Madre

 Mia madre era disabile, aveva una gamba sola e camminava con le stampelle. La odiavo perché altri bambini mi prendevano in giro a causa della sua condizione che a me portava un grande imbarazzo. Quando camminavo accanto a lei tutti mi guardavano con occhi strani e questo non mi piaceva affatto. Non ho mai conosciuto mio padre e lei mi raccontava che lui l’ha lasciata presto sola e se ne è andato chissadove; altro di lui non ho mai chiesto perché non mi interessava sapere di più su qualcuno che non ho mai visto. A volte pensavo che fosse a causa di mia madre se lui adesso non era qui con noi.

Una volta, quando ancora andavo a scuola, dimenticai la gamella del pasto e mia madre venne a portamela in classe; fu un gesto gentile ma, invece di ringraziarla, mi arrabbiai moltissimo e le dissi di andarsene altrimenti gli altri avrebbero cominciato a prendermi in giro. Così fece, senza dirmi una parola.

La mia scuola era una delle più belle della città, frequentata da figli di ricchi signori; durante le riunioni di classe i loro genitori arrivavano su grandi macchine e indossavano vestiti moderni ed eleganti , mentre a mia madre, che invece vestiva ordinario, avevo detto di non venirci mai.

L’unica cosa bella è che ero bravo nello studio ed uno dei migliori studenti della classe, tanto che, dopo la scuola, ebbi l’opportunità di entrare in uno dei migliore istituti per Ingegneri di Nuova Delhi. Lì, quindi, mi trasferii, condividendo una camera dell’ostello con i miei compagni di classe. Solo una volta all’anno andavo a trovare mia madre perché preferivo trascorrere le vacanze scolastiche con i mie amici. Dopo la laurea venni assunto da un’ azienda molto conosciuta e mi trasferii a Mumbai; guadagnavo bene e quindi, in poco tempo, potei permettermi una casa tutta mia, mi sposai ed ebbi due figli.

In questi anni andai a trovare mia madre solo due volte essendo molto occupato con il mio lavoro. Ero felice per la mia carriera e con la mia famiglia, avevo benessere e comfort. Un giorno invitai i miei capi e alcuni colleghi ad una festa nella mia bella casa, considerando che tal cosa aiuta la carriera; mentre stavamo festeggiando, qualcuno bussò alla porta e, quando andai a vedere, scoprii che era mia madre; mi arrabbiai molto, perché era venuta senza avvisarmi. Ma lei aveva capito e, senza dire una parola, mi abbracciò, mi baciò sulla fronte e se ne andò.

Pochi giorni dopo ero in ufficio a lavorare sodo quando ricevetti una telefonata; mi dissero che Lei era in ospedale e che stava molto male. Io avevo un importante appuntamento d’affari cui non potevo mancare e, quindi, solo la sera, potei prendere un treno da Mumbai; la mattina, arrivato in ospedale, l’ infermiera mi comunicò che mia madre era morta e che aveva lasciato una lettera per me.

Mio carissimo figlio, pezzo del mio cuore, prima di morire vorrei vederti e abbracciarti, ma non so se riuscirò, quindi ti scrivo tutto ciò che avrei voluto dirti. Non mi hai mai chiesto di tuo padre e perciò non ti ho mai raccontato di lui ma voglio che tu sappia perché mi ha lasciato. La notizia che sarei diventata mamma fu la notizia più bella della mia vita. Per tuo padre, invece, non fu proprio così preferendo la carriera a tutto il resto e quindi mi ordinò di abortire. Ma questo per me era difficile e lo pregai di non farlo ma i sentimenti di una madre e l’amore per i figli non sono comprensibili a tutti; infatti lui non capii, mi lasciò e se ne andò in Australia. In quel brutto periodo in cui rimasi sola tu eri sempre con me, ti sentivo nella mia pancia. Quando sei nato, il tuo pianto e le tue risa mi hanno dato coraggio e la convinzione di non essere sola. Un giorno, quando tu avevi quasi 3 anni, andammo a comprare; mentre stavo comprando la frutta su una bancarella, ti eri spostato verso la strada, quando vidi che una macchina stava arrivando velocemente verso di te; mi buttai davanti all’auto per salvarti, spingendoti più in là. Così persi una gamba e diventai una disabile. Quando ti vedevo camminare, giocare e correre con gli altri bambini me ne dimenticavo ogni volta. Sono stata felice di averti salvato, regalandoti una vita normale. La povertà non mi permise di continuare a studiare perciò impiegai il denaro di una vita affinché, almeno tu, potessi frequentare una delle migliore scuole; oggi sono contenta della tua bravura e dell’ottimo lavoro che hai. Mi dispiace di essere venuta da te senza avvisarti; la notte avevo fatto un brutto sogno e la mattina sono andata nel tempio a pregare che Dio facesse morire prima me. Così sono partita subito per Mumbai e, quando ti ho visto, mi sono tranquillizzata. Sono contenta che Dio mi abbia ascoltato.

Tua Madre “.

TESTO BY PASSOININDIA

FOTO: STEVE MCCURRY

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Viaggiare

Viaggiare

Posted on gennaio 18, 2013  da noruleswords.wordpress.com

Viaggiare è una delle cose più belle che esistano. Le sensazioni che ti regala un viaggio, ciò che provi quando le gomme dell’auto mordono l’asfalto, è qualcosa di sublime. Lasciarsi trascinare dal proprio istinto e godersi il viaggio è molto più appagante dell’arrivo alla meta. Perché in quel momento ti rendi conto che qualcosa è terminato.

Viaggiare senza destinazione, senza sapere dove stai andando, facendoti trasportare da meravigliose emozioni e dall’istinto, è inimitabile. Essere in viaggio stimola la tua mente. Non sai cosa troverai dietro la prossima curva, non sai quale panorama potrai godere una volta uscito dalla galleria, mentre il sole ti abbaglierà perforando il parabrezza e il suo calore vitale colmerà il tuo corpo di gioia.
I campi di grano riempiranno d’invendibile oro i tuoi occhi, verdi vallate costellate di vigne che produrranno ottimo nettare degli dei s’inerpicheranno dentro di te fino a raggiungere il tuo cuore, fianchi di montagne e alte vette innevate si staglieranno all’orizzonte a ricordare la loro immensa eternità.
Intanto i giri del motore accompagnano le tue sensazioni, le cullano come dolci onde del mare calmatosi dopo una bufera, come una nonna che cantando una ninna nanna vuole far addormentare un cucciolo d’uomo, e quell’ottuso e soffice rombo ti ricorda che stai ancora viaggiando, che stai percorrendo strade sconosciute verso mete forestiere, che non sei sul solito percorso del quale conosci a memoria la posizione di buche e tombini, la durata del rosso ai semafori, le precedenze e la posizione di tutte le strisce pedonali.
La radio a basso volume trasmette una canzone rock che ti fa venire voglia di prendere un flessibile ed eliminare per sempre il tettuccio della tua auto, perché tu possa godere anche del vento che accarezza amichevolmente le guance facendole arrossire quasi d’imbarazzo, come un caldo abbraccio di un vecchio amico.
Sì viaggiare, cantava uno che di musica ne capiva davvero.
Poi ti accorgi che devi ancora girare le chiavi nel cruscotto, e allora sorridi, perché ti rendi conto che riesci ancora a viaggiare nel migliore dei modi.

da NORULESWORDS.WORDPRESS.COM

Un pezzo di prato

Non amo molto raccontare di me, almeno non pubblicamente. Oggi lo faccio con questa mia semplice storia scritta in un momento particolare della mia vita. Lo faccio oggi, anche oggi particolare.

