MAI bHAGO LA GUERRIERA PERFETTA DELL’ESERCITO DEL KHALSA

Nella storia punjabi c’è una donna che tutti i sikh ricordano. E’ Mai Bhago, conosciuta anche come Mata Bhag Kaur, la prima donna sikh a combattere su un campo di battaglia nell’esercito di Khalsa. La storia, vera, prende forma nel 1704 quando il decimo Guru Sikh, Guru Gobind Singh Ji e il suo esercito di Khalsa si erano rifugiati nella fortezza di Anandpur per sfuggire ai Moghul, guidati dal terribile imperatore Aurangzeb, che avevano attaccato la città. Aurangzeb odiava i Sikh la cui religione predicava (e predica) una giustizia sociale per tutti, in netta antitesi con il suo modo dittatoriale di governare. Già nel 1675, Aurangzeb fece decapitare pubblicamente il nono Guru Sikh, Guru Tegh Bahadur Ji che aveva difeso dei Pandit (maestri) indù a Delhi costretti a convertirsi all’Islam contro la loro volontà e si era egli stesso rifiutato di rinnegare la sua fede.

Per lungo tempo, i Moghul premettero per entrare nella fortezza dove il cibo stava scarseggiando da mesi non potendo arrivare nuove scorte. Centinaia di Sikh deboli, stanchi e sfiduciati, guidati da Bhai Mahan Singh, decidero di lasciare il loro Guru e tornare alle loro case, nonostante il suo invito a rimanere. E così, mentre uscivano dalla fortezza, il Guru disse loro di sconfessarlo come loro guru attraverso una dichiarazione scritta (nota come bedawa) contenente l’impronta digitale di ogni disertore. Dopo questa richiesta, solo 40 Sikh si manifestarono dispositi a rinunciare ai loro titoli come Khalsa e solo loro, perciò, abbandonarono la fortezza tornando alle loro case nella regione di Majha.

Una donna venne a sapere, disgustata, della diserzione dei 40 uomini, nel 1705. Era Mai Bhago, una donna sikh del villaggio di Jhabal Kalan a Majha. Cavalcò per tutti i villaggi vicini, invitando le sue sorelle (le altre donne sikh) a prendere le armi al posto dei loro mariti. Disse ai 40 disertori che sarebbero stati più adatti a indossare i braccialetti delle mogli e sedersi a casa con i loro figli mentre le loro mogli avrebbero preso il loro posto uscendo a combattere per la giustizia sociale come veri sikh del Guru Gobind Singh Ji.

Dopo aver visto la devozione di Mai Bhago verso il Guru, i 40 uomini furono pieni di rimorso per il loro tradimento e così tornarono dal Guru a chiedere perdono. Il Guru Ji chiese loro e a Mai Bhago di frenare l’avanzata dei Mughal per avere il tempo di portare in salvo gli abitanti di Anandpur che viaggiavano con l’esercito di Khalsa. Mentre Guru Ji guidava gli abitanti di Anandpur Sahib, Mai Bhago e i 40 uomini restarono indietro e si accamparono a Khidrana. Ma l’esercito di 10.000 guerrieri moghul li attaccò nella battaglia di Muktsar il 29 dicembre 1705.

Mai Bhago ordinò ai 40 uomini di difendere un serbatoio d’acqua, unica fonte per miglia e miglia che avrebbe costretto i Mughal, impediti di attingervi, a ritirarsi. I 41 combatterono coraggiosamente per il loro Guru che arrivò a sostenerli lanciando un mare di frecce dall’alto. L’esercito Mughal alla fine si ritirò. I 40 uomini si erano riscattati agli occhi del loro Guru ma, feriti a morte in guerra, erano diventati martiri. (shaheeds). Quando il Guru arrivò sul campo di battaglia, espresse a Bhai Mahan Singh, che era in punto di morte, il suo perdono e il suo orgoglio per i valorosi 40 uomini. Bhai Mahan Singh sorrise e chiese al Guru di strappare il bedawa. Guru Gobind Singh Ji disse a Bhai Mahan Singh che mentre un Sikh può scegliere di lasciare il suo Guru, il Guru non volterà mai le spalle al suo Sikh. I 40 disertori del Guru divennero noti come Chali (40) Mukte (liberati). Mai Bhago fu l’unica a sopravvivere alla battaglia di Muktsar. Trovatala ferita, il Guru la guarì e la invitò ad arruolarsi nell’esercito di Khalsa come una delle cinque guardie del corpo personali di Guru Gobind Singh Ji, grazie al coraggio e alla lealtà da lei dimostrata al Guru.

Dopo la morte di Guru Gobind Singh a Nanded nel 1708, si ritirò a Jinvara, in Karnataka dove visse gli ultimi suoi giorni in meditazione. La sua capanna è oggi diventata un Gurudwara.

Una sala del gurudwara di Nanded, il Hazur Sahib, noto anche come Takht Sachkhand Sri Hazur Abchalnagar Sahib, è conosciuta con il nome di Bunga Mai Bhago.

By PassoinIndia Tours

SANT KABIR, l’essenza della fede

sant kabir

Una delle personalità più accattivanti della storia del misticismo indiano è stato Sant Kabir. Nato vicino a Benares (Varanasi) da genitori musulmani nel 1440, in tenera età divenne discepolo del celebre indù guru Ramananda, un grande riformatore religioso e fondatore di una organizzazione alla quale appartengono ancora milioni di indù. I suoi versi si trovano anche nella scritture nel sacro libro del Sikhismo Guru Granth Sahib (https://passoinindia.wordpress.com/2012/09/30/che-cos-e-il-sikhismo/)

La storia di Kabir è circondata da leggende contraddittorie che provengono da fonti sia indù che islamiche, che lo rivendicano rispettivamente come un santo sufi e come un santo indù. Indubbiamente, il suo nome è di origine islamica e si dice che sia il figlio reale o adottato di un tessitore musulmano di Varanasi, la città in cui si sono svolti i principali eventi della sua vita.

Gli indù lo chiamavano Kabir Das, ma è impossibile dire se Kabir fosse bramino o sufi. Una volta egli disse a se stesso di essere sia il figlio di Allah che quello di Ram. Kabir odiava l’esclusivismo religioso e cercava soprattutto di avviare gli esseri umani nella libertà come figli di Dio. Kabir rimase discepolo di Ramananda per anni, unendosi agli argomenti teologici e filosofici che il suo maestro sostenne con tutti i grandi mullah e brahmani dei suoi tempi. Così, conobbe la filosofia sia indù che sufi.

