volta che l’India saprà sconfiggere efficacemente l’estesa povertà presente nelle regioni contraddistinte dalla rivolta naxalita, garantendo al contempo il mantenimento di un sistema sociale e culturale che non può essere totalmente sradicato.

Francesco Brunello Zanitti è ricercatore associato dell’IsAG (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie) e autore del libro Progetti di egemonia.