I mei ricordi girano 
intorno ad una casa
quando ancora il prato 
era un posto in cui giocare
e i vecchi mi tenevano per mano 
 
Mi sovviene la domenica
il sugo della nonna
quel sapore che non dimentico 
che non si fa più
perchè oggi manca il tempo 
 
Quando saltavo sul letto intatto
l’odore della naftalina
scivolava dagli armadi 
perchè allora si voleva conservare

 
Mi divertivo a fingere la spesa 
davanti a una bilancia 
e alla carta del pane 
su cui scrivere il conto
 
E ad uno zio 
che mi
ha fatto da padre
tiravo i piedi 
per farlo divertire
 
Dormivo in un letto 
coperto da un telo a fiori 
senza una piega
protetta da un paio di sedie
per non farmi cadere
 
Le lasagne fatte in casa
si bollivano su una stufa di ghisa
e il rumore del coperchio 
rimosso per la legna
mi suona ancora fresco
 
Con un piccolo borsellino 
regalato dalla nonna
ed un bambolotto
mi inventavo la donna
che non sarei mai diventata
 
Il minestrone cuoceva per ore
verdura fresca e pulita
insieme alla crosta di formaggio
in cui affondavo i denti
 
Ricordo l’odore della brillantina
in quel piccolo bagno freddo 
che dava sul balcone
la Jacuzzi ad angolo 
era una piccola conca di plastica
 
Mi capita a volte
di sentire sull’autobus
arrivare da un uomo d’altri tempi 
il profumo della Linette
la brillantina dello zio
unico vezzo concesso
 
Gli occhi dolci della nonna
e le spalle buone dei miei vecchi
li ritrovo
quando penso 
a quanto la vita si prenda 
in questo scambio iniquo
 
Se passeggio
nei vicoli di paese 
guardo su, 
sui poggioli ammuffiti 
dove un tempo 
si affacciavano le zie
 
e sotto, il fornaio,
che oggi non c’è più, 
vestiva la farina 
usata per il pane
 
C’era un piccolo spazio
davanti ad una chiesa
dedicato alle altalene
ferro rosso arrugginito
dove le foglie a terra – dei platani
schioppettavano al passaggio
 
Mi facevo una tenda
sul poggiolo della casa
con vecchie stoffe
fermate da mollette 
rubate al bucato
 
Credevo 
di essere una squaw
oppure una gran dama
dipendeva dalla quantità 
della stola 
usata per coprirmi
 
Quando calpesto 
il mio prato 
quello che ho dovuto pagare – per averlo – 
viene fuori il profumo
di un’erba infestante
infestante la memoria
 
che associo 
alla riva di un fiume
vicino ad un’altra chiesa
dove sguazzavano girini
da pescare col secchiello 
perché a quell’età 
non comprendi il valore della vita
 
Rivedo il cimitero 
io per niente foscoliana
onorato dai miei vecchi 
perché a quell’età 
comprendi invece il valore della vita
 
Ho in mente 
la moto di un ragazzo 
il mio primo amore
che mi ha regalato 
le canzoni di Neil Young
e il sogno americano
 
Oggi alleva cavalli 
nell’entroterra ligure
 
Non ci siamo 
mai baciati
 
Ho lasciato quella casa
e tutto l’odore di buono 
quando se ne è andata 
la prima parte di me 
velocemente, crudelmente
 
Dalla mia nuova casa 
con il prato (comprato)
rivedo mille volte 
le scene a cui 
non ci è concesso tornare
 
Gli alberi 
gli uccelli 
i gatti 
sono sempre 
gli stessi
 
Oggi 
fai prima 
a trovare una moneta
che un pezzo di prato.

TESTO E PHOTO BY PASSOININDIA

Rossellini in India. Gil, il suo figlio adottivo.

Roberto Rossellini girò in India una serie di documentari per la Rai e nel corso di questo viaggio s’innamorò di una donna indiana di nome Sonali Dasgupta. La relazione provocò la forte reazione della famiglia di lei, che era sposata e aveva dei figli, e il turbamento della società tradizionale indiana, oltre alla rottura del matrimonio con Ingrid Bergman.

Girando per la rete ho trovato questo articolo che, a mio parere meglio di altri, racconta di quella storia e delle sue conseguenze….

I due fratelli Gil Rossellini e Raja Dasgupta Sunil Deepak, 7 luglio 2009

da: http://www.kalpana.it/ita/scrittori/sunil_deepak/gil_rossellini_raja_dasgupta.htm

Alcune persone nascono nel segno del destino, che gli prende e poi disegna per loro delle vite improbabili che sembrano inventate dalla fantasia di qualche scrittore. Anche la storia dei fratelli Raja e Gil sembra scritta da uno scrittore.

Circa 9 mesi fa, il 3 ottobre 2008, Gil è morto a Roma. Non aveva ancora compiuto 52 anni. Con la notizia della sua morte, i giornali italiani hanno parlato di lui come il “figlio adottivo di Roberto Rossellini, era il figlio della sua compagna indiana Sonali Dasgupta avuta dal suo primo matrimonio”. Insieme, vi erano poche righe sulla sua malattia a causa della rara patologia che l’aveva costretto su una sedia a rotelle negli ultimi anni e sull’ultimo episodio del suo documentario riguardo alla sua malattia, “Kill Gil volume 2 e ½”.

Non ho mai avuto l’occasione di conoscere Gil Rossellini, ma conosco suo fratello maggiore, Raja Dasgupta, che fa il regista e vive a Calcutta in India con sua moglie, l’attrice Chaitali e con i suoi due figli, entrambi registi.

Inizio della storia: Vorrei iniziare questa storia dagli eventi alla fine del 1956 e all’inizio del 1957 che avevano coinvolto i loro genitori, quando Raja aveva 4 anni e Gil aveva pochi mesi e ancora si chiamava Arjun, come l’eroe guerriero del poema epico indiano Mahabharata. Raja e Arjun, erano figli di Harisadhan e Sonali Dasgupta.

Quando nacque a Bombay il suo secondogenito Arjun, il 23 ottobre 1956, Harisadhan aveva 34 anni, era un regista benglaese molto stimato, compagno, collaboratore e amico di registi come Satyajit Ray.  Il primo figlio, Raja, era nato nel 1952.

Sonali Senroy Dasgupta, la moglie di Harisadhan Dasgupta, si era sposata a 21 anni, veniva da una famiglia che aveva diversi legami con il mondo del cinema e della letteratura e si dice che sperava di diventare un’attrice. Tra i parenti contava il poeta premio nobel Ravindranath Tagore e una delle sue zie era la moglie di Bimal Roy, un regista pluri-premiato riconosciuto tra i grandi maestri del cinema di Bombay.

Nel frattempo, il famoso regista italiano, Roberto Rossellini, che allora stava con l’attrice svedese Ingrid Bergman, fu invitato in India dal primo ministro indiano, Pandit Jawahar Lal Nehru con l’idea di girare un film sull’India. In dicembre 1956, quando Roberto arrivò in India, aveva 51 anni. Sonali fu assunta come una sua collaboratrice per le riprese del  film. Roberto doveva viaggiare in diverse parti dell’India per girarlo. L’equipe di Roberto fu accompagnato anche da Makbul Fida Husein, uno dei pittori più famosi e importanti dell’India.

La storia d’amore tra il regista italiano e la donna sposata e madre di 2 figli, aveva suscitato grande scandalo e i giornali chiedevano l’allontanamento di Rossellini dall’India. Nel settembre 1957, circa 9 mesi dopo l’arrivo di Roberto in India, una notte Sonali arrivò con il piccolo Arjun in braccio all’hotel di Roberto a Bombay. Avevano deciso di sfuggire a Delhi e poi in Europa. Sonali viaggiò in treno a Nuova Delhi accompagnata da Husein, travestita da una signora musulmana.

Nonostante le proteste popolari contro questa storia d’amore proibito, il primo ministro indiano Pandit Nehru e la sua figlia, Indira Nehru Gandhi, aiutarono Roberto e Sonali a lasciare l’India, insieme al piccolo Arjun. Due mesi dopo, a Parigi, Sonali partorì una bambina, Raffaella.

La trasformazione di Arjun in Gil: In Italia, Arjun Dasgupta fu legalmente adottato da Roberto e diventò Gil Rossellini.

Suo fratello maggiore, Raja, non si  ricorda il trauma di quei giorni, dice che era circondato dai nonni, zii, zie e cugini della famiglia allargata e  non aveva sentito la mancanza della mamma.

In Italia, anche Gil si trovò subito circondato da una grande famiglia, composta dai figli che Roberto aveva avuti dalle sue precedenti unioni con Marcellina e Ingrid. Gil aveva un buon rapporto con il padre adottivo Roberto e si identificava con lui, come si può intuire dalla sua passione per le macchine da corsa, dichiarata in un’intervista al festival del cinema di Venezia nel 2005, “Quella per la Formula 1 è sempre stata una mia passione. E’ una cosa che ho nel sangue. La zia di mio padre, la baronessa Maria Antonietta Avanzo, correva per la Ferrari alla fine degli anni Venti e mio padre corse anche la Mille Miglia“.

Nella sua breve biografia presentata al festival di Venezia del 2005, lui si presentava con le seguenti parole, “Nato a Bombay, figlio di Roberto Rossellini e di Sonali Das Gupta, Gil Rossellini é cresciuto viaggiando fra l’Italia e l’America e, pur conservando una cadenza romana, ha il cuore diviso fra Occidente ed Oriente.

Dall’altra parte, la stampa italiana parlava di lui quasi sempre come “il figlio adottivo”, forse questo urtava la sua sensibilità? Gil aveva ereditato anche il colore della pelle più scura da suo padre naturale, e forse anche questo creava qualche difficoltà per lui, soprattutto quando era giovane.