Le opere di Kabir confermano la storia tradizionale della sua vita. Ancora e ancora, esalta la vita domestica e il valore e la realtà dell’esistenza quotidiana con le sue opportunità di amore e di rinuncia. La “semplice unione” con la Realtà Divina era indipendente sia dal rituale che dalle austerità corporee; il Dio che proclamò non era “né a Kaaba (La Mecca) né a Kailash (il monte sacro agli indu)”. Coloro che lo cercavano, quel Dio, non dovevano andare lontano poiché era dappertutto, più accessibile alla “lavandaia e al falegname” che all’uomo santo e giusto. Egli pertanto criticò gli interi apparati indù e musulmano, il tempio e la moschea, l’idolo e l’acqua santa, le scritture e i sacerdoti denunciandoli come semplici sostituti della realtà. Egli disse, “Il Purana (testi sacri indu) e il Corano sono semplici parole”.

testo tradotto PassoinIndia

visita il nostro sito http://www.passoinindia.com

oppure trovaci su facebook  https://www.facebook.com/passoinindia/

 

 

HAPPY DIWALI A TUTTI!

Significato del Diwali.

Dall’oscurità alla luce, dall’ignoranza alla conoscenza, dall’infelicità alla beatitudine, questo è davvero il messaggio vero e profondo che il festival di Diwali porta ogni anno con le sue gioiose celebrazioni. Il festival di Diwali è il festival più celebrato e tanto atteso che ispira le persone a credere nel potere del bene. Diwali è annunciato come uno dei festival più significativi degli indù ed è celebrato in tutta l’India e in tutto il mondo. Gli indù del nord celebrano principalmente questo festival per commemorare la leggenda del ritorno di Lord Rama nel Regno di Ayodhya dopo un esilio di 14 anni mentre nel Sud, è celebrato per ricordare la sconfitta di un demone chiamato Narakasura per mano del Signore Krishna. Tuttavia, il festival delle luci ha un grande significato anche in altre religioni, che includono il Sikhismo e il Giainismo, anche se per ragioni diverse. Questo articolo esplora il profondo significato di Diwali nel contesto di varie fedi e sistemi di credenze.


Significato spirituale nell’Induismo.
Il festival delle luci, Diwali è la speranza e ispira tutti ad accendere una candela piuttosto che maledire l’oscurità. Diwali non riguarda solo l’illuminazione esterna, ma promuove la consapevolezza della luce interiore che è il nucleo di ogni essere umano. La spiritualità è la vera essenza dell’Induismo e profetizza che una persona non è solo un corpo o una mente ma qualcosa al di là di essa – una fonte di energia pura, potente ed eterna, chiamata Atman. Diwali è la celebrazione della realizzazione di questa luce interiore, che ha il potere di mostrare la via della rettitudine anche nei momenti più bui dei tempi. Il risveglio del vero sé, Atman, introduce ciascuno alla pace immensa, alla compassione universale, all’amore e alla consapevolezza dell’unità di tutte le cose (conoscenza superiore). Questo è uno stato di vera felicità che Diwali commemora. Le storie e le leggende su questo festival possono cambiare da regione a regione, ma questa essenza sottostante rimane la stessa.

Importanza nel Giainismo.
Diwali è un’occasione molto speciale per il popolo della comunità Jain, come il Natale è per i cristiani o il Buddha Purnima è per i buddisti. Secondo la storia e le scritture jainiste, Lord Mahavira, l’ultimo dei Jain Tirthankaras, fondatore del Giainismo, raggiunse il Nirvana o Moksha nel giorno di Diwali a Pavapuri il 15 ottobre 527 aC. Si ritiene che, oltre al divino Signore stesso, il suo discepolo più devoto, Ganadhara Gautam Swami abbia raggiunto l’illuminazione (Kevalgyana) in questo giorno. Questo rende Diwali uno dei festival più significativi per i Jain. Le celebrazioni Jain di Diwali sono lontane dalla stravaganza ed infatti la comunità ascetica Jain celebra Diwali per tre giorni durante il mese di Kartik. Gli Shvetambara, discepoli di una delle maggiori correnti del giainismo, meditano e leggono ad alta voce gli insegnamenti di Lord Mahavira, nel Sutra Uttaradhyayan, l’ultimo insegnamento che diede prima della sua liberazione. Nel jainismo, la liberazione o moksha o nirvana è il più alto e il più nobile obiettivo è l’unico che una persona dovrebbe avere; altri obiettivi sono contrari alla vera natura dell’anima. Con la giusta visione, conoscenza e sforzi, tutte le anime possono raggiungere questo stato. Si dice che un’anima liberata (siddha) raggiunga la sua vera natura incontaminata di beatitudine, conoscenza e percezione infinite, liberandosi dal ciclo di nascita e morte dopo la distruzione di tutti i legami karmici. Questo è il motivo per cui il Giainismo è anche conosciuto come mokṣamārga o “via della liberazione. Durante il Diwali, molti jainisti fanno un pellegrinaggio a Pavapuri, nel Bihar, dove Mahavira raggiunge il Nirvana.

Importanza nel Sikhismo.
Nel Sikhismo, Diwali è considerato un giorno molto importante, in quanto molti eventi significativi della storia dei Sikh sono associati ad esso. I sikh celebrano Diwali in grande stile e il giorno viene anche chiamato “Bandi Chhorh Diwas”, che rappresenta il “giorno della liberazione dei detenuti”. In questo giorno del 1619, il sesto guru, Guru Hargobind Ji, insieme a 52 altri principi, fu rilasciato dal forte di Gwalior, dove tutti furono imprigionati per ordine dell’imperatore Mughal Jahangir. La comunità sikh si rallegrò per l’occasione illuminando il Tempio d’oro.
Un altro evento significativo che sottolinea l’importanza di Diwali per i sikh è il martirio di Bhai Mani Singh ji. In questo giorno, sacrificò la sua vita per proteggere la comunità sikh dal genocidio per mano dei Moghul nel 1737, cancellando le celebrazioni di Diwali al Tempio d’oro. Infatti nel 1737 ca., Bhai Mani Singh chiese al governatore di Lahore, viceré dell’impero moghul, il permesso di tenere il festival Diwali per celebrare il Divas Bandi Chhor presso l’Harmandir Sahib o tempio d’oro. Gli fu concesso per Rs. 5.000, quale tassa religiosa di jizya, imposta dai moghul ai non musulmani, che Bhai Mani Singh avrebbe raccolto come offerte dai Sikh che sarebbero venuti al tempio. Il Governatore ordinò invece ai militari di attaccare a sorpresa i Sikh durante il festival. Bhai Mani Singh ne venne a conoscenza e comunicò ai sikh di non andare al tempio d’oro. Non gli fu così possibile pagare il denaro ai Mughal che gli ordinarono di convertirsi all’Islam. Rifiutando di rinunciare alle sue convinzioni, venne giustiziato  per smembramento. La sua morte spinse i sikh a lottare per la libertà dall’oppressione moghul.

Quindi HAPPY DIWALI!

By PI

Altri articoli di interesse correlati

https://www.passoinindia.com/la-festa-di-diwali

https://www.passoinindia.com/la-festa-delle-luci-il-diwali-festival

https://passoinindia.wordpress.com/2013/11/03/la-festa-di-diwali/

https://passoinindia.wordpress.com/2015/11/12/ecco-come-ci-si-e-preparati-al-diwali/

https://www.passoinindia.com/single-post/2018/05/12/Senza-Titolo

https://www.passoinindia.com/single-post/2017/01/05/Una-visita-al-Tempio-doro-di-Amritsar

Happy Gurpurab per Guru Govind Singh.

Oggi è il compleanno del decimo Guru del Sikhismo Gobind Singh e quindi questo giorno è di particolare importanza per i seguaci del Sikhismo.

Vi proponiamo questo post, interessante per comprendere la filosofia religiosa del Sikhismo e anche una parte della storia dell’India.

Gobind Rai si ritrovò alla guida dei fedeli all’età di soli nove anni . Dopo aver eseguito i riti funebri in onore del padre Shri Teg Bahādur Ji (1621- Guru 1664 -1675), nono Guru e secondo martire dei Sikh ucciso dal rigido imperatore Mughal Aurangzeb (1658-1707), si ritirò in una cittadina nascosta fra i monti dove covò per anni propositi di vendetta e di riscatto per i suoi Sikh (discepoli).

Durante questo periodo si dedicò alle attività fisiche e studiò nel medesimo tempo la storia, il sanscrito, il persiano, la hindī, la panjabi e le rispettive letterature, traendone ispirazione e costruendosi solide basi su cui elaborare le importanti innovazioni che introdusse di lì a poco.

Promosse e praticò egli stesso, seguendo l’esempio di molti suoi predecessori, la caccia e altre attività fisiche e marziali.

Dopo alcuni anni di intensi conflitti con i Rajput , che alternativamente lo appoggiarono e lo osteggiarono, arrivando da un lato ad allearsi con lui contro i Mughal e dall’altro a dichiarargli apertamente guerra proprio grazie all’alleanza con l’imperatore, il Guru tornò ad Anandpur (un piccolo villaggio fondato dal padre), dove approfittando di un lungo periodo di quiete di 12 anni, poté dedicarsi alla riorganizzazione delle proprie forze, munendo in primo luogo Anandpur di ulteriori difese e facendo costruire una catena di fortezze ininterrotta in territorio Rajput.

Riconoscendo nell’ignoranza la causa principale dell’abbattimento morale della sua gente si dedicò anche alla promozione della cultura. Egli stesso conosceva come si è visto le lingue più importanti del tempo ed ora si adoperò per farle conoscere e studiare al maggior numero di persone possibile, inviando a tale scopo cinque discepoli a Benares a studiare il sanscrito e i testi della mitologia indù .

I suoi studi gli avevano fornito le basi per comprendere appieno il proprio tempo e gli strumenti per portare a termine con successo la missione che si era prefissato. Si trattava ora di applicare le proprie conoscenze ed infondere coraggio e fiducia al buon esito della missione nella massa dei fedeli, abituati da secoli a sottostare ad ogni discriminazione senza levare alcuna protesta e da ciò minati nella fiducia in se stessi e nella possibilità di un cambiamento.

Guru Gobind quindi tradusse e fece tradurre dal sanscrito in panjabi molti miti e storie edificanti in cui si esaltava il coraggio e l’eroismo. Dotato di talento per la poesia, scrisse egli stesso molti inni in cui esponeva il proprio pensiero in accordo con quello di Nanak .

In particolare riconobbe il pericolo che derivava dall’idolatria, ancora molto diffusa fra gli indù, e sottolineò l’unicità di Dio, di cui egli era l’inviato, umile servitore. A tale proposito condannò con fermezza ogni forma di idolatria per la propria persona.

Cosciente dell’impossibilità di successo di un movimento puramente politico anti-mughal e dei segni di decadenza che mostrava la “monarchia religiosa”, prese misure volte alla riorganizzazione della comunità.

In primo luogo identificò le principali cause di decadenza: l’ereditarietà della carica, con le conseguenti lotte di successione, aveva ormai reso il Guru del tutto simile ad un contemporaneo monarca (anche dal punto di vista di una pronunciata rilassatezza morale e dei costumi); l’istituzione dei masand (spesso veri e propri signorotti locali che si arricchivano presentandosi come interpreti del volere del Guru) e la riscossione delle imposte a loro demandata erano un’altra grave causa di malcontento nella popolazione vessata.

Gobind non perse tempo in mezze misure e le eliminò risolutamente entrambe. Abolì in blocco i masand, pur cosciente del rischio di impoverimento cui andava incontro la comunità intera, privata dell’unico mezzo di sostentamento, e presentò ai fedeli il compito di fare offerte volontarie e prendersi cura della comunità come un proprio bene e non perché costretti da qualcuno.

L’altra causa di decadenza – la monarchia religiosa ereditaria – era certamente più complessa da riformare o eliminare e necessitava di qualcosa che potesse assumerne le funzioni e le responsabilità.

All’inizio del 1699, Guru Gobind Rāi invitò tutti i fedeli a recarsi in pellegrinaggio ad Amritsar per la grande festa annuale, richiedendo loro esplicitamente di partecipare all’evento con la barba ed i capelli non tagliati.