Per esempio, Palmira Rami, moglie del giardiniere di Villa Bergman a Santa Marcellina (RM) si ricorda così l’infanzia di Gil, “Roberto era andato in India ed aspettava lì l’arrivo di Ingrid ma Ingrid non vi andò, stava girando un film con Lars e così Roberto tornò dall’India con una nuova fiamma, la bellissima Sonali. Avevo grande simpatia per il figlio Jill, un simpaticissimo negretto che Sonali aveva avuto dal suo precedente marito. Ricordo che mio figlio Sergio non voleva giocare con Jill, perché aveva paura e i grandi sforzi di Giovanna Ralli per cercare di convincere Sergio a giocare con Jill. Jill era un bambino molto buono e faceva di tutto per guadagnarsi l’amicizia di mio figlio. Jill era un bambino molto sensibile e soffriva molto quando nella villa veniva tanta gente e lui essendo scuro di pelle si sentiva molto osservato, allora correva da me e da Iva la cuoca e si metteva a piangere dicendo che voleva essere un bianco.

Gil studiò a Roma e poi, nel 1971 si trasferì in America, dove frequentò l’Università di Rice e l’università di Houston. Dopo gli studi universitari, lui lavorò come musicista a Houston per sei anni fino al 1980.

Nel 1984 quando oramai aveva 28 anni, Gil aveva incontrato suo padre naturale, Harisadhan Dasgupta, per la prima volta dopo la fuga dall’India nel 1957. Non tornò per incontrare Harisadhan altre volte, ma era rimasto in regolare contatto con il fratello Raja. Harisadhan si ritirò dal mondo dal cinema nel 1986 e morì a Santiniketan nel 1996.

Raja sceglie il mondo del cinema: Raja aveva frequentato la scuola Calcutta Boy’s school e poi si era laureato presso l’università di Nuova Delhi nel 1974, l’anno in cui incontrò anche sua madre a Delhi per la prima volta dopo un intervallo di 17 anni.

Tra il 1976 e il 1982, Raja aveva assistito il padre nella realizzazione di diversi documentari. Ha realizzato il suo primo documentario nel 1979, “Una canzone per Birsa”, vincitore del premio dei giornalisti per il migliore documentario. Quello stesso anno era nato suo primo figlio Birsa.

Negli ultimi 30 anni, Raja ha girato un centinaio di film, tra i quali telefilm, documentari, pubblicità e fiction. (Completa filmografia di Raja Dasgupta)

Raja si presenta come una persona molto tranquilla e calma. Quando gli chiedo di parlare di quegli anni, quando sua madre era andata via con  suo fratello, lui risponde senza grande enfasi, “Per molti anni non lo sapevo, ero circondato da parenti e dalla famiglia!” Dice anche che non sente nessun rancore per quello che era successo tra i suoi genitori e che ha un rapporto tranquillo con la madre.

Gli anni di lavoro di Gil: Nel 1981 Gil iniziò a lavorare nell’ ambito della produzione cinematografica a New York, e continuò in questo campo fino al 1984. In questo periodo, lui aveva partecipato nelle equipe di diversi film compreso “Il re della commedia” di Martin Scorsese e “C’era una volta in America” di Sergio Leone.

Nel 1984 Gil iniziò la sua carriera di regista, scrittore, produttore di film, cortometraggi, documentari, reportage, video musicali e eventi multi-mediali, dando avvio al “Rossellini & Associates” che aveva uffici in New York (USA), Roma (Italia) e Nuova Delhi (India).

I suoi più importanti lavori (film e documentari) realizzati tra il 1985 e il 1993, comprendono i film naturalistici (“The language of the Elephants” e “Elephants like us”), rock-opera multimediale (The polyhedron of Leonardo), 3 cortometraggi su Roberto Rossellini per il festival di Cannes (“Un Espirit Libre”, “Il Technique d’un Reve” e “India 33 Ans Apres”) e una serie televisiva sui conflitti in Europa vincitore di diversi premi internazionali (Enemy Mine).

Nel 1997, insieme a Lucky Red, lui aveva prodotto un film di Carl Haber, L’Amico di Wang. Questo film non ha  trovato consensi, né della critica né del pubblico in Italia, anche se poi aveva vinto un premio ad un festival della commedia a Houston in America. Gil aveva partecipato in questo film anche come soggettista e sceneggiatore.

Nel 2001, dopo gli attacchi terroristici  alle torri gemelle, a New York, lui aveva contribuito ad un documentario, “I 18 minuti che sconvolssero il mondo”. Nel 2003, aveva co-prodotto e co-diretto “The Hole in the Wall”, vincitore del premio di Houston (USA). Nel 2004, aveva collaborato alla realizzazione di “Un Silenzio Particolare” del regista Stefano Rulli. Sempre nel 2004, aveva collaborato anche alla realizzazione di “La Principessa di Monte Ledang”, un film malese, candidato al premio oscar come miglior film straniero. Sempre nel 2004, con l’amico Samir Gupta aveva fondato l’East India Production Company per promuovere a livello internazionale le opere di nuovi talenti indiani.

Lui si era sposato con Eddy Fortini e poi la coppia aveva divorziato. Sembra che non avessero figli. Eddy è venuta al festival del cinema di Roma in ottobre 2008, per presenziare la proiezione di “Kill Gil 2 e ½”, dopo la scomparsa di Gil.

La tragedia improvvisa: La tragedia arrivò con  passi felpati nell’autunno del 2004, quando un giorno Gil  era scivolato nella vasca da bagno a Roma e aveva battuto le testa contro un vecchio specchio. Fu portato al pronto soccorso e gli fu riscontrata una ferita e una contusione. Tornò a casa incerottato e con un collarino. Il 19 novembre 2004, era al festival del cinema di Stoccolma in Svezia per presenziare la proiezione di “La Principessa di Ledang”, quando avvertì un malore e all’improvviso entrò in coma. I medici del Karolinska institute di Stoccolma gli diagnosticarono una rara infezione da stafilococco, dovuta al trauma nel bagno a Roma.

Dopo 3 settimane di coma e dopo diversi interventi, Gil aveva ripreso coscienza, ma oramai aveva  la paraplegia ed era stato trasferito in una clinica specialista in Svizzera, dove è rimasto fino al 2005, e da dove, era uscito su una sedia a rotelle.

Gli ultimi anni di Gil: Mentre Gil si trovava ricoverato in Svizzera, fu la sorella Isabella (figlia di Roberto e Ingrid) a dargli l’idea di riprendere la propria vita con la videocamera, dalla quale nacque il primo documentario sulla sua malattia, “Kill Gil”, presentato al festival di Venezia nel 2005. L’anno dopo, nel 2006 lui tornò al festival con il suo secondo documentario “Kill Gil 2” che continuava a registrare i passaggi della sua malattia. L’ultima (terza) parte di questo documentario, “Kill Gil 2 e ½” è stato presentato al festival del cinema di Roma qualche settimana dopo la sua scomparsa.

I suoi ultimi anni avevano visto la sua famiglia circondarlo, come si capisce da questa testimonianza di Sigismondo Nastri riguardo alla proiezione di “Kill Gil 2” al cinema Fiamma a Maiori (Positano) nel 2006, “La famiglia Rossellini, quella sera, a Maiori, si ritrovò quasi al completo. Con Renzo, nume tutelare del Premio Roberto Rossellini, c’erano la sorella Isabella e il fratello Robertino” per accompagnare Gil.

Al funerale di Gil a Roma, c’erano Renzo (primogenito di Roberto e Marcellina) e i suoi figli, Alessandro e Rosa per rappresentare la famiglia.

Negli ultimi mesi della sua vita, Gil aveva continuato a fare nuovi progetti per i film da realizzare. Nelle sue “note di regia” per il suo ultimo lavoro “Kill Gil 2 e ½”, datate 10 agosto 2008, Gil aveva scritto:

A Novembre, il 19 per l’esattezza, sarà il 4° anniversario delle mie disavventure legate alla salute. Con Kill Gil (Vol. 2 e ½) si chiude la trilogia con la quale ho cercato di trasmettere agli altri quello che mi è successo, sia esteriormente che dentro la mia testa. L’ho fatto col linguaggio a cui sono abituato, quello del documentario o, se vogliamo essere più precisi, con la formula del video-diario.

Con questo si chiude, e questa volta per davvero, il mio narrare di me stesso. Come ho già detto e qui ribadisco, farò KG3 solo se torno a camminare, cosa che per lo stato attuale della medicina è assolutamente impossibile. Certo, rimane la mia speranza in un miracolo, ma sopratutto la voglia di vivere questa condizione nel modo migliore possibile.

È ora per me di tornare a raccontare di fatti altrui, cosa che in parte ho già fatto realizzando in questi ultimi diciotto mesi dei documentari che nulla avevano a che fare con me e con la mia malattia: El Sur De Vuelta, un road documentary sul Sud del Libano un anno dopo l’ultima guerra. Di questo film ho fatto da supervisore sia alla produzione che alla regia, telecomandando il tutto dal mio letto. Prima però avevo realizzato due documentari in prima persona, un corto di 15 minuti per Raisat Cinema World sulla mia partecipazione al Festival documentaristico di Al Jazeera a Doha nel Qatar e prima ancora un film/concerto in alta definizione su una performance della Dizzie Gillespie Jazz Band. Presto sarò fuori dall’ospedale ed ho mille progetti tra i quali un film in stretta collaborazione con Rai Cinema, L’Indiano Con-Turbante, una commedia romantica che, insieme a Stefania Casini, dovrebbe vedere il mio debutto alla regia di un film cinematografico.

E’ strano come Einstein avesse ragione e tutto sia relativo a seconda del punto di vista: quando seppi che non avrei più camminato provai un’immensa e giustificata tristezza. E vidi nella sedia a rotelle uno strumento di tortura. Ora che sono a letto da tanti mesi la sedia a rotelle rappresenta per me un sogno bellissimo.

Sento un gran bisogno di normalità anche se mi rendo conto che ciò che rimane della mia vita, nel bene e nel male, non sarà poi tanto normale.

Ho perso le mie gambe ma ho trovato tanti amici e tutto sommato credo che sia stato un buon affare. E per onestà nei confronti dei miei amici e della mia famiglia non mi resta che fare il meglio che posso prendendo la vita un giorno alla volta.

In “Kill Gil 2 e ½”, Gil parla anche della propria vita, “Ho avuto una vita movimentata, ho incontrato persone straordinarie, ho visitato luoghi di impareggiabile bellezza e, anche se abbiamo divorziato, ho avuto la fortuna di convivere e sposarmi con una donna bella e intelligente. Ho gareggiato con auto storiche bellissime e ho suonato professionalmente per sei anni. Ho anche prodotto tre film e realizzato un gran numero di documentari. Ho amici sinceri in cinque continenti che mi sono stati vicini anche dopo la malattia”.

Negli ultimi anni, oltre alla sua passione per il cinema, Gil era diventato anche un sostenitore dei diritti delle persone con disabilità. In un’intervista rilasciata nel 2006, Gil aveva detto, “Vi siete mai chiesti perché mai si vedono così pochi disabili in Italia? Molti si vantano dicendo che siamo un popolo di persone sane. Ma non è vero: sono tre milioni gli italiani disabili. Tre milioni di persone che non escono di casa.

Così con il “Kill Gil 2”, Gil si era deciso “ad affrontare non con mano pesante e, senza fare comizi, l’impossibilità di abitare a Roma per chi vive questa condizione. E parlo di Roma solo perché è la città in cui vivo, non solo per i problemi oggettivi di questa città piena di saliscendi, ma per il fatto che anche quando l’amministrazione ha lavorato bene si incontra l’indifferenza della gente. Negli scivoli per i portatori di handicap trovi parcheggiati dei motorini e anche nei posti auto riservati sono occupati da chi non ha il permesso“.

Conclusioni: Raja e Gil, due fratelli, cresciuti migliaia di chilometri lontani uno dall’altro, avevano trovato la stessa passione del cinema, quello che riuniva anche i loro padri, Harisadhan e Roberto. Il destino aveva preso per mano Gil e gli avevo dato la possibilità di crescere circondato dal mondo del cinema internazionale, mentre Raja è rimasto più ancorato al cinema bengalese.

Forse dentro di sé Gil portava le ferite dal suo passato, ma sembra che alla fine avesse trovato un suo equilibrio. Quando tutto sembrava procedere per il meglio per lui, all’improvviso, il destino  era intervenuto di nuovo, portandolo in una direzione inaspettata, fino alla sua scomparsa.

Con l’aiuto di Gil, Raja pensava di realizzare un film sulla vita di Mir Zafar, un personaggio della storia indiana ai tempi del colonialismo inglese. Dice, “Questo film ha bisogno di sostegno internazionale. Gil era entusiasto all’idea del film. Ma dopo la sua scomparsa, penso che il mio sogno resterà solo un sogno.

Raja spera che la sua eredità artistica troverà una nuova direzione tramite i suoi figli. In questi giorni, suo figlio maggiore, Birsa Dasgupta ha finito il primo film “033” che dovrebbe uscire nelle sale cinematografiche indiane fra 1-2 mesi. Il lavoro di Birsa ha ottenuto importanti riconoscimenti ed è considerato tra i più importanti registi emergenti del cinema bengalese indiano.

Lo scandalo per la storia d’amore tra Roberto e Sonali ormai è una pagina sbiadita della storia. Roberto Rossellini si era spento nel 1977, mentre Sonali Senroy Dasgupta Rossellini vive isolata a Roma, circondata da suoi ricordi. Chissà quanto avrebbe da raccontare, ma lei preferisce il silenzio!

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http://www.kalpana.it/ita/scrittori/sunil_deepak/gil_rossellini_raja_dasgupta.htm

La storia d’amore di Sohni e Mahiwal

“CHI ERANO MAHIWAL E SOHNI?” chiese il bambino. E la mamma, per farlo addormentare, cominciò a raccontare…..

“In un villaggio di nome Gujrat, lungo il fiume Chenab nel Punjab pakistano, sulla rotta commerciale tra Delhi e Bukhara,abitava un vasaio della casta Kumhar che creava i vasi di terracotta più belli della regione. Si chiamava Tulla ed era conosciuto in tutto il paese e la gente veniva da ogni parte per acquistare la sua bellissima ceramica. I vasi erano ben cotti e robusti, e se ne trovavano di tutte le forme e dimensioni. Tutti i vasi erano meravigliosamente dipinti a mano tanto che ognuno era unico ed irripetibile. Quando Tulla e sua moglie ebbero una figlia, fu il giorno più bello della loro vita. Era la più bella bambina che avessero mai visto. La chiamarono Sohni, che in punjabi significa “bella”. Con il tempo la sua bellezza aumentò.

Tulla aveva insegnato a sua figlia l’arte di decorare la ceramica. Sohni diventò molto brava in questo, tanto che, quando suo padre invecchiò e la sua vista diminuì, Sohni continuò ad esercitare quest’arte arricchendo il suo lavoro di un tocco personale. Un giorno, un giovane uomo molto ricco arrivò dalla grande città  di Bukhara in Uzbekistan e si recò nel laboratorio di Tulla per comprare un po’di ceramica. Il suo nome era Izzat Baig. Mentre stava scegliendo, vide la bella Sohni, intenta a decorare con l’ausilio di un piccolo pennello sottile. Non riusciva a staccare gli occhi da lei e se ne innamorò. Chiese a Tulla se poteva comprare il piatto che lei stava dipingendo e Tulla rispose che quel piatto avrebbe dovuto essere cotto prima di essere acquistato perché altrimenti sarebbe caduto in mille pezzi. Izzat Baig disse che sarebbe tornato il giorno dopo.

L’indomani acquistò il piatto ma poi trovò mille altre scuse per tornare tutti i giorni seguenti e comprò tanti altri piatti, vasi, tazze e brocche. Ne comprò e comprò ancora ma i suoi occhi smisero di guardare Sohni. Volevano di più. Quando fu tempo per lui di lasciare il villaggio e ripartire, disse ai suoi compagni di viaggio di proseguire senza di lui. I giorni passavano, i suoi soldi (mohar) diminuivano ma egli continuò a visitare il negozio di Tulla per rivedere Sohni. Tulla, che ancora non aveva capito, decise così di assumerlo come pastore dei suoi bufali e Izzat venne  per questo soprannominato Mahiwal, o “uomo dei bufali”.

L’amore, che è una malattia infettiva, trasferì gli stessi sintomi a Sohni che ormai si era abituata a vedere Mahiwal ogni giorno. Sapeva infatti che lui era venuto solo per vedere lei. Ogni volta che lui era in ritardo, il suo cuore batteva forte ma non appena lei lo incontrava nuovamente, il suo cuore riprendeva a volare. L’amore aveva preso anche lei.

I due amanti iniziarono così ad incontrarsi in segreto. La loro unione era splendida. La loro separazione intollerabile. Ma si riunivano ogni volta che potevano, rubando momenti felici solo per essere uno con l’altro.

L’amore non  si poteva però nascondere e questo tipo di amore era proibito perché la comunità non poteva accettare che una sua figlia sposasse un estraneo. Così i genitori di Sohni organizzarono immediatamente il suo matrimonio con un altro vasaio che viveva nelle vicinanze. Sohni venne mandata a casa del vasaio su un palanchino (doli) per celebrare il matrimonio (Barat). Quando il matrimonio ebbe luogo, Sohni si sentì morire e Mahiwal, sconvolto, decise di vivere come un eremita in una piccola capanna dall’altra parte del fiume.