Il primo giorno del mese di Baisakh, durante il grande raduno, si presentò all’auditorio con una spada in pugno, chiedendo che chi era pronto ad immolarsi per lui gli offrisse la testa in sacrificio. Il silenzio scese sugli astanti. Alla terza ripetizione della richiesta un uomo si fece avanti. Gobind lo condusse dietro una tenda, da cui uscì poco dopo con la spada insanguinata in pugno. Per altre quattro volte ripeté la medesima richiesta e ogni volta un fedele si offrì un sacrificio. Al termine il Guru uscì dalla tenda con i cinque e proclamò che coloro che si erano mostrati pronti ad immolarsi per lui erano i suoi Panj Pyare (i cinque beneamati), ed avrebbero costituito il nucleo da cui sarebbe sorto il khalsa, la comunità di Santi-Soldati pronti a battersi fino alla morte per far trionfare il dharma sull’adharma.

Istituì un nuovo rito, mescolando dello zucchero a dell’acqua con una spada a doppio taglio, ed aspergendo i cinque con l’amrata così ottenuto. Subito dopo chiese di essere battezzato con lo stesso rito.

All’entrata nel khālsā tutti dovevano rinunciare alle proprie precedenti occupazioni per quella di soldato, alla propria famiglia per abbracciare quella del Guru, a tutti i riti salvo quelli previsti dal Gurū, alla propria fede per quella del Sat Guru.

Tutti gli uomini, entrando nel khalsa, aggiungevano inoltre al proprio nome quello di Singh (Leone) e tutte le donne quello di Kaur (Principessa, Leonessa), nomi dei nobili Rajput in forte contrasto con gli umili nomi castali che portava allora gran parte dei fedeli.

In assenza del Gurū le decisioni dei Panj Pyare sarebbero state considerate equivalenti al volere del maestro, spiritualmente presente nell’assemblea.

Chi faceva parte del khalsa era poi tenuto a portare cinque simboli (le cosiddette cinque “K”), ognuno volto a sottolineare un aspetto particolare dell’essere santi-soldati.

Il simbolo più importante erano i capelli e la barba intonsi (keś), mentre gli altri ne completavano l’estensione semantica.

L’uso di non tagliare barba e capelli è in voga da tempo immemorabile presso gli asceti indiani, come simbolo di rinuncia alle illusioni mondane, e pare assai probabile che tutti i Guru Sikh da Nanak in poi portassero questo simbolo di santità. Quindi la decisione di renderlo obbligatorio per tutti gli appartenenti al khalsa non sorprese in modo particolare i Sikh, che evidentemente vi erano già adusi.

L’innovazione di Gobind risiede nell’aver voluto sottolineare come tutti gli appartenenti al khalsa fossero dei santi al servizio di Dio, pronti a prendere le armi in difesa del dharma, contro i mali del mondo: dei Santi-Soldati (sant-sipahi).

Il valore di un soldato si misura proprio nel suo essere costantemente vigile e pronto a sguainare la spada ed offrire in sacrificio la propria vita, ma solo nel momento del bisogno, quando ogni altra strada sia stata preclusa e l’ adharma rischi di trionfare.

Gli altri simboli sono facilmente spiegabili partendo da questi presupposti, e sono tutti relativi alla occupazione di Santo-Soldato che i Sikh abbracciavano entrando nel khalsa: così il kangha (pettinino di legno) serve a mantenere puliti ed in ordine i lunghi capelli nascosti sotto il turbante e a ricordare la necessità di essere puri, nella vita come in battaglia.

Il kach, i comodi e semplici pantaloni usati dai guerrieri del tempo, andavano a sostituire la graziosa, ma assolutamente poco pratica in battaglia, dhotī.

L’uso di portare una spada (kirpan) è ovviamente legato a filo doppio con l’essere un sant-sipahi e non sembra necessitare di particolari spiegazioni.

Il simbolo che presenta qualche maggiore difficoltà di interpretazione è il kara, il braccialetto di ferro. Apparentemente non connesso con l’arte della guerra, aveva la sua utilità pratica in battaglia nel difendere il braccio dai colpi e pare possibile che derivi dall’uso indù di cingere i polsi dei guerrieri con nastri benaugurali prima di andare in battaglia. Il ferro sembra anche riportare alla mente la semplicità che doveva ispirare la vita di ogni Sikh, in contrasto con l’uso contemporaneo di adornarsi con splendenti e costosi gioielli in metalli preziosi.

Ogni appartenente al khalsa era poi tenuto a rispettare quattro regole (rahat): il divieto di tagliare barba e capelli (evidentemente una ripetizione del keś), il divieto di assumere tabacco ed altre sostanze intossicanti, il divieto di mangiare animali uccisi per dissanguamento (come era l’uso musulmano) ma solo uccisi da un colpo netto, il divieto di intrattenersi con donne musulmane.

Infine, a sancire e definire inequivocabilmente la nuova identità Sikh, Gurū Gobind Singh prescrisse un nuovo saluto: Wah guru Ji ka khalsa, Wahe guru ji ki fateh.

Con l’istituzione del khalsa, Gurū Gobind Singh aveva creato la struttura adatta a sostituire la monarchia ereditaria al momento della sua morte.

Su basi democratiche aveva brillantemente sostituito tutte le funzioni temporali del Gurū, demandandole a una assemblea di cinque uomini pii (molto simile al pancayat indù di cui evidentemente era una rielaborazione), e al gurumata, il consiglio cui tutti partecipavano di diritto con l’entrata nel khālsā, convocato per tutti i casi di vitale importanza.

Si preoccupò di sottolineare l’eguaglianza di tutti gli uomini e di dar loro coraggio e fiducia nelle possibilità di un movimento compatto e riuscì in questo intento grazie alla forza dei simboli che scelse e all’intelligenza con cui li presentò ai fedeli: Singhil Leone, fino ad allora un nome castale, diveniva l’unico cognome per tutti gli appartenenti al khalsa, tutti leoni pronti a battersi fino alla morte. Gli umili cognomi fino ad allora usati dalla maggioranza dei fedeli erano rimpiazzati da un unico nobile cognome, che portava con sé altissime responsabilità .

Sempre per l’elevazione spirituale dei discepoli si adoperò affinché nessuno si sentisse più in basso degli altri a causa della propria occupazione (ciò che avrebbe reso l’uguaglianza conferita dal cognome e dall’appartenenza al khalsa puramente formale).

Riconoscendo l’importanza del guadagno e del modo di procurarselo proibì la carità e tutti i lavori umilianti e decretò che occupazioni degne erano l’agricoltura, il commercio, le professioni di penna e, ovviamente, le professioni di spada.

A tutti questi cambiamenti corrispose un’inversione di tendenza nella composizione sociale del Panth (letteralmente: sentiero, via; quello che in occidente è conosciuto come Sikhismo è in india il Sikh-panth).

I khatrī, alta casta urbana dalle cui fila provenivano i masand, che fino ad allora avevano costituito la spina dorsale del Panth e ne avevano certamente determinato alcuni aspetti relativi alle occupazioni e al modo di vita, vennero gradualmente rimpiazzati da una maggioranza di jaṭ, bassa casta rurale di agguerriti combattenti, che formerà il nerbo dell’esercito Sikh.

I Rajput delle montagne assistevano con crescente preoccupazione alle operazioni del Guru e decisero quindi, consci che se non avessero fatto nulla la furia dei Mughal si sarebbe abbattuta su di loro, di cercare di arginare il crescente potere del Guru.

Dapprima tentarono di provocarlo ma alla sua determinazione risposero assediando Anandpur. In un primo tempo i Sikh ruppero ripetutamente il cordone che cingeva la città, alla lunga divenne però complicato reperire regolarmente le provviste ed essi si spostarono in un piccolo villaggio, Nirmoh, dove si scontrarono con il Raja di Bilaspur (sempre alla testa delle operazioni contro il Guru) sconfiggendolo.

I capi delle montagne realizzarono allora che la forza dei Sikh era al di là delle proprie possibilità e chiesero dunque l’aiuto dell’Imperatore. Le loro forze congiunte attaccarono i Sikh a Nirmoh, tentando invano di assediarli, e quando il Guru si ritirò con i suoi a Basali, Bilaspur tentò un’ultima volta di annientarlo.

Duramente sconfitto fu costretto a scendere a patti con Gobind, che tornò poi ad Anandpur dedicandosi al pressante compito di fortificarla in modo da poter resistere agli attacchi che l’attendevano.

Di lì a poco le preoccupazioni dei Raja causarono un nuovo invio di truppe imperiali contro Anandpur, che venne accerchiata. Questa volta l’assedio fu lungo e infine si rivelò stremante da entrambe le parti; molti abbandonarono il Guru, che rimase con un manipolo di uomini. Ci fu un tentativo di accordo, immediatamente infranto dagli imperiali; Guru Govind Singh consegnò ad un brahmano la madre con i due figli minori e si ritirò – protetto da una retroguardia che fu sterminata fino all’ultimo uomo – verso Sud a Chamkaur, dove decise di resistere fino alla fine con i quaranta che erano rimasti con lui.

Quando ormai tutto sembrava perso un fedele che assomigliava al Guru indossò i suoi vestiti ed uscì sul campo di battaglia, dando a Gobind il tempo di fuggire e di raggiungere Jatpura. Qui egli apprese della morte dei due figli minori e della propria madre – a quanto riferiscono le cronache sikh traditi dal brahmano cui erano stati affidati – per mano del governatore di Sirhind, Wazir Khan.

Migliaia di Sikh si strinsero intorno al Guru e gli offrirono il proprio aiuto per vendicare l’orrendo crimine. Saputo che Wazir Khan stava marciando contro di lui ed ormai forte dell’aiuto dei suoi, Gobind si lanciò sugli inseguitori sconfiggendoli a Khidrana, che da allora fu rinominata Muktsar (lo Stagno della Salvezza).

Guru Gobind Singh si ritirò dunque a Talwandi Sabo, dove con l’aiuto del discepolo Mani Singh si dedicò alla redazione definitiva del Dasven Pādśāh kā Granth (Il Libro del Decimo Imperatore), o Dasam Granth, in cui vennero raccolti i suoi inni.

Il 2 marzo 1707 morì l’Imperatore Aurangzeb.

Immediatamente si aprì la lotta per la successione ed il Guru si schierò dalla parte di Bahadur Shah (ricordando l’aiuto da questi offertogli precedentemente) inviando un distaccamento di cavalieri che parteciparono alla battaglia di Jajau del giugno 1707. Gobind accompagnò dunque il nuovo Imperatore nella sua marcia nel Deccan per sopprimere la ribellione del fratello Kam Baksh, pur non prendendo parte ad alcuna battaglia.

Arrivarono così sulle rive della Godavari e piantarono il campo nel villaggio di Nanded nel settembre 1707.

Una notte due Pathan si intrufolarono nella tenda del Guru e lo accoltellarono . La grave ferita fu suturata e parve che il Guru potesse sopravvivere, ma i punti esplosero dopo poco.

Guru Gobind Singh raccolse allora i fedeli attorno a sé e diede disposizioni: la successione dei Guru terminava con lui.

Da allora in poi la guida spirituale di tutti i Sikh sarebbe stato lo Sri Guru Granth Sahib, il libro che raccoglieva gli inni di lode dei primi nove Maestri e quelli di alcuni mistici indù e musulmani che, come Guru Nanak, riconoscevano di adorare, sempre e comunque e al di là di ogni divisione operata dall’uomo, lo stesso Dio.

Morì il 7 ottobre 1708.

Il post è stato integralmente tratto dal sito http://www.gatka.eu/storia-e-filosofia/guru-gobind-singh/

Altri articoli su questo argomento:

https://passoinindia.wordpress.com/tag/sikkismo/

http://www.passoinindia.com/single-post/2017/01/05/Una-visita-al-Tempio-doro-di-Amritsar

http://gurdwarananakparkash.altervista.org/10-guru.html

http://www.sikhisewasociety.org/10-guru-gobind-singh-ji.html

Happy Gurpurab, Guru Nanak

passoinIndia

Oggi, 17 novembre, la comunità SIKH, stanziata in tutto il mondo, festeggia il compleanno del suo primo guru (in sanscrito significa “discepolo” o “allievo” e in lingua punjabi vuol dire “rivelatore”, “profeta”),GURU NANAK.