Il marito di Sohni era un mercante di ceramiche costretto a percorrere lunghe distanze che lo tenevano fuori da casa per giorni e giorni. Così, la notte, Sohni si sedeva sulla sponda del fiume cercando il volto del suo amato. Desiderava raggiungere Mahiwal ma non sapeva nuotare. Ma una notte ebbe l’idea di utilizzare una brocca di terracotta che, stringendola, l’avrebbe aiutata a non affondare mentre attraversava il fiume.Mahiwal la vide arrivare e nuotò fino a quando la incontrò e finalmente furono l’una nelle braccia dell’altro. Gli appuntamenti si ripeterono tutte le notti.

Ma Mahiwal non aveva abbastanza soldi per sfamare la sua Sohni e l’alta marea gli impediva di pescare. Così, una notte, mentre stava aspettando la sua amata, non avendo cibo per lei, si tagliò un pezzo della sua coscia. Non volendo dire alla ragazza del suo dolore, si gettò nel fiume affiché i suoi abiti si bagnassero e nascondessero il suo sangue. Sohni mangiò con gran gusto, felice di quello che lui aveva preparato per lei.

Ma le voci dei loro romantici incontri si diffusero. Una notte, mentre Sohni stava tornando alla sua casa, venne vista e seguita dalla cognata la quale scoprì il segreto del vaso di terracotta che Sohni usava nascondere tra i cespugli. La cognata decise così di  porre fine a questi incontri e sostituì il vaso di terracotta con un vaso non cotto.

La notte successiva, Sohni prese il vaso e, aggrappandovisi, cominciò il suo viaggio per incontrare il suo amante. Quando era quasi  dall’altra parte del fiume, si rese conto che qualcosa non andava. Il vaso, che fino ad allora era stato il suo salvagente, si stava sciogliendo in acqua. Chiamò a gran voce il suo Mahiwal che sentì le grida ed accorse per aiutare il suo amore. Cercò di nuotare a più non posso ma la gamba gli faceva molto male. Tutto fu invano. Mahival vide così il corpo ormai senza vita di Sohni e, a causa della corrente forte, annegò anche lui nel fiume Chenab.”.

Il coraggio di Sohni è ancora oggi raccontato nelle canzoni popolari punjabi “Sohni annegò ma la sua anima nuota ancora in acqua…”. Questa storia d’amore, ambientata intorno al 18° secolo (alla fine del periodo Mughal) è stata resa popolare dal poeta punjabi Fazal Shah Sayyad e continua ad ispirare racconti, ballate, scene teatrali ed anche filmografia. La leggenda racconta che i corpi dei due amanti sono stati recuperati dal fiume Indo, vicino Shahdadpur, Sindh, a circa 75 Km. da Hyderabad  (Pakistan) dove si troverebbe la tomba di Sohni.

by PassoinIndia

vedi la storia qui:

http://youtu.be/Owgx6fezy28

Ultimi indimenticabili momenti

In una domenica d’ottobre, sono andato con certi amici  in un ricovero per anziani perché dovevano visitare un loro parente, qualcuno che conosco anch’io molto bene. Era un po’ fuori città, in mezzo alla  natura e vicino ad un piccolo fiume;  era la prima volta che ne visitavo l’interno quindi ero molto curioso di  vederlo; eravamo appena entrati, quando ho visto che qualcuno stava guardando la tv, qualcuno stava mangiando, qualcuno stava bevendo, qualcuno si stava addormentando sulla sedia. Tutto il posto era molto pulito e anche gli assistenti e le infermiere sembravano piuttosto gentili. Ci siamo seduti in una grande sala con al centro un vecchio camino di maiolica, purtroppo spento. C’erano  già altri visitatori. Poco dopo ho notato che la Signora seduta alla mia sinistra stava parlando da sola e stava piangendo da sola e, di fianco, c’era un’altra Signora, paralizzata, che stava mangiando aiutata dall’ infermiera. Mi sono guardato attorno e ho visto, sulla destra, un’anziana coppia; Lui aveva una rivista nelle mani dove erano pubblicate le foto di “Dallas”e la notizia che presto quella serie di telefilm sarebbe ricominciata; Lui stava parlando con Lei: “te lo ricordi Dallas? Guarda, quel programma sta per ricominciare. Te lo ricordi che lo guardavamo tutti insieme? E che non abbiamo mai lasciato neppure una puntata? Ti ricordi quanto ti piaceva Bobby? E, guarda, adesso tornerà anche il cattivo della famiglia….”. Era lo stesso programma, forse gli stessi autori, le stesse emozioni ma ormai Lei non c’era più con la sua memoria per capire tutto ciò che Lui le stava raccontando.

In solo mezz’ora erano arrivate altre nuove facce di visitatori ma le domande erano sempre le stesse: “ora come stai? come ti senti? mangi? (…)”. Anche se tutti rispondevano che stavano bene, la loro tristezza si vedeva sui loro volti, tanto che ogni domanda del genere appariva superflua; erano tutti lì, radunati, come fosse una squadra che ha appena perduto una partita importante. Forse era la loro solitudine, la nostalgia di stare lontano dalla propria casa, quella stessa casa che avevano costruita con il  sudore, risparmiando ogni piccolo denaro, piena di cose comprate  con altrettanta emozione.  Forse era lo stare lontano dalla famiglia o da tutti quegli amici con cui erano cresciuti e avevano passato la maggior parte dalla loro vita. Forse era per il fatto che la vita non dava loro più nessuna felicità. Forse non rimaneva quasi niente che li rendesse davvero contenti.

Ad ogni mio respiro mi facevo un sacco di domande; cosa è la vita? quale ne è il senso? Sono nato e cresciuto in un piccolo villaggio del nord India e mia mamma diceva sempre che andare ad un funerale è più importante che participare ad un matrimonio, perchè durante una cremazione (da me i morti vengono bruciati) ci si sente ancora più vicini a Dio e quei momenti sono preziosi perché fanno riflettere sulla verità della vita. Anche qui ho provato le stessi emozioni e mi sono fatto le stesse domande; mi sono detto che un giorno noi tutti faremo la stessa fine proprio come quelle Signore e Signori davanti al grande camino. Mi chiedo allora il perchè di tutta questa fatica, il perchè di tutte queste corse per fare carriera, del perchè sia fondamentale stabilire cosa è mio e cosa è tuo se, alla fine, non rimane niente, neanche questo nostro povero corpo di polvere che trucchiamo ogni giorno, per ore ed ore. Spesso sento dire che nella vecchiaia gli anziani diventano cattivi, si arrabbiano con facilità, diventano come bambini. In realta è la vecchiaia che li fa diventare così e basterebbe che qualcuno condividesse con loro un po’ più di qualche momento.

La vecchiaia è davvero brutta, anche se fu una delle cose che, insieme alla morte e alla sofferenza, aveva impressionato Buddha prima che decidesse di lasciare tutti i suoi beni e percorrere il suo cammino di spiritualità.  Non sappiamo se dopo la morte  esista  anche un’altra vita ma quello che so è che tutti avremmo bisogno di ultimi momenti indimenticabili, di tanta cura, prima di poter lasciare tranquillamente questo mondo. Ero sotto questa montagna di domande quando ho sentito la voce del mio amico che mi diceva “andiamo via”. Eravamo vicini all’uscita principale quando la voce di un’infermiera  disse: “aspettate un momento, perché è attivo l’allarme”. Un’altra voce dietro di me disse: “non siamo così preziosi che qualcuno ci porta via”.

Testo e foto by PASSOININDIA

La grande brocca e le quattro gocce – Il grande KUMBH MELA

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Milioni di pellegrini, fedeli di ogni ramo dell’induismo, al di là di ogni distinzione di casta, raggiungono la città sacra, una delle quattro sacre per gli indu, che a rotazione anno per anno, viene deputata ad accogliere questo grande, enorme evento . Si chiama Maha Khumb Mela, allora come oggi, ed è uno dei più grandi raduni religiosi del mondo. Il nome vuol dire “festa della brocca”, quella sacra brocca che, nella antica mitologia induista, nella lotta tra  il bene e il male durata appunto dodici anni, gli dèi celesti contesero agli asura, i cattivi dèmoni perché racchiudeva il nettare dell’immortalità. Gran parte della mitologia hindu è costituita dalle storie dei conflitti fra questi eterni antagonisti. Quando il demone viene sconfitto, l’ordine cosmico si restaura in maniera più completa e felice, quindi il male in questo dinamismo universale ha una funzione necessaria e benefica. In quella lotta, vinta da Vishnu che riuscì ad impadronirsi del vaso, alcune  gocce caddero esattamente sul punto dove sorgono le quattro città sacre: Haridwar, Allahabad, Ujjain, Nasik, tutte, ovviamente, sulle rive di sacri fiumi. Già negli antichi testi induisti, i Purana, il Ramayana, e il  Mahabharata viene documentato il potere purificatore di queste acque. Durante questo periodo hanno luogo le 7 principali abluzioni nelle acque sacre, e precisamente nei giorni in cui si il Sole e il pianeta Giove assumono una certa posizione nelle costellazioni di Acquario e Ariete, creandosi così le condizioni astronomiche propizie per avere  la benedizione della divina trinità (Brahma, Vishnu, Shiva ). I devoti induisti accorrono per bagnarsi nelle fredde acque del fiume che scorre davanti alla piccola città; lo fanno per liberarsi dalla ruota della rinascita (il samsara), o almeno lavare via ogni fardello karmico per iniziare una nuova vita o contare su una reincarnazione (moksa) ad una condizione più elevata. Ancora una volta, cosa comune a altre religioni, l’acqua è purificatrice: ad Allahabad ad esempio il punto più sacro si trova alla confluenza dei tre sacri  fiumi, dove il Saraswati, il fiume invisibile e sotterraneo  della saggezza, già citato nel grande testo antico del Rigveda,  si unisce alla buia e lenta Yamuna (il fiume mitologicamente associato a Krishna e Shiva che, ad Agra, 500 km. più a Nord,  sfiora il Taj Mahal) e alla Madre Ganga, il Gange, raggiante con le sue rapide giallognole; questo è il motivo per cui è questo punto è chiamato il Triveni-Sangam o, appunto, confluenza di tre fiumi.

Al Khumb Mela si incontrano il mondo di chi continua a fruire dei beni materiali e quello di chi ha deciso di rinunciarvi, i sadhu, nudi, centinaia di sadhu, coperti di cenere,  con i capelli indomabili, e i loro simboli  tridenti. Se vai in giro per il grande campo pieno di tende incontri indovini, uomini di fede, monaci, maestri, uomini di Stato, cantanti e cantastorie,  uomini, donne, bambini e neonati, vecchi e vecchie, poveri e ricchi, sani e malati, forti e deboli, e chi spera di morire in questo luogo. Nel fiume galleggiano tagete, cocco e altri petali di fiori che i devoti hanno acquistato per donarle, in questo modo, alle divinità. Di giorno il fiume culla una moltitudine di barche distinguibili per le loro bandierine colorate. La notte le barchette più visibili sono quelle piccole, votive, che custodiscono un fiore e un piccolo lumino acceso, diventando un vestito di lustrini per il Gange. La riva è incredibilmente affollata perché fare le abluzioni vuol dire immergersi, con le mani giunte per pregare, fino a che l’acqua copre completamente tutto il corpo. Qui, come a Lourdes, l’acqua benedetta la si porta via in piccole taniche di plastica che si possono comprare nelle bancarelle. Accorrono anche i turisti, a guardare, a volte distaccati, un fenomeno di massa per strappare qualche fotografia da mostrare agli amici, forse inconsapevoli di assistere ad uno di più grandi atti di fede nel mondo.

Per ogni evento vengono sempre rese note le date delle sacre abluzioni.

testo by PASSOININDIA

vuoi assistere all’evento? visita il nostro sito http://www.passoinindia.com

http://youtu.be/ZR8CowLILSs

Photo di testa by: http://www.corriere.it/esteri/foto/01-2013/indu/gange/kumbh-mela-_076e6b84-5e35-11e2-8040-f298aabecc61.shtml#10

150esimo anniversario della nascita di Swami VIVEKANANDA

Swami Vivekananda, conosciuto nella sua prima vita monastica come Narendra Nath Datta, nacque in una famiglia benestante a Calcutta il 12 gennaio 1863. Ragazzo studioso e dedito alla meditazione, alle soglie della giovinezza Narendra passò un periodo di crisi spirituale, assalito dai dubbi circa l’esistenza di Dio. E ‘stato in quel momento che sentì parlare di Sri Ramakrishna da uno dei suoi professori al college inglese. Un giorno, nel mese di novembre 1881, Narendra andò ad incontrare Sri Ramakrishna, che si trovava presso il Tempio di Kali Dakshineshwar, al quale subito porse una  domanda già fatta a molti altri  ma che non aveva ancora avuto risposte soddisfacenti: “Signore, hai visto Dio?” Senza un attimo di esitazione, Sri Ramakrishna rispose: “Sì, l’ho fatto. Lo vedo chiaramente come vedo te, solo in un senso molto più intenso. ”

Oltre a rimuovere i dubbi dalla mente di Narendra, Sri Ramakrishna lo conquistò con il suo amore puro e disinteressato. Iniziò così una relazione guru-discepolo unica nella storia dei maestri spirituali. Narendra, sotto la guida del Mastro, fece rapidi progressi sul sentiero spirituale.

Quando nel 1885 Sri Ramakrishna si ammalò di cancro alla gola, Swamiji, nonostante la povertà della sua famiglia (il padre era morto da poco)  e l’incapacità di trovare un lavoro per se stesso, entrò nel gruppo dei discepoli come leader.

Sri Ramakrishna instillò in questi giovani lo spirito di rinuncia e di amore fraterno uno per l’altro. Un giorno distribuì loro vesti ocra  e li inviò a chiedere l’elemosina di cibo. In questo modo egli stesso pose  le basi per un nuovo ordine monastico. Diede istruzioni specifiche a Narendra sulla formazione del nuovo ordine monastico. Nel 1886 Sri Ramakrishna morì.

Dopo la morte del Maestro, quindici dei suoi giovani discepoli  cominciarono a vivere insieme in un edificio fatiscente a Baranagar nel Nord Calcutta. Sotto la guida di Narendra, formarono una nuova fraternità monastica. Narendra divenne così Swami Vivekananda (anche se questo nome venne assunto in realtà molto più tardi.)

Dopo aver stabilito il nuovo ordine monastico, Vivekananda sentì la chiamata interiore per la missione più grande della sua vita. Mentre la maggior parte dei seguaci di Sri Ramakrishna pensarono a lui in relazione alla loro vita personale, il pensiero di  Vivekananda era invece rivolto  all’India  India e al resto del mondo, il che lo portò a girare solo per il mondo.  Così, nel bel mezzo del 1890, dopo aver ricevuto le benedizioni di Sri Sarada Devi, la divina consorte di Sri Ramakrishna, nota al mondo come Santa Madre, che allora stava a Calcutta, Swamiji lasciò Math Baranagar e intraprese un lungo viaggio di esplorazione alla scoperta dell’India.

Durante i suoi viaggi in tutta l’India, Swami Vivekananda fu profondamente commosso nel vedere la povertà spaventosa e l’arretratezza delle masse. Fu  il primo leader religioso in India a capire e dichiarare apertamente che la vera causa della caduta dell’India fu l’abbandono della gente. La necessità immediata era  quella di fornire cibo e altre necessità primarie della vita a milioni affamati. Per questo egli sostenne che dovessero essere insegnati metodi di  miglioramento in agricoltura, industria ecc. Fu  in questo contesto che Vivekananda colse  il nocciolo del problema della povertà in India (che era sfuggito all’attenzione dei riformatori sociali dei suoi giorni): a causa di secoli di oppressione, le masse oppresse avevano perso fiducia nella loro capacità di migliorare la loro condizione. Il suo messaggio fu utile ad infondere nelle genti fiducia in se stesse. Esse trovarono in Swamiji un ispiratore  e seguirono il messaggio contenuto  nel principio dell’Atman, la dottrina della potenziale divinità dell’anima, insegnato nei Vedanta, l’antico sistema di filosofia religiosa dell’India. Egli vide che, nonostante la povertà, le masse si erano aggrappate alla religione, ma non era mai stato insegnato loro chi avesse dato la vita, così egli  nobilitò i principi dei Vedanta e spiegò come applicarli nella vita pratica.

Le masse avevano  bisogno di due tipi di conoscenza: la conoscenza secolare per migliorare la loro condizione economica, e la conoscenza spirituale per acquisire fiducia in se stessi e rafforzare il loro senso morale. La domanda successiva fu, come diffondere questi due tipi di conoscenza tra le masse? Attraverso l’educazione – questa fu  la risposta che Swamiji trovò.

Una cosa fu chiara a Swamiji: per realizzare i suoi piani per la diffusione dell’istruzione e per il sollevamento delle masse povere, e anche delle donne, era necessaria una organizzazione efficiente di persone che vi  si dedicassero.  Come disse più tardi, la sua intenzione era di “mettere in moto un meccanismo che porterà più nobili idee finanche il più povero e il più cattivo.” Perciò pochi anni dopo Swamiji fondò la Missione Ramakrishna.