NANAK nasce, nel 1469, a Tolevandi (ora Nankana Sahib), vicino a Lahore (che dal 1947, anno della spartizione inglese, appartiene al Punjab pakistano).

Guru Nanak è il fondatore del Sikhismo, religione nata alla fine del XV secolo nel Punjab indiano. Nanak, di estrazione indu, sposato e con due figli, conoscitore anche del persiano e dell’arabo, dedica la sua vita alla diffusione del messaggio ricevuto da Dio e pertanto viaggia per 25 anni sino a raggiungere Tibet, Sri Lanka, La Mecca e Afghanistan, visitando la maggior parte di diversi centri di culto induisti, musulmani, gianisti e così via.

Nel 1496 Nanak, ottenuta l’illuminazione, comincia a predicare principi nuovi e rivoluzionari rispetto all’assetto sociale, culturale e…

View original post 631 altre parole

LA HOLLA MOHALLA

Il giorno successivo alla celebrazione della Holi (vedi post “Holi la festa dei colori), nel mese di Phalguna (Marzo), i Sikh (devoti del Sikhisimo) festeggiano la Holla Mohalla, un festival che si tiene presso ANANDPUR (ovvero Città della beatitudine) cui spesso si usa far seguire la parola Sahib (Anandpur Sahib) in segno di riverenza (in India è usata anche verso le persone in segno di rispetto), ospitando essa  uno dei cinque Gurudwara (templi) più importanti. Il termine Mahalla, deriva dalla radice araba hal ed è una parola punjabi (lingua parlata nello Stato del Punjab, nel nord India) che evoca immagini di colonne dell’esercito accompagnate da tamburi di guerra e portabandiera, che si dispongono in una certa formazione o si spostano da un luogo all’altro.

L’usanza della Holla Mohalla ebbe origine quando, il 22 febbraio 1701, Guru Gobind Singh (1666-1708), il decimo Guru Sikh che stava conducendo la sua battaglia contro Aurangzeb dell’Impero Mughal e i Rajput (re) delle colline, volle dedicare una giornata alla simulazione di battaglie, per preparare militarmente il popolo, ma anche alla musica e a concorsi di poesia, dando così origine ad una tradizione viva ancora oggi. Ancora oggi infatti i membri dell’esercito sikhs fondato da Govind Singh, i Singhs Nihang, vestiti coi loro abiti blu e i loro impreziositi turbanti, portano avanti la tradizione marziale con finte battaglie, manifestazioni di scherma ed equitazione, e messa in opera, con l’ausilio di spade e lance, di imprese audaci e di spettacolari acrobazie tra sventolare di bandiere e suoni di tamburi.

Ad Anadpur c’è, ovviamente, un grande e famoso tempio sikh (gurudwara), fornito, come ogni tempio sikh, di langar (la mensa comune) che elargisce gratuitamente i suoi pasti grazie alle offerte di farina di frumento, riso, verdure, zucchero, latte da parte degli abitanti dei villaggi vicini. I commensali, seduti a terra su lunghi tappeti, consumano le loro pietanze servite (da volontari) in piatti di metallo luccicante distribuiti poco prima (e poi ritirati all’uscita) da altrettanti devoti. Chiunque può accedervi, senza differenza di casta, sesso o religione.

Di mattina presto le preghiere nel gurdwara segnano l’inizio del festival. Il Guru Grant Sahib, il libro sacro dei sikh, cerimoniosamente tirato fuori dal posto in cui la sera prima è stato accuratamente riposto, viene sistemato sul palco, sotto al tipico baldacchino e bagnato simbolicamente con latte e acqua. Tutto ciò mentre vengono cantate e suonate le preghiere ed il Prasad Karah (un impasto dolce fatto di farina, zucchero e burro) viene distribuito ai fedeli, dopo essere stato benedetto dal guru.

La Holla Mohalla è un’occasione per i Sikh per ribadire il proprio impegno nei confronti della Panth Khalsa, per riaffermare la fraternità e la fratellanza e ricordare alla gente il valore della difesa molto caro a Gobind Singh ji., il “fondatore” della Holla Mohalla, colui che ha istituito nel 1699 il Panth Khalsa, ovvero l’ordine del Khalsa che è a base del sikkismo.  Il Sikkismo è nato nel XV secolo nel nord ovest dell’India ed è una religione impregnata di principi  filosofici, morali, politici e militari, impostata su un rigido monoteismo privo di organizzazione clericale, di santi e di immagini religiose (dentro il tempio si vedono solo le immagini dei dieci guru) e sui valori dell’ uguaglianza, fratellanza e parità tra tutti gli adepti.

PS: Del Khalsa racconteremo prossimamente …

(testo by PASSOININDIA,  photo by http://www.flickr.com)

gustati l’evento:

BUONA PASQUA A TUTTI!

HAPPY BIRTHDAY GURU NANAK!

Oggi la comunità SIKH, stanziata in tutto il mondo, festeggia il compleanno del suo primo guru (in sanscrito significa “discepolo” o “allievo” e in lingua punjabi vuol dire “Dio”, “rivelatore”, “profeta”), GURU NANAK.

NANAK nasce, nel 1469, a Tolevandi (ora Nankana Sahib), vicino a Lahore (che dal 1947, anno della spartizione inglese, appartiene al Punjab pakistano).

Guru Nanak è il fondatore del Sikhismo, religione nata alla fine del XV secolo nel Punjab indiano. Nanak, di estrazione indu, sposato e con due figli, conoscitore anche del persiano e dell’arabo, dedica la sua vita alla diffusione del messaggio ricevuto da Dio e pertanto viaggia per 25 anni sino a raggiungere Tibet, Sri Lanka, La Mecca e Afghanistan, visitando la maggior parte di diversi centri di culto induisti, musulmani, gianisti e così via.

Nel 1496 Nanak, ottenuta l’illuminazione, comincia a predicare principi nuovi e rivoluzionari rispetto all’assetto sociale, culturale e religioso di quel tempo. In una società rigidamente suddivisa in caste, classi e sessi, egli sancisce la fratellanza e la incondizionata uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio e davanti agli uomini. Egli sfida moralmente la povertà istituendo i Langar (mense comuni vicino al tempio dove chiunque può ottenere cibo gratuitamente e tutt’oggi diffuse in India), demolendo così anche la secolare idea di contaminazione del cibo dovuta alla mera presenza di un intoccabile (si veda su questo blog “Il sistema castale”). La condivisione con i bisognosi del reddito eccedente le esigenze della famiglia costituisce, da allora, uno dei fondamenti della religione Sikh.

Nanak condanna la pura idolatria e le credenze pseudo religiose lontane dalla vera elevazione spirituale (il sikhismo non adora idoli e non ha un clero precostituito ed organizzato) e sancisce la sacralità della vita terrena (lungi da ogni forma di ascetismo ed isolamento dalla vita sociale che non hanno alcuna vocazione produttiva); la vita umana non è un fardello da sopportare in attesa di una vita eterna ma è gioia e privilegio da onorare come mezzo di formazione spirituale. Così la vita morale diventa il solo mezzo di progresso spirituale che si realizza dentro la vita sociale e familiare, attraverso la preghiera e il lavoro praticato sia per il sostentamento familiare che per servire la comunità (il sikhismo professa di guadagnare lavorando onestamente e di condividerne con gli altri il risultato). Viene contestualmente condannata ogni forma di corruzione ed avidità castale (particolarmente quella sacerdotale, secolarmente privilegiata).

NANAK ha professato un messaggio d’ amore per tutti in lingua locale (e non in sanscrito, conosciuto  da pochi), ha scritto inni religiosi, inneggiato alla bellezza della vita e della natura in quanto doni divini.

Al termine dei suoi viaggi missionari, duranti i quali ha studiato ed avvicinato le più diverse religioni diffondendo il suo Sikhismo,  si ritira a Kartarpur, un piccolo villaggio nel Punjab, conducendo la vita di contadino e continuando da lì la sua missione.

Poco prima di morire NANAK nomina il suo successore, ANGAD, suo discepolo. Da allora, per ancora cento anni, ogni guru designato dal precedente avrebbe nominato il suo successore, fino a GURU GOBIND SINGH, il decimo ed ultimo guru che non ravvisò la necessità di un nuovo profeta, deponendo l’incarico di guru immortale al Sacro Libro dei Sikh, il Guru Grant Sahib ( o Adi Granth), negli anni alimentato dai messaggi illuminanti dei guru ed oggi composto di 1430 pagine e 5.930 versi di preghiere, per ricordare il Creatore in ogni momento (altro principio fondamentale del Sikhismo).

GURU NANAK muore il 7 settembre 1539 a Kartarpur, nel Punjab indiano.

La vita di Guru Nanak è raccontata nella raccolta Janam Sakhis.

Oggi i Sikh rappresentano il 2% della popolazione indiana, concentrati soprattutto nel Punjab indiano, nel nord – ovest dell’India, ai confini con il Pakistan. Essi professano il loro culto nei Gurudwara (templi dove si entra a piedi nudi e capo coperto), rigorosamente forniti di langar, la mensa aperta a tutti. Il tempio  è aperto anche alle donne ritenute, nella società sikh, al pari dell’uomo. In ogni Gurudwara viene letto ed accudito, avvolto nella seta e tenuto sotto un baldacchino,  il Libro Sacro e cantati i Gurbani, gli inni sacri. Il Gurudwara più importante si trova ad Amritsar dove, nel Golden Temple, milioni di pellegrini venerano il Libro sacro. Dopo l’ardas, la preghiera conclusiva, i fedeli si dividono la karah prasad, un’offerta di cibo a base di semolino dolce, acqua e burro.

Il Sikhismo, monoteista, non nega la credenza nella reincarnazione e degli effetti delle azioni sulle vite successive, cioè il Karma. Lo scopo ambito è di interrompere il ciclo delle nascite allo scopo di una congiunzione con il Creatore, Unico ed Indivisibile.

 

immagine da sito: vahrehvah.com

IL MASSACRO DEI SIKH NEL 1984

Immagine

Sono ormai trascorsi 28 anni dal massacro dei sikh ma le profonde ferite devono ancora rimarginarsi perchè a tuttoggi non è stata fatta giustizia.