E ‘stato quando queste idee prendevano forma nella sua mente, nel corso delle sue peregrinazioni che Swami Vivekananda sentì parlare del Parlamento delle Religioni del mondo che si sarebbe tenuto  a Chicago nel 1893. I suoi amici e ammiratori in India volevano che frequentasse  il Parlamento. Lui  sentiva che il Parlamento sarebbe stato il luogo giusto per presentare il messaggio del suo Maestro per il mondo, e così decise di andare in America. Un altro motivo che ha spinto Swamiji di andare in America fu quello di cercare un aiuto finanziario per il suo progetto di elevazione delle masse.

Mentre era seduto in meditazione profonda sulla roccia-isola a Kanyakumari,  Swamiji ebbe la certezza della chimata divina a portare aventi questa sua missione. Con i fondi in parte raccolti dai suoi discepoli, Swami Vivekananda partì per l’America da Mumbai il 31 maggio 1893.

I suoi discorsi al Parlamento del mondo delle religioni tenutosi  nel settembre 1893 lo rese famoso come ‘oratore per diritto divino’ e come ‘messaggero di saggezza indiana al mondo occidentale’. Dopo il Parlamento, Swamiji  trascorse quasi tre anni e mezzo di propagazione dei Vedanta,  come vissuti e insegnati da Sri Ramakrishna, per lo più nella parte orientale degli Stati Uniti e anche a Londra.

Tornò in India nel mese di gennaio 1897. In risposta l’accoglienza entusiasta che ebbe ricevuto in tutto il mondo, tenne  una serie di conferenze in diverse parti dell’India, che crearono un grande scalpore in tutto il paese. Attraverso queste lezioni stimolanti e profondamente significative Swamiji tentò di

–          risvegliare la coscienza religiosa del popolo e creare in lui l’orgoglio per il proprio patrimonio culturale;

–           effettuare un  processo di unificazione dell’ induismo, sottolineando le basi comuni delle sette in cui questo si divideva;

–          focalizzare l’attenzione delle persone istruite sulla situazione delle masse oppresse, e di esporre il suo piano per il loro sollevamento mediante l’applicazione dei principi di Pratica Vedanta.

Poco dopo il suo ritorno a Calcutta, Swami Vivekananda compì un altro importante compito della sua missione sulla terra. Fondò il 1 maggio 1897 un tipo unico di organizzazione nota come Ramakrishna Mission, in cui monaci e laici si impegnavano congiuntamente nella  propagazione della pratica Vedanta, e in varie forme di servizio sociale, come realizzazion di ospedali,  scuole, collegi, ostelli, centri di sviluppo rurale ecc, e conduzione di soccorso di massa e lavoro di riabilitazione per le vittime di terremoti, cicloni e altre calamità, in diverse parti dell’India e di altri paesi.

Nei primi mesi del 1898 Swami Vivekananda acquisì un grande  pezzo di terra sulla riva occidentale del Gange in un luogo chiamato Belur per avere una dimora permanente per il monastero e per l’Ordine monastico originariamente iniziato a Baranagar; lo registrò come Ramakrishna Math dopo un paio di anni. Qui Swamiji stabilì un nuovo, modello universale della vita monastica, adattando antichi ideali monastici  alle condizioni della vita moderna, che dava uguale importanza all’illuminazione personale e al servizio sociale, e che era aperta a tutti gli uomini senza distinzione di religione, razza o casta .

Anche  in Occidente molte  persone furono  influenzate dalla vita di Swami Vivekananda e dal suo messaggio. Alcuni di loro divennero suoi discepoli o amici devoti. Tra questi, i nomi di Margaret Noble (più tardi conosciuta come Sorella Nivedita), il capitano e la signora Sevier, Josephine McLeod e Sara Ole Bull, meritano una menzione speciale. Nivedita dedicò la sua vita a educare le ragazze a Calcutta. Swamiji ebbe anche moltissimi dicepoli indiani.

Nel giugno del 1899, arrivò nuovamente in Occidente  per la seconda volta, dove trascorse la maggior parte del suo tempo nella costa occidentale degli Stati Uniti. Dopo aver tenuto numerose conferenze, tornò a Belur Math nel mese di dicembre 1900. Spese in India il resto della sua vita che ispirò e fu guida per molte persone, sia monastici che e laici. Lavorò incessantemente, soprattutto tenendo conferenze. finché la sua salute si consumò e Swamiji morì la notte del 4 luglio 1902. Prima della sua Mahasamadhi (che vuol dire lasciare il corpo perché l’anima non muore mai)  scrisse ad un seguace occidentale: “Può darsi che sia buona cosa lasciare questo corpo o gettarlo via come un abito usurato. Ma non cesserò  di lavorare. Io ispirerò gli uomini in tutto il mondo fino a quando il mondo intero saprà di essere un tutt’uno con Dio.”.

L’eminente storico britannico A L Basham fece una valutazione oggettiva dei contributi di Swami Vivekananda alla cultura mondiale; Egli disse di Swamiji: “nei secoli a venire, sarà ricordato come uno dei principali  formatori del mondo moderno …” Alcuni dei principali contributi che Swamiji apportò al  mondo moderno sono di seguito indicate:

1. Nuovo significato della Religione: Uno dei contributi più significativi di Swami Vivekananda al mondo moderno è la sua interpretazione della religione come esperienza universale della Realtà trascendente, comune a tutta l’umanità. Swamiji ha incontrato la sfida della scienza moderna, mostrando che la religione è tanto scientifica quanto lo è la scienza stessa, la religione è la ‘scienza della coscienza’. In quanto tale, la religione e la scienza non sono in contraddizione tra loro, ma sono complementari. E’ una concezione universale della religione libera da superstizioni, dogmatismo, clericalismo e intolleranza,  che fa della religione l’esercizio più alto e più nobile, la ricerca della suprema libertà, conoscenza, felicità.

2. Nuova considerazion dell’uomo: Il concetto di ‘divinità potenziale dell’anima’ diffuso da Vivekananda nobilita l’uomo. L’epoca attuale è l’età dell’umanesimo in cui l’uomo dovrebbe essere la preoccupazione principale e il centro di tutte le attività e di pensiero. Attraverso la scienza e la tecnologia l’uomo ha raggiunto grande prosperità e potenza, e i moderni mezzi di comunicazione e i viaggi hanno trasformato la società umana in un ‘villaggio globale’. Ma la degradazione dell’uomo è avvenuta a ritmo sostenuto, come testimonia l’enorme aumento di famiglie divise, l’immoralità, la violenza, la criminalità, ecc. nella società moderna. Il concetto di divinità potenzialità dell’anima impedisce questo degrado, divinizza le relazioni umane, e rende la vita significativa e degna di essere vissuta. Swamiji ha gettato le basi per un’umanesimo’, che si manifesta attraverso una serie di movimenti neo-umanistico e nell’interesse attuale della meditazione in tutto il mondo.

3. Nuovi principii di morale ed etica: La morale prevalente, sia nella vita individuale che nella vita sociale, si basa soprattutto sulla paura – la paura della polizia, paura del ridicolo pubblico, la paura del castigo di Dio, la paura del Karma, e così via. Le attuali teorie di etica, inoltre, non spiegano perché una persona dovrebbe essere morale ed essere buona con gli altri. Vivekananda ha dato una nuova teoria di etica e nuovo principio della morale in base alla purezza intrinseca e all’unicità della Atman (anima). Dovremmo essere puri perché la purezza è la nostra vera natura, il nostro vero Sé divino o Atman. Allo stesso modo, dobbiamo amare e servire il nostro prossimo, perché siamo tutti un uno con lo Spirito Supremo conosciuto come Paramatman o Brahman.

4. Ponte tra Oriente e Occidente: Un altro grande contributo di Swami Vivekananda fu quello di costruire un ponte tra la cultura indiana e la cultura occidentale. Lo fece attraverso l’interpretazione delle  scritture indù, della filosofia indù, del modo di vita e delle istituzioni spiegandolo ai cittadini occidentali in un idioma che si poteva capire. Fece si che gli occidentali si rendessero conto che dovevano imparare molto dalla spiritualità indiana per il loro benessere. Egli ha dimostrato che, nonostante la sua povertà e arretratezza, l’India ha portato un grande contributo alla cultura mondiale. In questo modo è stato determinante nel porre fine all’isolamento culturale dell’India dal resto del mondo. E ‘stato l’India il primo grande ambasciatore culturale in Occidente.