Era il 31 ottobre 1984 ed Indira Gandhi era appena stata assassinata dalle sue due guardie del corpo di origine sikh per vendicarsi della sua decisione, nel giugno di quell’ anno, di inviare l’esercito a stanare i separatisti sikh dal tempio d’Oro di Amritsar, il luogo più sacro per i Sikh (http://en.wikipedia.org/wiki/Operation_Blue_Star). Quello che successe nei tre giorni seguenti alla sua morte e prima del suo funerale, avvenuto il 2 novembre, fa indignare chiunque ne legga la cronaca e i racconti di chi ha vissuto quei fatti. L’hanno chiamato il “pogrom”, parola di origine russa che significa “devastazione”, perché questo è ciò che i testimoni descrivono. In quei lunghi giorni ci fu la carneficina di oltre 3000 sikh che furono oggetto di incredibili violenze e persero la vita. La cronaca racconta di intere famiglie sterminate e di case bruciate e saccheggiate. Le foto dell’epoca ritraggono decine e decine di corpi brutalmente seviziati, bruciati, percossi a sprangate e uccisi, così tanti che il sangue provocato dalle ferite rimaneva intrappolato tra i brandelli di carne non riuscendo a defluire nei canali di scolo. I gurudwara (i templi sikh) furono devastati per impedire che i fedeli vi si rifugiassero o vi organizzassero una difesa. I sikh venivano persino fatti scendere dai treni in transito, perchè non ne restasse vivo neppure uno. Furono uccisi come animali uomini, donne e bambini. Tutto questo avvenne nella capitale Delhi (molti sono stati massacrati nella zona est di Delhi e la maggior parte delle vittime, circa 350, erano residenti del Blocco 32 in Trilokpuri), ma anche a Gurgaon, Kanpur, Bokaro, Indore e molte altre città dell’India. Tutto avvenne in 72 ore. I feriti non venivano soccorsi e le preghiere di aiuto non venivano accolte. L’inviato Giorgio Signorini, giornalista de La Repubblica, inviato sul luogo, nel suo articolo “A SHADARA, TRA I SIKH SCAMPATI AL MASSACRO” così scrisse “Come una fiammata l’ assalto contro la comunità sikh, dopo aver devastato tra mercoledì e giovedì le periferie meridionale e occidentale di Delhi, ha passato il fiume investendo, tra venerdì e sabato, tutta questa zona orientale. Ed è stato un assalto di violenza inaudita. I racconti che ci erano stati fatti, le testimonianze che avevamo raccolto ci avevano preparato al peggio. Ma lo spettacolo che è apparso ai nostri occhi appena lasciato il vecchio ponte che, oltre Forte Rosso, porta verso Oriente e sul quale corrono anche i binari della ferrovia – ieri mattina sempre senza vita – ha superato ogni più macabra immaginazione. Case bruciate, piccoli spiazzati in cui larghe tracce di sangue fanno testimonianza di cadaveri frettolosamente raccolti in attesa che i camion militari venissero a portarli via senza possibilità di identificazione, ammassi di cenci, stoviglie, brande, carte e oggetti vari provenienti da negozi saccheggiati, grandi televisori infranti da rapinatori troppo carichi di bottino o timorosi di venire sorpresi. E nell’ aria, sotto il sole scottante di una estate che continua a fornire trenta gradi all’ ombra, un odore di morte in uno scenario di tragedia. Ora c’ è l’ esercito che controlla i posti di blocco: le autoblindo sono schierate alla periferia dei campi in cui gli scampati al massacro hanno trovato un rifugio improvvisato ma dove restano, abbandonati a loro stessi, senza aiuti, senza rifornimenti, senza medicinali. Fino a sabato, quando l’ esercito presente a Delhi era tutto impegnato nel garantire la sicurezza del solenne funerale di Indira e dei convenuti a quella cerimonia, erano solo rare pattuglie di polizia che presidiavano questa immensità. E, a quel che raccontano gli scampati, queste pattuglie quando non sono rimaste passive spettatrici di ciò che stava accadendo, hanno partecipato attivamente almeno al saccheggio”. KHUSHWANT SINGH, ex membro dell’ Indian Parliament scrive nel suo libro “My Bleeding Punjab (1992)”: “I realized what Jews must have felt like in Nazi Germany. The killing assumed the proportion of a genocide of the Sikh community. For the first time I understood what words like pogrom, holocaust and genocide really meant. Sikh houses and shops were marked for destruction in much the same way as those of Jews in Tsarist Russia or Nazi Germany.” (Ho capito quello come si sono sentiti gli ebrei nella Germania nazista. L’uccisione ha assunto la proporzione di un genocidio della comunità Sikh. Per la prima volta ho capito il vero significato di parole come pogrom, olocausto e genocidio. Le case e i negozi dei sikh sono stati segnati per la distruzione più o meno allo stesso modo di quelle degli ebrei nella Russia zarista e la Germania nazista).
In questi 28 anni, alcune commissioni sono state istituite per esaminare i diversi aspetti del pogrom anti-Sikh ma a tutt’oggi non è ancora venuta fuori la verità e giustizia non è stata fatta. Circa dieci sono state le persone condannate per omicidio e almeno 500 sono state quelle assolte. Molti casi sono stati archiviati direttamente dalla polizia e non hanno raggiunto i tribunali. Le vie ufficiali governative attestano a circa 2733 il numero di persone perite in quell’ondata di violenza contro la comunità sikh. Gli attivisti sostengono che circa 4.000 persone sono state uccise negli scontri. Finita la devastazione, il 2 novembre Indira Gandhi è stata cremata e le sue ceneri, secondo la tradizione induista, sono state suddivise e racchiuse in undici urne per essere portate in giro per ognuno degli Stati, prima di essere disperse sulle nevi dell’ Himalaya. In risposta alle uccisioni Sikh a Delhi e in altri luoghi, l’ appena nominato primo ministro Rajiv Gandhi nel suo discorso il 19 novembre 1984 al Boat Club a Delhi giustificava la violenza come un fenomeno “naturale” :
Ci sono stati disordini nel paese dopo l’omicidio di Indiraji. Sappiamo che le persone erano molto arrabbiate e per qualche giorno sembrava che l’India fosse stata scossa. Ma, quando un possente albero cade, è naturale che la terra intorno si agiti un po’ ”.

Immagine

Sequence of events (fonte: http://www.ensaaf.org/pdf/reports/kristallnacht.pdf)
October 31, 1984
• 9.20 am: Indira Gandhi was shot by two of her security guards at her residence No. 1, Safdarjung Road, New Delhi and rushed to the All India Institute of Medical Sciences (AIIMS).
• 11 am: Announcement on All India Radio specifying that the guards who shot Indira Gandhi were Sikhs. A big crowd gattered near AIIMS.
• 4 pm: Rajiv Gandhi returned from West Bengal and reached AIIMS. Stray incidents of attacks on Sikhs in and around that area occur.
• 5.30 pm: The cavalcade of Sikh President of India Zail Singh, is stoned as it approached AIIMS.
• Late evening and night: Mobs fanned out in different directions from AIIMS. The violence against Sikhs spread, starting in the neighbouring constituency of Congress (I) councillor Arjun Dass. The violence included the burning of vehicles and other properties of Sikhs. Shortly after Rajiv Gandhi was sworn in as Prime Minister,senior advocate and Opposition leader Ram Jethmalani met home minister P.V. Narasimha Rao and urged him to act fast and save Sikhs from further attacks. Despite all these developments, no measures were taken to control the violence or prevent further attacks on Sikhs throughout the night between October 31 and November 1.

November 1, 1984
Several Congress (I) leaders held meetings on the night of October 31 and morning of November 1, mobilising their followers to attack Sikhs on a mass scale. The first killing of a Sikh reported from east Delhi in the early hours of November 1. About 9 am, armed mobs escorted by the police, take over the streets of Delhi and launch a full scale massacre.

Prendetevi la sacrosanta libertà di essere informati, visitate i siti su questo argomento, italiani e non. Fatevi la vostra opinione, in autonomia, perch questo blog segnala ma non giudica. E’ solo uno degli innumerevoli episodi di violenza perpetrati nel mondo verso l’essere umano, ma andava raccontato.

http://en.wikipedia.org/wiki/1984_anti-Sikh_riots
http://www.ensaaf.org/pdf/reports/kristallnacht.pdf

http://en.wikipedia.org/wiki/Operation_Blue_Star