D’altra parte, l’interpretazione di Swamiji delle antiche scritture indù, la filosofia, le istituzioni, ecc. ha preparato la mente degli indiani ad accettare e applicare nella vita pratica i due migliori elementi della cultura occidentale, vale a dire la scienza e la tecnologia e l’ umanesimo. Swamiji ha insegnato agli indiani come padroneggiare la scienza occidentale e la tecnologia e, al tempo stesso, lo sviluppo spirituale. Swamiji ha anche insegnato agli indiani come adattare l’umanesimo occidentale (in particolare le idee di libertà individuale, l’uguaglianza e la giustizia sociale e il rispetto per le donne) alla cultura indiana.

 
Contributi di Swamiji in India.
 
Nonostante le sue innumerevoli diversità linguistiche, etniche, storiche e regionale, l’India ha avuto da sempre un forte senso di unità culturale. E ‘stato, tuttavia, Swami Vivekananda che ha rivelato i veri fondamenti di questa cultura, e quindi chiaramente definito e rafforzato il senso di unità come nazione.Swamiji ha insegnato agli indiani a comprendere il grande patrimonio spirituale del loro paese, e quindi ha dato loro l’orgoglio per il  loro passato. Inoltre, ha sottolineato gli inconvenienti della cultura occidentale e la necessità del contributo indiano per ovviare a questi inconvenienti. In questo modo Swamiji ha reso l’India una nazione con una missione globale.Senso di unità, orgoglio del passato, senso della missione – questi sono stati i fattori che hanno dato vera forza e scopo al movimento nazionalista indiano. Diversi leader del movimento di liberazione dell’India hanno riconosciuto il loro debito nei confronti di Swamiji. Netaji Subhash Chandra Bose ha scritto:” Swamiji ha armonizzato l’Oriente e l’Occidente, la religione e la scienza, passato e presente. Ed è per questo che è grande. I nostri connazionali hanno ottenuto, come mai prima, rispetto di sé, autonomia e autoaffermazione dai suoi insegnamenti. “

Il contributo più esclusivo di Swamiji alla creazione di  una nuova India è stato quello di aprire le menti degli Indiani al loro dovere di masse oppresse. Molto prima che le idee di Karl Marx fossero conosciute in India, Swamiji aveva parlato del ruolo delle classi lavoratrici nella produzione della ricchezza del paese. Swamiji fu il primo leader religioso in India a parlare per le masse, formulare una filosofia precisa di servizio, e organizzare su larga scala dei servizi sociali.

Liberamente tradotto da http://www.belurmath.org/swamivivekananda.htm

IL TE’

Il Tè è la bevanda più diffusa al mondo dopo l’acqua.  La sua storia comincia dalla China dove già nel II secolo A.C. si consumava, anche se nessuno  sa chi realmente l’abbia  scoperto.

Una leggenda racconta che, un giorno dell’ann0 2737 AC, l’imperatore cinese Shen Nung era seduto sotto un albero e, mentre i suoi servi stavano bollendo dell’ acqua, alcune foglie di un albero di Camellia sinensis vi finirono dentro. Shen Nung, che era un erborista famoso, decise di provare l’infusione che i suoi servi avevano accidentalmente creato.

In tombe risalenti alla dinastia Han (206 aC – 220 dC) sono stati rinvenuti contenitori da tè, ma fu sotto la dinastia Tang (618-906 dC), che il tè si affermò definitivamente come la bevanda nazionale della Cina  a tal punto che, durante il tardo VIII secolo, uno scrittore di nome Lu Yu scrisse il primo libro interamente dedicato al Classic Ch’a Ching, o tè. Poco dopo il tè venne introdotto in Giappone  da monaci buddisti giapponesi che avevano viaggiato in Cina. Il rituale del tè è ancora parte integrante della cultura giapponese.

Nella seconda metà del XVI secolo ci sono le brevi prime citazioni sul tè ormai consumato tra gli europei, soprattutto tra i portoghesi che avevano vissuto in Oriente come commercianti e missionari, e gli olandesi  che ne curarono l’importazione in Occidente  negli ultimi anni del XVI secolo, quando anche stabilirono una stazione commerciale sull’isola di Java da dove, nel 1606, la prima partita di tè fu spedita dalla Cina all’ Olanda. Il Tè divenne ben presto una bevanda di moda tra gli olandesi, e da lì si diffuse in altri paesi in Europa occidentale ma rimase una bevanda per i ricchi a causa del suo prezzo elevato .

La Gran Bretagna non era ancora diventata la nazione di grandi consumi di tè che è oggi. Dal 1600, la British East India Company ebbe il monopolio dell’importazione delle merci dai paesi extraeuropei, ed è probabile che il personale di bordo di queste navi commerciali portasse nel paese di origine il tè come regalo per la famiglia  e gli amici.  Ma il primo riferimento al tè in questo paese fu su un annuncio pubblicato su un giornale di Londra, Mercurius Politicus, nel 1658 il quale annunciò che  il  Tcha  era in vendita nella prima cafeteria aperta a Londra nel 1652, e il tenore dell’annuncio lasciava intendere che tale bevanda fosse ancora sconosciuta alla maggior parte dei lettori.

La coltivazione e la preparazione del tè in India ha una lunga storia di applicazioni nella medicina tradizionale  ayurvedica oltre che per il consumo. La produzione commerciale di tè in India cominciò con l’arrivo della Compagnia Britannica delle Indie Orientali e, da quel momento, grandi appezzamenti di terreno vennero convertiti  alla produzione di massa del tè.

Oggi l’India è uno dei maggiori produttori di tè in tutto il mondo, ma oltre il 70% del tè è consumato all’interno del Paese. Alcuni tè famosi, come il Darjeeling  e l’Assam, crescono esclusivamente in India  ma globalmente l’India ne produce, ne certifica e ne commercializza una estesa gamma sotto il controllo del Consiglio del Tè indiano.

Ci sono alcune qualita di tè quali il Tè bianco, il tè nero, il tè oolong, il tè verde, e il pu’er. Il Tè piu costoso del mondo si chiama Da Hong Pao e costa più di 1.200 euro al chilo. Al mondo esistono solo sei piantine da cui si raccolgono le foglioline di questo tè e si trovano in Cina, in una remota zona di montagna nella provinca del Fujan. Questo tè famoso per il suo aroma e la sua rarità era un tempo riservato agli imperatori.

Bere tè aiuta l’organismo a prevenire malattie influenzali e virali, a proteggere il cuore da patologie cardiovascolari ed è un toccasana per il corpo per il suo alto potere idratante e anche diuretico.

Chai” è il nome dato al tè in molti paesi dell’Asia e dell’Europa orientale. In India si usa quotidianamente questa bevanda calda fatta con tè, latte, e spezie varie dette “Chai Masala” (cardamomo,  cannella, zenzero, chiodi di garofano, anice, vaniglia, etc.).

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A rivederci Damini

Oggi L’ India piange per Te, Damini. Il Tuo corpo era troppo compromesso e non ha ascoltato la Tua preghiera “voglio vivere”.

Cercare  ogni mattina sul giornale Tue notizie era diventato un appuntamento quotidiano,  fino a stamattina. Mi ero affezionata a Te, donna senza volto che oggi, in quanto donna, mi lasci un vuoto.

Vorrei darTi una rosa per salutare Te che hai mosso l’India. Grazie Damini per il Tuo sacrificio che ha dato il coraggio a tutte le donne del mondo per combattere la loro battaglia.

Cercando le migliori parole che meriti, mutuo quelle, in poesia,  della nostra Alda MERINI, poesia che Lei ha dedicato a tutte le donne:

Il regno delle donne 

C’è un regno tutto tuo
che abito la notte
e le donne che stanno lì con te
son tante, amica mia,
sono enigmi di dolore
che noi uomini non scioglieremo mai.
Come bruciano le lacrime
come sembrano infinite
nessuno vede le ferite
che portate dentro voi.
Nella pioggia di Dio
qualche volta si annega
ma si puliscono i ricordi
prima che sia troppo tardi.

Guarda il sole quando scende
ed accende d’oro e porpora il mare
lo splendore è in voi
non svanisce mai
perché sapete che può ritornare il sole.
E se passa il temporale
siete giunchi ed il vento vi piega
ancor più forti voi delle querce e poi
anche il male non può farvi del male.

Una stampella d’oro
per arrivare al cielo
le donne inseguono l’amore.
Qualche volta, amica mia,
ti sembra quasi di volare
ma gli uomini non sono angeli.
Voi piangete al loro posto
per questo vi hanno scelto
e nascondete il volto
perché il dolore splende.
Un mistero che mai
riusciremo a capire
se nella vita ci si perde
non finirà la musica.

Guarda il sole quando scende
ed accende d’oro e porpora il mare
lo splendore è in voi
non svanisce mai
perché sapete che può ritornare il sole
dopo il buio ancora il sole.
E se passa il temporale
siete prime a ritrovare la voce
sempre regine voi
luce e inferno e poi
anche il male non può farvi del male.

A rivederci, Damini.